domenica 30 ottobre 2011

IL SERMONE DELLA MONTAGNA - Dal Vangelo di Matteo - LE BEATITUDINI


Il Vangelo secondo Matteo (Discorso della Montagna) - Pier Paolo Pasolini: http://www.youtube.com/watch?v=L-nY29bW2LA







IL VANGELO DI MATTEO
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Nella storia del cristianesimo, il Vangelo di Matteo, è stato senz’altro il vangelo più popolare, più letto e commentato e, anche se quello di Marco è considerato il primo in origine cronologico, l’opera di Matteo rimane una presenza capitale all’interno della Chiesa, che la propone spesso nella liturgia e nella catechesi.


Nella composizione dei singoli vangeli, ogni evangelista ha una sua prospettiva, segue un suo progetto, disegna un suo ritratto della figura di Cristo, risponde alle esigenze della comunità cui indirizza il suo racconto. Per Matteo si pensa a destinatari di origine ebraica convertiti al cristianesimo, legati alle loro radici, ma spesso in tensione con gli ambienti da cui provenivano.


Si spiega, così, la ricchezza delle citazioni, delle allusioni e dei rimandi all’Antico Testamento nel vangelo di Matteo. In questa linea si può interpretare il rilievo dato ai primi cinque libri biblici - conosciuti come Pentateuco o Torah - che costituiscono la legge per eccellenza. Gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in cinque grandi discorsi: il primo ha come sfondo un monte - ed è perciò chiamato il Discorso della montagna (capitoli 5-7) - e può essere interpretato in riferimento al Sinai: Cristo non è venuto ad abolire la legge di Mosè ma a portarla a pienezza.


Il regno di Dio è il tema centrale della predicazione e dell’azione di Gesù. Nel secondo discorso, detto “missionario” (capitolo 10), il regno è annunziato, accolto e rifiutato. Nel terzo, il discorso in “parabole” (capitolo 13), il regno è descritto nella sua crescita lenta ma inarrestabile nella storia. Nel quarto discorso (capitolo 18) è la Chiesa - un argomento caro a Matteo - che diventa il segno del regno durante il cammino della storia, nell’attesa che esso giunga a pienezza nella salvezza finale (quinto discorso, “escatologico”, capitolo 24).


Questa struttura fondamentale (i 5 discorsi) è preceduta da due blocchi importanti: il vangelo dell’infanzia (cc. 1-2) e la presentazione di Gesù in pubblico: battesimo e tentazioni (cc. 3-4).


Questa è l’opera di Matteo: un grandioso abbozzo della storia di Cristo, della Chiesa e del regno.






· L’autore - luogo - data di composizione


La tradizione unanime della Chiesa antica[1] attribuisce il primo vangelo a Matteo, chiamato anche Levi, l’apostolo che Gesù chiamò al suo seguito, distogliendolo dalla professione di pubblicano, cioè di esattore delle imposte (9, 9-13). La stessa tradizione, attestata fin dal II secolo, afferma che Matteo scrisse il primo vangelo, forse tra gli anni 40 e 50, in Palestina, per i cristiani convertiti dal giudaismo, in aramaico, la lingua comune in Palestina ai tempi di Gesù, ma di esso non abbiamo traccia. A noi, invece è giunto il testo greco di Matteo, scritto probabilmente nel decennio che va dal 70 all’80 d.C.


Se il Vangelo fu scritto dopo il 70 d.C., ci sono ottime ragioni per pensare che sia stato scritto fuori della Palestina. Numerosi studiosi indicano Antiochia di Siria, una città dove i giudeo-cristiani (cristiani convertiti provenienti dal giudaesimo) e gli etnico-cristiani (i neo-convertiti al cristianesimo) si incontravano e convivevano, e dove le questioni delle relazioni tra la legge e il vangelo erano con ogni probabilità molto scottanti. Il materiale peculiare a Matteo è meglio spiegato se considerato come attinto direttamente a tradizioni palestinesi, il che sarebbe stato possibile nella Siria.


· Le fonti


Oltre al materiale di Marco e Q, Matteo ne contiene dell’altro suo proprio. Dato che Mc e Q sono fonti scritte, numerosi critici pensano a un terzo documento per il materiale peculiare a Matteo. Non c’è alcuna ragione valida che impedisca di pensare che questo materiale sia consistito in brani sparsi di tradizione orale messi per la prima volta in iscritto da Matteo.


· Caratteristiche letterarie


E’ convinzione oggi comune che i ricordi di Gesù, cioè le sue parole e i suoi gesti, non siano stati tramandati meccanicamente, ma raccolti, ordinati, elaborati in base alle esigenze della fede delle diverse comunità cristiane: esigenze pastorali, di culto e altro.


Tutto questo avvenne prima che i diversi evangelisti fissassero i ricordi nei loro scritti, orientandoli e scegliendoli in modo da mettere in luce - a loro volta - il proprio particolare punto di vista: un conto è la prospettiva teologica di Matteo, un conto quella di Marco, un conto quella di Luca. Possiamo dire che i ricordi che risalgono a Gesù, furono tramandati obbedendo a una duplice finalità: alla memoria di Gesù, a cui restano sempre fedeli, e alla propria contemporaneità, a cui si rivolgono. Storia e fede, dunque, ricordo e teologia, i due aspetti sono indissolubilmente uniti.


Perciò nel Vangelo noi sentiamo la voce di Gesù, la voce della Tradizione (la predicazione orale degli Apostoli) che l’evangelista ha messo per iscritto, attualizzando a sua volta il messaggio e infine la voce della Chiesa che lo ha predicato.


Ma per una lettura attenta dei Vangeli, bisogna tenere presente alcune regole:


- Per leggere un brano evangelico è indispensabile ricostruire il sottofondo veterotestamentario, esplicito e implicito, a cui esso fa riferimento. Tale ricostruzione serve per cogliere, da una parte, la continuità di Gesù e, dall’altra, la sua insopprimibile novità. Questo è particolarmente importante per il Vangelo di Matteo.


- Occorre inoltre - ed è la seconda regola - studiare il singolo brano alla luce di tutto il contesto evangelico e, dove è possibile, fare il confronto con i testi paralleli degli altri evangelisti. Il confronto è indispensabile per una lettura che voglia essere in grado di avvertire gli interessi particolari di un evangelista, le sue sottolineature, le sue preoccupazioni, il suo disegno teologico e il modo con cui svolge il discorso, la sua originalità nel predicare il mistero di Gesù.


- In terzo luogo, occorre collocare il brano nella vita di Gesù e nella vita della successiva comunità. Abbiamo detto, infatti, che le parole di Gesù vissero nella Chiesa, continuamente predicate, rilette e approfondite in base ai bisogni e ai problemi pastorali delle diverse comunità.


- Infine, occorre leggere il testo alla luce della nostra vita attuale, così da ripetere, a partire dai nostri problemi e delle nostre situazioni, quello che le comunità di allora hanno fatto a partire dai loro problemi e dalle loro situazioni.


· Caratteristiche dottrinali


Matteo è molto interessato alla dottrina di Gesù. I discorsi sono più numerosi e più ampi degli altri Vangeli. La stessa disposizione della materia sembra seguire un ordine didattico, che fa perno a cinque grandi discorsi: quello della montagna, quello missionario, il discorso in parabole, quello ecclesiale e quello escatologico. In questo il Vangelo di Matteo si diversifica molto da quello di Marco, il quale riferisce pochi discorsi e preferisce i fatti.


Ma nonostante questo innegabile interesse per la dottrina di Gesù, Matteo non vuole assolutamente ridurre il Vangelo a una dottrina. Egli è ben consapevole che il Vangelo è innanzitutto una persona e una storia. Ecco perché, dietro la struttura letteraria che fa perno sui cinque discorsi, è visibile la storia di Gesù, identica al racconto di Marco: dalla Galilea alla Giudea, dal battesimo nel Giordano alla passione/risurrezione. Matteo unisce sapientemente racconto e catechesi, storia e dottrina: la dottrina nasce dalla storia di Gesù, la illustra e la commenta.


Dire che la catechesi di Matteo spiega una storia, significa affermare che il suo Vangelo è in primo luogo cristologico. L’unico protagonista è Gesù, e il primo intento dell’evangelista è di mostrarci il significato salvifico della sua persona e della sua parola. Gesù è il Maestro, il nuovo Mosè superiore all’antico, il profeta portatore della parola di Dio ultima e definitiva. In tal modo il giudaesimo è invitato a superarsi perché la parola ultima non è quella di Mosè, né la tradizione dei padri, ma la parola di Gesù.


Ma il Vangelo di Matteo è anche sensibile alla Chiesa e Matteo è l’unico evangelista che mette in bocca a Gesù la parola “ecclesia” (16,18 e 18,17). Ma soprattutto è ecclesiale perché i temi che tratta sono scelti in base alle esigenze della comunità.


Un primo importante problema è la continuità con l’Antico Testamento. Continuità che sembrava messa in questione dal rifiuto che il popolo giudaico ha opposto a Gesù. Matteo si preoccupa continuamente di mostrare che la storia di Gesù e della sua comunità è in armonia con le Scritture, ecco perché l’evangelista cita con frequenza l’Antico Testamento.


Siamo in una comunità giudeo-cristiana degli anni 80, circondata da un giudaesimo che, avendo perso la propria consistenza politica dopo la catastrofe dell’anno 70, si stringe intorno alla Legge e a una rinnovata fedeltà ai principi e alla prassi giudaica. L’evangelista si preoccupa di indicare l’originalità cristiana e le caratteristiche della giustizia evangelica. Ecco perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito/confronto con la dottrina degli scribi e dei farisei.


Né mancano, infine, i problemi interni alla stessa comunità cristiana. Molte sono le situazioni che necessitano di chiarezza: come concepire la missione in mezzo ai pagani e come condurla? Come risolvere, alla luce delle esigenze di Gesù, alcuni casi della vita, quali il matrimonio, le ricchezze, l’autorità? Che posizione prendere di fronte alle divisioni che affiorano nella stessa comunità, di fronte ai peccati che continuano a riprodursi e agli scandali? Sono alcuni interrogativi molto concreti che Matteo non passa in alcun modo sotto silenzio. Anche per questo il suo Vangelo ci risulta particolarmente vivo e attuale.






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Sia Matteo che Luca parlano del concepimento e della nascita di Gesù e di alcuni eventi che seguirono la nascita. Né Marco né Giovanni accennano a questo periodo della vita di Gesù. L’assenza in Marco dei racconti dell’infanzia fa pensare che questi racconti non esistessero nella forma più antica delle tradizioni cristiane riguardanti Gesù e che varie tradizioni concernenti l’infanzia si siano formate più tardi. La versione di Matteo di queste tradizioni è fortemente influenzata dall’uso di testi veterotestamentari. Anche l’immaginazione teologica e il simbolismo giocano un ruolo importante nella composizione dei racconti dell’infanzia.


La genealogia di Gesù (1, 1-17)


La genealogia[2] con la quale Matteo apre il suo racconto suscita nel lettore un’impressione negativa: si direbbe una pagina arida e inutile, quindi da saltare. In realtà Matteo intende comunicarci profondi insegnamenti teologici, espressi però con il linguaggio di un’antica comunità giudeo-cristiana.


L’intenzione vera delle genealogie bibliche non è tanto quella di offrire un rapporto di discendenza, quanto quella di tracciare, attraverso aridi nomi e in modo scheletrico, una storia che continua. Il centro di interesse che guida Matteo nel costruire questa pagina è Gesù, e precisamente in quanto figlio di Davide. Questo nel contesto di una polemica con i giudei, gli echi della quale sono rimasti nel Vangelo di Giovanni (7, 41-43): “Alcuni dicevano: è il Messia! Ma altri ribattevano: il Messia viene forse dalla Galilea? La Scrittura non afferma che il Messia viene dal seme di Davide, e da Betlemme, il villaggio di Davide? Ci fu dunque dissenso tra la folla per causa sua”.


Con la genealogia, quindi, Matteo intende affermare che Gesù è figlio di Davide (tramite Giuseppe che lo adottò legalmente), ma nello stesso tempo ci fa capire che Gesù è molto di più. Difatti nel v. 16 (“Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo”) Matteo introduce un’evidente rottura nella genealogia. Lo schema rigido (il tale generò il tale) che l’evangelista ha finora scrupolosamente osservato, qui viene spezzato: la generazione è sottratta a Giuseppe e il verbo non è più all’attivo (generò) ma al passivo (fu generato): chi è il generatore? La risposta ci verrà data più avanti, nel racconto della nascita (1, 18-25). Per ora ci basti vedere come la linea del sangue venga ridimensionata ed è accompagnata dalla linea dell’elezione: è questa ciò che conta. Gesù non è solo figlio di Davide, ma viene da Dio.


La genealogia è divisa in tre blocchi di 14 nomi ciascuno e i capisaldi di questa triplice divisione sono Abramo, Davide e l’esilio. Il nome Abramo evoca l’elezione e l’apertura universale di Dio (Gen. 12, 1-3), cioè un progetto di salvezza che non è legato al sangue ma che si estende a tutti. Il re Davide evoca, invece, lo splendore del regno e le speranze messianiche ad esso legate (2 Sam 7, 11-14; Sal 2). Ciò che Abramo e Davide rappresentavano, ora si compie in Gesù. Ma il passaggio tra Davide e Gesù non è immediato: c’è l’esilio che segnò la fine della casa di Davide come grandezza politica. Gesù è un re senza corona, nessun cedimento a un progetto messianico politico e restauratore.


Il numero 14 è un evidente tentativo simbolico-numerico di Matteo per mostrare la perfezione (il numero tre) e la pienezza (il numero sette) del piano di salvezza che Dio porta a compimento in Cristo.


La genealogia, infine, menziona quattro donne, e questo è qualcosa di insolito che va spiegato.


- Potrebbe darsi che Matteo abbia voluto ancora una volta mettere in luce l’universalismo della nuova Alleanza, già prefigurata nella discendenza del Messia (le donne sono infatti straniere): il Cristo viene dall’umanità, non solo da Israele.


- Potrebbe anche aver voluto farci notare che la salvezza è offerta non solo ai giusti, ma anche ai peccatori (le donne nominate si ricollegano a situazioni di peccato) e che, comunque, il Cristo è solidale con la storia degli uomini, una storia non di santi ma di peccatori.


- Potrebbe, infine, aver voluto sottolineare che il disegno di Dio finisce sempre col compiersi, anche se, a volte, per vie sconcertanti. Le tre ipotesi non si escludono.


Tamar ebbe tramite inganno un’unione incestuosa col suo genero Giuda (Gen 38).


Raab era la prostituta di Gerico che offrì rifugio alle spie di Israele (Giosuè 2).


Rut era una moabita, quindi straniera, che entrò a far parte della comunità israelitica.


Betsabea era la moglie di Urìa e la compagna di adulterio di Davide.


Dunque, la promessa di Dio si realizza a dispetto degli uomini, per vie sconcertanti e impensate. Accanto alla linea del sangue, prevedibile, c’è la linea della sorpresa e dell’elezione: accanto al popolo giudaico c’è quello degli stranieri.


In definitiva, il Cristo non è frutto della volontà degli uomini ma della volontà di Dio che sa procedere anche quando gli uomini vorrebbero sbarrarle la strada.


La nascita di Gesù (1, 18-25)


In questa sezione e nella successiva appaiono delle differenze degne di nota tra Matteo e Luca. Giuseppe è la figura centrale e attiva in Matteo. Egli è il destinatario della rivelazione che perviene a lui attraverso l’apparizione di un angelo nel sogno. Matteo è concorde con Luca nell’affermare la nascita verginale e la residenza di Gesù a Nazaret durante la sua infanzia.


Giuseppe è chiamato “giusto” perché da una parte è desideroso di osservare la legge (che obbligava il marito a sciogliere il matrimonio in caso di adulterio[3]: Maria, infatti, era incinta) e, dall’altra, mitiga con la magnanimità il rigore della legge (evita di esporre sua moglie alla pubblica diffamazione).


Ma Giuseppe è anche “giusto” perché constatando una presenza di Dio, una economia superiore, si ritira di fronte ad essa, senza pretese. “Giusto” ha così il senso tipico di Matteo, cioè accettazione del piano di Dio anche là dove esso sconcerta il proprio.


Tenendo presente questo senso che Matteo dà al termine “giusto”, possiamo concludere che l’annuncio dell’angelo non ha come oggetto il concepimento verginale, che Giuseppe già conosceva (e che costituiva appunto il motivo per cui pensava di ritirarsi nell’ombra). Ma l’oggetto è invece di fargli conoscere il compito che lo attendeva, cioè quello d’imporre il nome al bambino e assumerne la paternità legale.


La nascita di Gesù è collocata all’interno del grande disegno divino della salvezza, già annunziato ai profeti e già in atto nella prima alleanza con Israele: questo è lo scopo della citazione di Isaia (7,14) che Matteo colloca a questo punto del racconto. Non per nulla il nome di Gesù rimanda al verbo ebraico “salvare”, come puntualizza l’angelo (1,21), e a lui si adatta in pienezza il titolo di Emmanuele, cioè Dio-con-noi.


L’espressione “Dio con noi” la ritroveremo alla fine del Vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (28,20). Cristo è presente nella Chiesa e continua ad essere il Dio con noi. Non solo è presente nella comunità, ma è il salvatore e il sostegno della comunità. Il vangelo di Matteo non perde occasione per dirci i luoghi privilegiati della presenza del Risorto: nella comunità radunata nel suo nome (18,20), negli apostoli missionari (10,40), nei fratelli bisognosi (25,31), nella chiesa che predica (28,20).


All’interrogativo “chi è Cristo?” Matteo risponde: Gesù è il Figlio di Dio, perché è nato dallo Spirito, è un dono dall’alto e non solo dalla discendenza Davide[4]. Egli viene da Davide, ma attraverso una via di elezione che supera quella del sangue. In lui avviene un compimento nuovo, inatteso e per molti deludente: quello della Croce.




Il racconto dei Magi[5] illustra il tema del Cristo cercato e rifiutato: il Messia è il segno di contraddizione. L’arrivo dei Magi, guidati dalla stella[6], che li conduce a Betlemme[7], è il segno che Gesù compie le promesse antiche, ma il compimento è accompagnato dal giudizio su Israele: i lontani accolgono il Messia e i vicini lo rifiutano. Tutto il Vangelo di Matteo è segnato da questa sorpresa: basti pensare alla parabola dei vignaioli omicidi (21,33ss.) o alla parabola della grande cena (22, 1-14), ambedue mostrano che il regno passa da Israele ai pagani, e che questo passaggio rientra nel disegno di Dio. Abbiamo parlato di sorpresa, ma questo non significa novità nel comportamento di Dio, tanto meno rottura nel suo modo di condurre la storia. Al contrario: Dio non fa che applicare anche in questo caso, come sempre, il principio dell’accoglienza della Parola, che è un criterio decisivo: è l’accoglienza della Parola (con la disponibilità alla conversione), che distingue chi appartiene al regno e chi no.


Ma in questo episodio non c’è solo il significato di Cristo, ma anche quello della Chiesa. La pagina dei Magi è una solenne dichiarazione di missionarietà e di universalismo. Questo episodio richiama la conclusione dell’intero Vangelo: “Andate e istruite tutte le genti…” (28,18). Due pagine missionarie che aprono e chiudono la storia di Cristo, con una differenza: nell’episodio dei Magi sono le genti che arrivano a Gerusalemme, alla fine del vangelo è la Chiesa inviata al mondo. Questo seconda annotazione esprime più profondamente la concezione della missione come servizio, come un uscire da sé per andare alla ricerca degli altri.




Anche la fuga in Egitto, che poteva essere solo un rifugio temporaneo verso le vicine frontiere meridionali, è letta alla luce di un passo di Osea: “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (11,1). Questo testo si riferisce alla liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto. Per Osea, la vera storia di Israele comincia con l’uscita dall’Egitto, e Gesù è presentato da Matteo come colui che attua di nuovo nella sua vita le fasi storiche d’Israele, egli è infatti il nuovo Israele.


La strage dei bambini di Betlemme corrisponde alle numerose uccisioni che hanno accompagnato il regno di Erode, particolarmente sensibile alla tutela del suo potere e attento a ogni notizia di eventuali pretese o usurpazioni. Ma l’evangelista citando Geremia (31,15)[8], mostra che anche attorno a Gesù si sta attuando una vicenda di morte e di vita, così come era accaduto nella storia di Rachele, considerata come la madre di Israele che piange le vittime del suo popolo. Geremia è citato per l’evidente parallelismo fra il pianto di Rachele e il pianto delle madri, ma se leggiamo tutto il contesto, Geremia non parla di pianto, ma di consolazione: la salvezza è vicina, il Signore è tornato a liberare e a salvare il suo popolo. E’ la sorprendente storia di Gesù: cercato dai Magi e rifiutato da Erode, egli è in cammino verso la croce, che non è la sua fine ma il suo trionfo. E’ un altro aspetto del mistero di Cristo: la potenza è nascosta nella debolezza.


Con questo racconto si chiude il Vangelo dell’infanzia. Matteo, fedele al suo programma narrativo, già chiarito con la genealogia, che aveva lo scopo di dimostrare che Gesù appartiene al popolo della promessa di Abramo e alla stirpe promessa di Davide, l’evangelista ci presenta il ruolo fondamentale ricoperto da Giuseppe: egli funge da vero custode della Santa Famiglia, ponendo la propria esperienza e disponibilità al servizio del piano divino, che gli fu rivelato di volta in volta attraverso il sogno (2,13.19.22).


Giuseppe, sull’esempio del grande patriarca Abramo, custodisce il figlio della promessa, il figlio amatissimo, anche se non suo. E’ un’esperienza che lo rende a tutti gli effetti modello per la paternità umana, fatta di lavoro e di semplicità, di affetto e di dedizione, di rispetto e di silenzio, di fede e d’abbandono al Signore.








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Tutti gli evangelisti parlano dell’attività del Battista come una preparazione a quella di Gesù. Ognuno di essi la presenta da un suo punto di vista, e i diversi aspetti di questa figura singolare ci offrono altrettanti elementi per ricostruire la sua straordinaria personalità. Matteo mette in rilievo il suo aspetto di predicatore che compie la sua missione secondo lo stile profetico. I profeti antichi si distinguevano sia per i loro vestiti rozzi che per l’austerità della loro vita (2 Re 1,8). Il Battista entra in scena come un predicatore penitenziale.


Matteo riassume la predicazione del Battista nel deserto di Giuda[9] con le stesse parole con le quali riassumerà più avanti, la predicazione di Gesù: “Convertitevi perché il Regno di Dio è vicino” (4,17). Come il ministero del Battista è introdotto con un riferimento a Is (40,3), così anche il ministero di Gesù (Is 4, 14-15). C’è dunque una continuità fra i due personaggi e le due predicazioni.


Il tema della conversione, predicato dal Battista, era un’esigenza continua anche tra i farisei: la differenza stava nel modo d’intenderla. La conversione “farisaica” comportava unicamente un “cambiamento di mente”; la conversione richiesta dal Battista e da Gesù è molto di più: richiede un cambiamento radicale, totale, nella relazione con Dio; e questa relazione con Dio comprende non solo l’interno, ma anche l’esterno, tutto quello che è visibile nella condotta umana (“far frutti degni di conversione” v. 8). La retta relazione con Dio si deve tradurre nella retta condotta di tutta la vita. La verità è illustrata con l’esempio dell’albero: se l’albero è buono, produce frutti buoni, frutti degni dell’albero stesso. Chi si converte a Dio è come una pianta del suo immenso campo, e i suoi frutti-opere devono essere buoni.


La radicalità delle esigenze del Battista urtava assai gli uomini pii del tempo: farisei e sadducei. Fra essi vi erano differenze radicali: i sadducei, per esempio, non credevano nella risurrezione. C’era però anche un denominatore comune: la situazione di privilegio di essere figli d’Abramo. A queste classi privilegiate Giovanni annunziava: davanti a Dio non esiste sicurezza basata su privilegi, Egli giudica in base alla condotta tenuta. Anzi, Dio può suscitare figli d’Abramo perfino dalle pietre: Dio, cioè, può compiere una nuova creazione, esattamente come creò il primo uomo dalla polvere.


Il motivo di queste esigenze è l’imminenza del regno dei cieli. Matteo, secondo lo stile dei Giudei, evita, per quanto gli è possibile, per un eccessivo rispetto, di pronunciare il nome di Dio, e ricorre ad altri termini come “il cielo”. Il regno dei cieli e il regno di Dio, di cui parlano Marco e Luca, sono un’unica realtà. Il regno era la più alta aspirazione e la più ardente speranza dell’AT e del giudaismo; era una realtà che apparteneva all’al di là e che Dio avrebbe concessa al momento opportuno. Sarebbe stato come un nuovo cielo e una nuova terra nella quale non vi sarebbero stati peccato, morte e dolore. Il Battista annunzia che tutto questo, che i giudei attendevano in un futuro incalcolabile, si realizzava nella persona di Gesù. Abbiamo qui la ragione ultima dell’esigenza della conversione. L’uomo deve rivolgersi a Dio, perché Dio si è rivolto verso gli uomini.


Matteo, a differenza di Luca e Marco, sviluppa maggiormente il motivo della contrapposizione, non tanto nella differenza tra i due battesimi (l’uno nell’acqua e l’altro nello Spirito e nel fuoco), quanto nel confronto tra le rispettive attese messianiche. Potremmo parlare di due concezioni messianiche a confronto. Nella predicazione di Giovanni Battista, (in Matteo), il Messia atteso è presentato soprattutto come giudice: “Nella sua mano ha il ventilabro… ma brucerà la pula”. La pula (l’involucro del seme) indica apparenza , leggerezza e senza sostanza.


Quante volte anche noi pensiamo di essere giusti davanti a Dio solo perché stiamo da tanto tempo in Chiesa o facciamo parte di qualche gruppo ecclesiale. Il Signore, invece, vuole da noi: opere di penitenza, conversione quotidiana, umiltà davanti a Dio. Tutte le opere buone compiute senza umiltà e senza amore, somigliano al battesimo di acqua amministrato da Giovanni: era certamente una cosa buona, ma non produceva la grazia. Bisogna farsi battezzare da Cristo, perché il vero battesimo è cambiare ogni giorno la propria mente e il proprio cuore.




Il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni è un evento significativo nella vita di Gesù. E’ il primo atto pubblico che egli compie da quando avverte la voce dello Spirito che lo chiama ad annunziare la buona novella ai poveri, a predicare a quanti attendevano l’anno di grazia del Signore. Forse è anche la prima volta che si allontana dal suo villaggio, dalla Galilea e arriva fino alle foci del Giordano. Lo scopo era far visita o conoscenza con un predicatore di penitenza che faceva tanto parlare di sé in tutta la regione. Matteo lo dice espressamente. “compare da Giovanni” (3,5). Marco “venne da Giovanni”. Tutto fa pensare che Gesù aveva fatto tanta strada per ascoltare il profeta del deserto.


Gesù aveva ascoltato la parola dei profeti nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16). Era diverso però riascoltarla direttamente da un profeta vivente. Si dovrebbe pensare che anche Gesù è in ricerca della volontà di Dio o almeno di un approfondimento, di una chiarificazione della sua chiamata profetica. Infatti poco dopo l’evangelista ricorda il suo ritiro nel deserto, i quaranta giorni di digiuno e preghiera, il confronto-scontro con il diavolo, sempre per determinare la linea da percorrere nell’adempimento del suo mandato nel piano di Dio. Si può perciò ipotizzare che anche questa visita al predicatore del deserto, e forse agli altri asceti che sembra popolassero la zona (vedi i monaci di Qumràn), sia stata motivata dal desiderio o necessità di trovare una conferma alla “spinta” che sentiva nel suo animo a lasciare il lavoro di carpentiere e dedicarsi all’annunzio della parola di Dio.


Il soggiorno nel Giordano non fu un’esperienza inutile. Gesù non sceglierà né la strada di Giovanni, un predicatore chiuso nel suo recinto, tutto proteso a intimorire o a spaventare la gente, né quella dei vicini Esseni, pure essi ben separati dal popolo; ma si metterà in cammino per le contrade della Galilea, insegnando, predicando e guarendo gli infermi che ricorrevano a lui. Sono i quattro verbi con cui Matteo caratterizza la sua attività missionaria (4,23). Gesù non starà ad aspettare la gente ma si muoverà incontro ad essa non per terrorizzarla, ma per liberarla dalle proprie afflizioni e soprattutto dalla paura di Dio, che non era tanto un giudice quanto un “padre” (Mt 6,9).


L’esperienza di Gesù nel Giordano, il confronto con Giovanni, ha creato qualche difficoltà ai predicatori cristiani delle origini, in particolare alla comunità di Matteo che si è sentita in dovere di correre ai ripari inserendo nel racconto tradizionale di Mc 1,9 un dialogo tra Gesù e Giovanni (3, 14-15) che ridimensiona la portata del battesimo di Gesù. La notizia “per essere battezzato” poteva far sembrare che Gesù si fosse trovato subordinato a Giovanni, come se fosse al di sotto di lui, e ciò non era ammissibile. Era vero il contrario. Era Giovanni che avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti all’ “ospite” venuto dalla Galilea e ricevere la remissione dei peccati.


L’evangelista, quindi, sente il bisogno di spiegare ai suoi lettori che questo non significa che Gesù fosse un peccatore o, comunque, inferiore a Giovanni. Ma ciò è avvenuto perché “si adempisse ogni giustizia”. In Matteo la parola giustizia indica il piano divino della salvezza, e il verbo compiere contiene un riferimento alle Scritture. Possiamo dire allora che Gesù si sottopose al battesimo perché ciò rientrava nel piano di Dio manifestato nelle Scritture.


Ma la diversità tra Gesù e Giovanni emerge dalla concezione diversa di messianismo. Il Messia che viene a farsi battezzare sconcerta Giovanni, che si aspettava un Messia giudice e un battesimo di fuoco. Invece si vede venire incontro un uomo confuso nella folla, non giudice, ma un servo solidale col momento penitenziale del suo popolo. Tutto ciò è confermato anche dalla voce celeste: “Questo è il mio Figlio diletto”, che richiama il passo di Is 42,1. L’uso di questa formula del profeta identifica Gesù con il Servo del Signore. La visione definisce il carattere della messianicità di Gesù; egli non è il Messia regale, conquistatore, ma il Servo sofferente. Così Giovanni e Gesù rappresentano due concezioni messianiche diverse.




La breve informazione di Marco sul digiuno di 40 giorni nel deserto e sulla tentazione è ampliata da Matteo (e Luca) in una triplice tentazione.


La presenza della tentazione, e precisamente di una tentazione messianica, nel quadro dell’esistenza di Gesù è storicamente credibile. La tentazione messianica si armonizza con tre dati sicuri del Vangelo:


il netto rifiuto da parte di Gesù nei confronti di ogni richiesta di “segni” che non fossero altro che prodigi e dimostrazione di sé,


il costante conflitto con Satana nel quale Gesù si trovò impegnato per la sua missione redentrice,


la volontà di purificare in tutti i modi le speranze messianiche dei discepoli.


La tentazione che Gesù ha incontrato, non solo nel deserto ma in tutta la sua esistenza, era concentrata su una continua lotta tra la strada messianica indicata dalla parola di Dio (cioè la via della croce) e le sollecitazioni provenienti dalle attese messianiche dell’epoca. Le sollecitazioni messianiche erano sostanzialmente tre:


ú quella della rivoluzione e del potere (messianico zelota)


ú quella del messianismo restauratore (sia politico che religioso)


ú quella del messianismo convincente (accompagnato da segni spettacolari).


Gesù rifiutò energicamente tutti e tre questi suggerimenti, rinunciando a utilizzare la strada del potere, del prestigio, dei miracoli a ogni costo.


La risposta di Gesù a ognuna delle tre richieste è tratta dal Deuteronomio (8,3; 6,16.13), ed evoca con molta chiarezza le tentazioni d’Israele nel deserto: la tentazione di concepire la speranza in termini di benessere e di far coincidere la salvezza messianica con un progetto terrestre. Matteo è molto interessato a questo confronto tra Gesù e Israele. Egli vuole mostrare che Gesù è il compimento dell’intera storia d’Israele, ne subì le medesime tentazioni, ma a differenza di Israele le superò. Gesù, quindi, è il vero Israele.


Il racconto anche se fa riferimento alle tentazioni di Israele nel deserto, tuttavia non le riproduce nella loro forma, ma in forme che ricalcano le attese messianiche del tempo di Gesù e, ancora più fortemente, degli anni 60-70 (allorché Matteo scrive il suo Vangelo).[10]


La forma letteraria delle tentazioni riecheggia i dibattiti tra gli scribi, nei quali ciascuna parte ricorreva a citazioni scritturistiche. Il dibattito tra Gesù e Satana si svolge in tre riprese, in ciascuna delle quali i due avversari si appellano alle Scritture. Questa forma letteraria può benissimo essere un ricordo della situazione di Gesù e delle sue polemiche. Si vuol dire che c’è modo e modo di riferirsi alle Scritture. Questo riflette anche le diatribe bibliche tra cristiani ed ebrei: si riferivano alle medesime Scritture, ma arrivavano a conclusioni opposte (come Gesù e satana). Non basta leggere le Scritture, bisogna leggerle bene. Il vangelo di Matteo ci fa ulteriormente riflettere su questo punto: il discepolo di Cristo, a differenza del fariseo, legge le Scritture in modo da scoprire la logica divina che le guida, non rimanendo invece prigioniero della lettera che finisce col distorcere lo stesso disegno di Dio.


Infine, il racconto di Matteo ha una dimensione ecclesiale oltre che cristologia. Basta ricordare in proposito come si sono formati i Vangeli. Se il racconto della tentazione ebbe un posto in tutta la tradizione sinottica è perché esso serviva non solo a chiarire le idee su Gesù e sul suo messianismo (del resto chiaro a tutti dopo la crocifissione), ma perché serviva a chiarire le idee sulla Chiesa e sul suo compito. Nella tentazione del Cristo la Chiesa ritrova le proprie tentazioni.




Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo. Dopo l’introduzione costituita dal “Vangelo dell’infanzia”, la missione di Gesù – preparata dalla predicazione del Battista (3, 1-12), dal battesimo al Giordano (3, 13-17) e dalle tentazioni nel deserto (4, 1-11) – ha finalmente inizio.


Matteo collega esplicitamente il ministero pubblico di Gesù con il Battista, anzi Gesù inizia la sua missione proprio quando Giovanni interrompe la sua predicazione: “Avendo saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesà si ritirò nella Galilea”.


Gesù inizia la sua missione in continuità ideale con il Battista: “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”.


L’annotazione dell’evangelista “avendo saputo che Giovanni era stato arrestato” va oltre il semplice significato cronologico. E’ già una prefigurazione della sorte che attende lo stesso Gesù: come tutti i profeti e come Giovanni Battista, anch’egli subirà il martirio.


Secondo la tradizione, il luogo in cui Giovanni battezzava non era lontano dalla foce del Giordano nel Mar Morto, e Gesù subito dopo il battesimo si sarebbe ritirato a pregare sul “Monte della Quarantena” a ovest di Gerico, ai margini del deserto di Giuda.


In quale luogo Gesù comincia la predicazione? Abbiamo già detto che Gesù da Nazaret era sceso nella Giudea per farsi battezzare da Giovenni nel fiume Giordano. Dalla Giudea, dopo i quaranta giorni di preghiera nel deserto, “saputo dell’arresto di Giovanni”, Gesù si sposta in Galilea, non più a Nazaret (la sua città) ma a Cafarnao, sulla riva settentrionale del lago di Tiberiade.


Queste annotazioni (“si ritirò nella Galilea e venne ad abitare a Cafarnao”) non obbediscono a un semplice desiderio di precisazione geografica, ma riporta un fatto che senza dubbio costituì per le attese religiose del tempo una sorpresa, se non uno scandalo. Difatti era logico aspettarsi che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme, e invece partì da una regione periferica, generalmente disprezzata e ritenuta contaminata dal paganesimo (“Galilea dei Gentili"). Tanto è vero che Matteo sente il bisogno di spiegare questa scelta di Gesù, citando per esteso un passo del profeta Isaia (8,23-9,1)[11] e per Matteo il compimento di un’antica profezia è il segno rivelatore del messianismo di Gesù: un messianismo universale che rompe con decisione ogni forma di particolarismo.


L’annuncio di Gesù (4,17) è riassunto da Matteo in una formula identica a quella del Battista, ed è di estrema sintesi: “Convertitevi perché il del Regno di Dio è vicino”.


Questo aspetto programmatico di Gesù sottintende il programma della Chiesa. Gesù afferma due cose che sono esattamente le due azioni fondamentali della sua missione: annunciare il Vangelo e chiamare dei discepoli. E la seconda è subordinata alla prima: i discepoli vengono scelti e preparati dal Signore perché dopo di lui il Vangelo sia annunciato a tutti gli uomini.


Questo annuncio (“Convertitevi, perché…”) è la parola che tutti gli uomini hanno diritto di ascoltare, perché è la verità che si aspettano nel profondo del loro cuore, anche quando credono di non credere, anche quando bestemmiano il suo nome. Perché questo Dio (regno) “vicino” dice un’attenzione paterna, una presenza piena di premura verso l’uomo.


“E’ vicino” vuol dire che lo puoi toccare con mano, sperimentare: è Gesù il regno, in lui Dio si fa vicino agli uomini per sanarli dai loro mali, per introdurli nella verità.


L’annuncio di Gesù, accompagnato da gesti che lo confermano appieno, suscita negli uditori, come vedremo più avanti, due atteggiamenti contrastanti: l’ accoglienza e il rifiuto, conversione ma anche negazione. La missione di Gesù provoca salvezza ma anche indurisce i cuori: la verità di Dio non vuole imporsi alla coscienza dell’uomo, e proprio questo genera anche, quel rifiuto ostile che culminerà nel progetto di eliminare Gesù sulla Croce.




Sulle rive del “mare di Galilea” (il lago) Gesù incontra e chiama i primi discepoli. Sono una coppia di fratelli, tutti pescatori (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni) intenti al loro lavoro. L’appello di Dio raggiunge gli uomini nel loro ambiente ordinario, nel loro posto di lavoro. Nessuna cornice “sacra” per la chiamata dei primi discepoli, ma lo scenario del lago e lo sfondo della dura vita quotidiana.


Nel racconto emergono due tratti: la condivisione (il discepolo è chiamato a condividere la via del Maestro: “Seguimi”) e il distacco ( drastico e immediato: “e subito lasciarono le reti”). Nessun indugio per il discepolo di Gesù e nessun rito di addio, ma “subito”.


Ma i tratti essenziali – che già definiscono compiutamente la figura del discepolo (il resto del Vangelo non farà altro che precisarla) – sono quattro.


Primo: la centralità di Gesù. Sua è l’iniziativa (vide, disse loro, li chiamò): non è l’uomo che si proclama autonomamente discepolo, ma è Gesù che trasforma l’uomo in un discepolo. E ancora: il discepolo non è chiamato a impossessarsi di una dottrina, ma a solidarizzare con una persona (“seguitemi”). Al primo posto l’attaccamento alla persona di Gesù, tanto è vero che il discepolo evangelico non intraprende un tirocinio per divenire a sua volta un maestro: egli rimane sempre un discepolo, perché uno solo è il Maestro.


Secondo: la sequela di Gesù esige un profondo distacco. La chiamata di Pietro e Andrea e la chiamata di Giacomo e Giovanni sono costruite secondo la medesima struttura e sostanzialmente secondo lo stesso vocabolario. C’è però una differenza non trascurabile: nel primo racconto si dice che lasciarono “le reti” e nel secondo che lasciarono “la barca e il padre”. C’è dunque un crescendo: dal mestiere alla famiglia. Il mestiere rappresenta la sicurezza e l’identità sociale. Il padre rappresenta le proprie radici.


Terzo: la sequela è un cammino. A partire dall’appello di Gesù, essa si esprime con due movimenti (lasciare e seguire) che indicano uno spostamento del centro della vita. L’appello di Gesù non colloca il discepolo in un luogo, ma lo pone in cammino.


Quarto: la sequela è missione. Due sono le coordinate del discepolo: la comunione con Cristo (“seguitemi”) e la corsa verso il mondo (“vi farò pescatori di uomini”). La seconda nasce dalla prima. Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato dagli altri, ma li incammina sulle strade degli uomini. Più avanti si comprenderà che la via del discepolo è la croce.




L’ultima sezione sintetizza l’attività di Gesù e ne indica l’efficacia: l’accorrere delle folle e l’aumento del numero dei seguaci.


Nel v. 23, una serie di quattro verbi offre un quadro vivace e dinamico. Gesù percorreva (perièghen) la Galilea: è lui che si mette alla ricerca degli uomini per portare loro la salvezza. Insegnava (didaskòn) nelle sinagoghe: la sua parola parte dalla radice della Torà e dei profeti. Annunciava (kerussòn) il vangelo del regno: è il contenuto centrale del messaggio di Gesù. Guariva (therapeuon) tutti i mali: l’annuncio del vangelo è inscindibile dai gesti di liberazione dal male compiuti da Gesù. Come risultato di questa attività Gesù divenne noto “per tutta la Siria”. Della provincia romana della Siria facevano parte la Galilea, la Decapoli (era un complesso di dieci città a est del Giordano, amministrate dal governatore della Siria), Gerusalemme, la Giudea e Perea (a est del Giordano). La regione di Tiro e Sidone (Mc 3,8; Lc 6,17) non è menzionata, molto probabilmente perché Matteo pensava che questa regione fosse già inclusa nella sua enumerazione (vedi 15,21).


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Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, per capirle bisogna lasciar parlare il testo. Innanzitutto Gesù sale sulla montagna e pronuncia il discorso circondato dai dodici e dalle folle: si tratta di una folla venuta da ogni dove, persino dalla decapoli e da oltre il Giordano. Il discorso, quindi, non è rivolto solo ai dodici o al popolo giudaico, ma a tutti.


Certo le beatitudini rimandano a Gesù. Ma quale significato egli vi attribuì? Pensiamo di riassumere il suo pensiero in tre affermazioni.


- Le beatitudini sono una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati.


- C’è un secondo aspetto: con le beatitudini Gesù non solo proclama che il tempo messianico è arrivato, ma proclama che il Regno è arrivato per tutti, che di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi, coloro che noi abbiamo emarginato sono i primi.


- Infine va detto che Gesù non solo proclamò le beatitudini, ma le ha vissute. Ecco perché la proclamazione delle beatitudini, è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (4, 23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Egli fu povero, sofferente, affamato: eppure amato da Dio.


Sta qui il paradosso delle beatitudini: la vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del regno e perché – contrariamente alle valutazioni comuni – sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza.


Esaminiamo ore le singole beatitudini.


Beati i poveri. La differenza tra il “povero” di Luca e il “povero nello spirito” di Matteo non cambia nella sostanza. Matteo non intende certamente riferirsi a coloro che, benché ricchi, sono spiritualmente staccati dalle loro ricchezze. Molto probabilmente la frase echeggia Is 61,1 (v. Lc 4,18). Entrambi le beatitudini (di Mt e Lc) designano la classe povera che costituiva la grande maggioranza della popolazione del mondo ellenistico. Il “povero in spirito” di Matteo pone l’accento più che sulla mancanza letterale di ricchezze, sulla bassa condizione dei poveri: la loro povertà non permetteva l’arroganza tipica delle persone ricche, ma imponeva loro un rispetto servile. Sono questi “poveri nello spirito” che ora sono “beati”.


Beati gli afflitti. Riecheggia in questa beatitudine la situazione descritta in Is 61,1. La beatitudine si riferisce a coloro che non hanno alcuna gioia in questo mondo, e in questo senso essa sarebbe molto vicina e simile alla prima e terza beatitudine. Si intendono qui molto probabilmente coloro che piangono per i mali d’Israele dovuti ai suoi peccati. La loro consolazione consisterà nell’esperienza della salvezza messianica.


Beati i miti. Questi fanno parte della stessa classe dei “poveri in spirito”, che non sono in grado di essere aggressivi. L’ideale della mitezza è descritto in termini concreti in 5, 39-42: “Se uno ti percuote la guancia destra…”. I miti possederanno la terra escatologica d’Israele, recuperata mediante le opere salvifiche di Dio. La frase riecheggia le promesse della terra fatte ai patriarchi dell’A.T.


Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia. La “giustizia” di cui bisogna aver fame e sete è un termine assai pregnante. In Mt essa designa la condizione di buoni rapporti con Dio, ottenuti con la sottomissione alla sua volontà. Nel giudaismo farisaico si pensava che questa condizione venisse garantita mediante l’osservanza minuziosa della legge secondo i modelli farisaici. Gesù afferma con insistenza che i suoi discepoli devono sforzarsi di attuare qualcosa di più perfetto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e farisei …” (Mt 5,20).


Beati i misericordiosi. La misericordia è una caratteristica di Dio; Dio è fedele nonostante le infedeltà degli uomini. L’ ideale della misericordia o compassione ricorre spesso in tutti i vangeli. La beatitudine è illustrata dalla parabola del servitore spietato (Mt 18, 23-35). Le due opere di misericordia maggiormente sottolineate in Mt sono l’elemosina e il perdono. La ricompensa della misericordia è di ricevere misericordia.


Beati i puri di cuore. La purezza di cuore è contrapposta alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale: è questo un punto di numerose diatribe tra Gesù e i farisei. Ciò che si intende per “purezza di cuore” è spiegato in Mt 5, 13-20 (“Voi siete il sale della terra… La luce del mondo… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone…). La ricompensa della purezza di cuore è di vedere Dio. Ciò non significa ciò che in teologia è chiamato la “visione beatifica”, ma l’ammissione alla presenza di Dio (v. Mt 18,10: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio”).


Beati gli operatori di pace . Questa parola ebraica “i pacificatori” significa “coloro che compongono i dissidi”. La riconciliazione è un compito spesse volte raccomandato nei vangeli: Mt 5,23-26 “Se presenti la tua offerta all’altare… và prima a riconciliarti”. La ricompensa è di essere chiamati figli di Dio. E’ questo un titolo attribuito a Israele nell’A.T.; coloro che compongono dissidi sono israeliti autentici.


Beati i perseguitati per la giustizia. La persecuzione subita per amore della giustizia è la persecuzione che viene accettata allo scopo di mantenere i buoni rapporti con Dio mediante la sottomissione alla sua volontà (v. commento a 5,6). In questo ampliamento (5,11-12) della beatitudine Gesù viene identificato con la giustizia. Egli sostituisce la legge quale unico mezzo sicuro per mantenersi in buoni rapporti con Dio. Tale rapporto causerà certamente la persecuzione (descritta in termini dell’esperienza della Chiesa primitiva), ma la ricompensa supererà ogni ricompensa precedente. La Chiesa succede ai profeti che furono perseguitati dal loro stesso popolo. La persecuzione a cui si allude qui è molto probabile l’offensiva scatenata dai giudei contro la comunità cristiana.


In conclusione è difficile per noi valutare il carattere paradossale delle beatitudini. Esse iniziano una rivoluzione morale che non ha ancora raggiunto la sua pienezza. Esse capovolgono tutti i valori convenzionali del mondo giudaico e romano-ellenistico e dichiarano beati coloro che non partecipano di quei valori. Vengono qui ripudiati non soltanto i valori esterni della ricchezza e della condizione sociale ma anche quei valori personali che sono ottenuti e difesi mediante l’auto-affermazione e la lotta. Le affermazioni generali delle beatitudini sono ampliati con esempi concreti del discorso.




La funzione dei discepoli è illustrata dalle metafore casalinghe del sale in quanto condimento e dell’unica lampada che illuminava la casa di una sola stanza del contadino palestinese. Nella spiegazione, le due immagini (5,16) vengono riferite alle “opere buone” dei discepoli. Vivendo secondo l’insegnamento di Gesù, gli uomini manifesteranno la bontà del “loro padre che è nei cieli”. Questo probabilmente è il senso originale delle immagini. Nel testo di Mt la metafora è ampliata con la possibilità della perdita del sapore del sale e dell’occultamento della lampada sotto il moggio; chi non attuerà l’ideale di vita dei vangeli sarà ripudiato. La similitudine analoga della città posta sul monte, che non è spiegata, sembra sia un detto sapienziale popolare intrufolatosi nel contesto.


Nella cornice del discorso questi detti servono da introduzione al lungo brano successivo, in esso i discepoli vengono istruiti sul modo in cui essi possono diventare il sale della terra e la luce del mondo, e viene loro spiegato quali sono le opere buone attraverso le quali Dio è glorificato.




Molto probabilmente il Vangelo di Matteo fu scritto verso gli anni 80 in una comunità giudeo-cristiana. E’ il tempo in cui il giudaismo, persa ogni consistenza politica e territoriale a causa della guerra dell’anno 70, serra le fila in un rinnovato attaccamento alla Legge, che godeva di una sacralità e di un valore salvifico nel giudaismo farisaico. La Legge era considerata la somma di ogni saggezza - umana e divina - la rivelazione di Dio stesso, una guida completa e sicura di condotta che garantiva i buoni rapporti con Dio e per la maggior parte dei Giudei la legge era implicitamente la rivelazione definitiva di Dio. La sinagoga espelle gli eretici e fissa i confini della propria ortodossia. Questo pone degli interrogativi alla comunità di Matteo, la quale, come abbiamo detto, è per lo più formata da cristiani provenienti dal giudaismo che vive ai confini della Palestina. Uno degli interrogativi è questo: in che cosa consiste l’originalità cristiana nei confronti della rinnovata ortodossia giudaica? A questo punto comprendiamo bene perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito-confronto con la giustizia degli scribi e farisei. E’ in questa prospettiva che il discorso della montagna deve essere letto. Esso vuole chiarire, da una parte, l’originalità della giustizia cristiana, cioè la differenza tra il cristiano e il giudeo; dall’altra, vuole mostrare la piena conformità del messaggio di Cristo alle Scritture. La conclusione a cui Matteo giunge può sembrare paradossale: il vero giudeo è colui che si fa cristiano.


Il discorso della montagna è preceduto dalle beatitudini, che noi sappiamo essere non soltanto un ideale da vivere, ma ancor prima una proclamazione che il regno di Dio è arrivato. Ritroviamo così uno schema comune a tutti i discorsi morali del NT: prima il Vangelo e poi la legge, prima il dono di Dio e poi la risposta dell’uomo. Se non tenessimo presente questo aspetto essenziale, rischieremmo di fraintendere il discorso di Matteo: correremmo il rischio di ridurlo a una nuova casistica e a un nuovo elenco di leggi che è necessario osservare per essere giusti di fronte a Dio.


Due elementi possono far da guida alla nostra lettura.


- Primo: scorgiamo all’inizio del discorso due atteggiamenti in apparenza contrastanti; da una parte, la pretesa di essere in continuità con la legge antica: “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per portare a compimento (5,17). Dall’altra, un chiaro e ripetuto atteggiamento di rottura. “Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (5,21ss.). La nostra lettura non può eludere questo contrasto, deve invece comprenderlo e risolverlo.


- Secondo: il v. 20 (“Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli”) può essere considerato in titolo dell’intero discorso, e offre un comodo criterio per individuarne le parti. Il versetto citato lascia intravedere tre giustizie: la giustizia degli scribi, dei farisei e dei discepoli. Matteo contrappone, in una prima parte, il pensiero di Gesù alla giustizia degli scribi (le cui antitesi sono contenute in 5, 21-48), nella seconda parte, l’opposizione di Gesù alle pratiche dei farisei (elemosina, preghiere e digiuno: 6, 1-18); infine, la terza parte, la giustizia “superiore” del discepolo (6,19-7,27).


Parlando di giustizia superiore Matteo non intende una superiorità nella quantità (più digiuno, più preghiera e più elemosina), ma una superiorità nella qualità. E per giustizia Matteo non intende ciò che noi comunemente intendiamo (e cioè la parità tra il dare e l’avere nei rapporti fra gli uomini), ma, più semplicemente, la volontà di Dio.


Matteo ci pone di fronte a una serie di antitesi (5, 21-48), che toccano diversi punti della legge, scelti evidentemente tra i molti possibili. Non è una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo (e tutti e tre mettono in luce la carità); due il comportamento sessuale e il matrimonio; uno il giuramento.


Matteo non vuole indicarci delle leggi precise da mutare, quanto piuttosto un modo diverso di leggere la Scrittura e di scoprirne la volontà di Dio: diciamo un modo diverso di elaborare la morale.


Occorre una corretta visione di Dio e del suo disegno di salvezza, un modo corretto di leggere le Scritture. Sta qui la contrapposizione fra Gesù e gli scribi.[12] Come i profeti che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di recuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. In questo senso l’affermazione più importante la troviamo al v. 48: “Siate perfetti come il Padre vostro celeste”. Non è una perfezione qualsiasi, ma la perfezione della carità e del perdono: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Ecco una prima ragione per cui si può chiamare “superiore” la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento.


Discutendo il caso di divorzio (v. 31) Gesù cita un testo di Dt (24,1), ma, sebbene consapevole che il Dt sia parola di Dio, egli lo giudica secondario rispetto a un passo di Genesi (1,27; 2,24). C’è dunque testo e testo: alcuni testi sono più importanti e altri meno. I primi rivelano l’intenzione profonda e originaria di Dio, i secondi pagano un tributo alla durezza di cuore degli uomini. Con questo Gesù offre agli scribi una lezione di metodo: per cogliere la volontà di Dio occorre essere capaci di una lettura globale della Scrittura: una lettura che sappia distinguere fra la logica di fondo e le sue espressioni parziali e provvisorie. Questa è la seconda ragione per cui la giustizia del discepolo può essere superiore.


Siamo ora in grado di risolvere l’antinomia fra continuità e rottura rilevata all’inizio. Il messaggio di Gesù è in continuità con l’AT, ne recupera il centro e la tensione. Non introduce nella legge novità prese in prestito altrove e non fa correzioni in base a una logica estranea alla Scrittura: ne recupera, invece, l’intenzione di fondo e porta questa a compimento. Continuità, dunque, ma tale continuità è anche novità che esige conversione, perché critica nei confronti degli schemi precedenti nei quali si finisce sempre con l’accomodarsi.




Matteo continua a sviluppare il tema della giustizia del discepolo superiore alla giustizia degli scribi e farisei (5,20). Dopo aver criticato la giustizia degli scribi, l’evangelista critica ora la giustizia dei farisei.[13]


Matteo elenca le tre pratiche classiche dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non le rifiuta, ma vuole che siano compiute con spirito diverso. E’ proprio questo spirito che distingue il discepolo dal fariseo. Quali sono le caratteristiche più importanti di queste tre pratiche?


Anzitutto, è già significativo che vengono raggruppate insieme: il culto deve prolungarsi nella carità, e la penitenza deve essere un privarsi di qualcosa a beneficio di altri. In secondo luogo, è richiamata ripetutamente la necessità della retta intenzione. Bisogna cercare la ricompensa di Dio, non quella degli uomini: bisogna agire nel segreto, senza dare spettacolo.


La giustizia cristiana esige che le opere buone vengano compiute senza tenerne la contabilità. La vera giustizia esige che la destra non sappia ciò che fa la sinistra. Gesù in sostanza non rifiuta né l’elemosina né il digiuno né la preghiera, ma vuole che tutto ciò sia compiuto con spirito di gratuità.


La testimonianza non deve confondersi con la teatralità. I discepoli hanno la faccia normale e gioiosa, perché il distacco che la sequela esige non è un peso, ma una gioia: non è una perdita, ma il centuplo.


Quanto detto finora non è sufficiente a descrivere l’originalità cristiana. Matteo colloca in questa sezione il “Padre nostro”.


Luca riporta le parole di Gesù in un contesto in cui si vuole insegnare la preghiera a gente che non sa nulla di preghiera: scrive il suo vangelo per una comunità che proviene dal paganesimo. Matteo invece riporta il testo in una sezione che ha lo scopo di correggere le deviazioni dei credenti già abituati a pregare: egli scrive per una comunità che proviene dal giudaismo. Il problema di Matteo dunque non è se pregare ma come pregare. Nella preghiera non sono le parole che contano, neppure quando si tratta delle parole di Cristo. La preghiera è unicamente espressione di dipendenza, di povertà, e le parole non hanno mai un senso magico come invece pensano i pagani (6, 7-8).


“Padre”: è il nome con cui Gesù si rivolge costantemente a Dio, ed esprime la sua filiazione. Il discepolo ha il diritto di pregare come Cristo, in qualità di figlio. Sta in questo nuovo rapporto l’originalità cristiana, ma a differenza di Luca, Matteo non si accontenta di questo. Egli aggiunge al nome Padre l’aggettivo “nostro”, esplicitando in tal modo l’aspetto comunitario. E aggiunge “che sei nei cieli”, richiamando in tal modo la trascendenza e la signoria di Dio. La preoccupazione dell’evangelista è chiara: ricordare non solo la paternità di Dio, ma anche la sua trascendenza: Dio è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Ogni autentico rapporto religioso tiene conto di ambedue questi elementi.


“Sia santificato il tuo nome”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. L’espressione “santificare il nome” deve essere intesa alla luce dell’AT, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica riconoscimento generico di Dio, né tanto meno una lode fatta di culto e di parole, ma un permettere a Dio di svelare, nella storia della salvezza e nella comunità, il suo volto (“Sia svelato il tuo nome, il tuo volto). In sostanza, il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente della presenza liberante di Dio.


“Venga il tuo regno”: per capire questa invocazione bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù, incentrata appunto sull’annuncio del Regno. Il Regno ha una presenza oggi, ma ha, nello stesso tempo, un compimento alla fine: questo è molto chiaro nella predicazione di Gesù e nell’attesa delle prime comunità. Ma l’uso del verbo aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira il suo stadio ultimo, escatologico (1 Cor 15,28). La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo. Bisogna però ricordare che la preghiera implica contemporaneamente un’assunzione di responsabilità: il discepolo attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio di costruirlo.


“Sia fatta la tua volontà”: questa invocazione non fa che interiorizzare le prime due, sottolineando maggiormente il loro aspetto morale. Si tenga presente che per “volontà di Dio” non si intende semplicemente il complesso dei comandamenti, ma piuttosto il “disegno di salvezza” che deve realizzarsi nella storia. E’ importante la precisazione “come in cielo così in terra”, cioè bisogna anticipare qui in terra la vita del nuovo mondo.


“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La richiesta del pane è la più umile, ma sta al centro, e questo ne indica l’importanza. Il pane è nostro, è frutto del nostro lavoro, eppure è anche nel contempo dono di Dio. C’è un senso di comunione: si prega per il pane comune. E c’è, soprattutto, un senso di sobrietà: si chiede per oggi il pane sufficiente, nulla più.


“Rimetti a noi i nostri debiti”. Il Regno è anzitutto l’avvento della misericordia. Il termine debito non è il più indicato per spiegare il peccato, dal momento che - come traspare dalla parabola del figlio prodigo - il peccato è soprattutto un tradimento dell’amore di Dio, un sottrarsi alla presenza del Padre, una sfiducia nei suoi confronti. Potrebbe sembrare, a prima vista, che il nostro perdono fraterno condizioni il perdono di Dio. In realtà è il contrario. Si legga la parabola di Mt 18, 23-35: il contrasto fra i due quadri della parabola intende mostrare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato.


“Non ci indurre in tentazione”. Il pensiero corre spontaneamente alle piccole e svariate tentazioni quotidiane. Però la tentazione del discepolo non è tutta lì: è più profonda. E’ simile alla tentazione di Cristo (4, 1-11): è la sfiducia e lo scoraggiamento di fronte a un Dio che appare troppe volte imprevedibile. La vita del Cristo fu un continuo confronto con Satana. Il discepolo chiede di far propria la vittoria del Maestro. Anziché tradurre “liberaci dal male” è forse meglio tradurre “liberaci dal maligno”.


La preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno, l’avversario. L’uomo è conteso, sollecitato da una parte e dall’altra. Nessun pessimismo però, il discepolo sa che Cristo ha già vinto Satana.


Nella sezione precedente (in polemica con gli scribi) Matteo aveva messo in luce la carità. Ora (in polemica con i farisei) mette in luce una sua concreta manifestazione: il perdono.




L’ultima parte del discorso della montagna (6,19-7,29) non è costruita come le due parti precedenti, in contrapposizione alla giustizia di scribi e alle pratiche dei farisei. Qui si limita a radunare, senza un ordine preciso, alcune parole del Signore importanti per la vita cristiana. Non c’è un ordine preciso, però ci sono alcune insistenze, e queste danno unità alla pericope.


Matteo sembra concentrarsi su un interrogativo: come deve comportarsi il discepolo nei confronti dei beni del mondo? La risposta di Gesù è quanto mai lucida e attuale: il discepolo non deve cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da sé stesso: “Non vi affannate per la vostra vita”. Al discepolo è richiesta la fiducia nell’amore del Padre. Questo non sottrae all’impegno, ma lo rende più sereno. L’ansia è l’atteggiamento dei pagani (“di tutto ciò si preoccupano i pagani”). Lavorare, ma non affannosamente: il cristiano è un uomo libero dall’angoscia del domani. Per essere veramente sereno il discepolo deve sapere che i beni del Regno sono al primo posto (“cercate anzitutto il Regno e la sua giustizia”). Ciò significa, ad esempio, che il benessere che andiamo cercando e nel quale poniamo fiducia deve essere “un benessere globale”: deve comprendere tutte le dimensioni dell’uomo e la ragione ultima del nostro vero benessere è Dio e il suo amore.


Dunque, Matteo non invita solo alla serenità, ma anche a orientarsi diversamente nella vita: non più certi beni al primo posto, ma altri. Finché certi beni (i nostri idoli) rappresentano i valori supremi, l’ansia è inevitabile. Il mondo inganna e seduce: ci convince che solo nel possesso c’è sicurezza e gioia. E così ci rende schiavi, disposti a servirlo, e ci spoglia della nostra vera umanità, e ci ruba lo spazio della libertà. Sta in questa stoltezza l’origine dell’ansia, nella convinzione cioè che questi beni, siano gli unici importanti e che l’uomo trovi la sicurezza nell’accumulare sempre di più per se stesso.


E’ una stoltezza che rende ciechi (6,22-23): l’ansia di possedere disorienta e appesantisce il cuore, e soprattutto delude. Matteo parla di beni che vengono distrutti dalle tarme e dalla ruggine, e che i ladri rubano. E alla luce di tutto questo possiamo ora comprendere tutta la profonda verità dell’affermazione: “Non potete servire a due padroni: a Dio e al denaro”. L’attaccamento al denaro è idolatria: l’uomo, cioè, non sentendosi sicuro all’ombra della promessa di Dio, pone la propria sicurezza nel denaro, illudendosi poi di avere la fede perché offre al Signore le briciole delle proprie ingiuste ricchezze. Ma questo peccato di idolatria non è soltanto contro Dio, ma ancor prima è contro l’uomo: è affanno, divisione e schiavitù.


Le parole di Gesù non si limitano a invitare alla serenità, e neppure si accontentano di disincantare l’uomo, liberandolo dal fascino illusorio del possesso, ma indicano la vera via della liberazione: “Ammassate tesori in cielo, dove né tignola né ruggine distruggono e dove i ladri non rubano”. L’importante è capire che i tesori nel cielo, non sono i “meriti”, ma la carità. E’ appunto questo di cui ci parla Matteo: “Tutto quello che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.




Iniziando il Discorso della Montagna, dicevamo che Matteo, di fronte agli scribi e farisei e di fronte al giudaismo che andava delineando la propria ortodossia, si pone un interrogativo: qual è l’originalità cristiana? Il discorso ci ha già offerto molteplici spunti, tutti importanti come risposta all’interrogativo. Ma non dimentichiamo che c’è un filo conduttore, costante, la regola d’oro, che è la carità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa infatti è la Legge e i profeti” (7,12). Quest’affermazione che riassume tutta l’ultima parte del discorso, era già presente, in termini ancor più radicali all’inizio: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (5,44). L’amore è l’unica cosa che non delude, è profonda saggezza: come la saggezza dell’uomo che costruisce la casa sulla roccia. L’amore è l’originalità cristiana.


Il discorso prosegue servendosi di cinque paragoni, uno più interessante dell’altro: la pagliuzza e la trave, le perle ai porci, il pesce e la serpe, la porta stretta, l’albero e i frutti.


Sono paragoni staccati, radunati qui tutti insieme dall’evangelista, perché, in un modo o nell’altro, illustrano il tema del comportamento del vero discepolo.


C’è il pericolo, quando giudichi qualcuno, di usare due misure: una per te e una per l’altro: vedi la pagliuzza di chi ti sta davanti e non vedi la trave che sta nel tuo occhio (7, 1-5). Si può essere nei confronti degli altri più rigidi, più puntigliosi, più impazienti di Dio stesso. La rigidità nel giudicare si può evitare se si ha l’accortezza di iniziare la critica da se stessi: questa è la condizione indispensabile per vedere con chiarezza e per valutare con equità, le cose che ci circondano. Le parole di Gesù lo dicono apertamente: “Togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. E’ nella conoscenza dei propri limiti e delle proprie debolezze che si trova la giusta misura (cioè la tolleranza, la pazienza) per una critica evangelica.


Il secondo paragone (7,6) è molto vivace, ma non è di facile comprensione. Il paragone sembra incompiuto. La sua forma originale potrebbe essere stata questa: “Non date ciò che è sacro ai cani, perché non vi sbranino; né gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino coi loro piedi”. Qualunque sia il valore originale del detto (un altro proverbio popolare?), in Mt esso si riferisce, molto probabilmente, all’insegnamento del vangelo. In questa ipotesi i cani e i porci non possono essere se non coloro che in Mt sono i più ostili al vangelo: gli scribi e i farisei. Il detto è duro, ma più per noi che per coloro che lo hanno ascoltato coi loro stessi orecchi.


Il terzo paragone (7, 7-11) – il pane e la pietra; il pesce e la serpe – illustra l’efficacia della preghiera. La deliberata ripetizione della triplice formula: chiedete-riceverete; cercate-troverete; bussate-vi sarà aperto, ha lo scopo di assicurare i discepoli che la preghiera viene esaudita. La certezza dell’esaudimento è illustrata da due esempi casalinghi di vita familiare: il padre dà ai figli ciò che essi chiedono e certamente non darà loro nulla di nocivo in risposta alle loro richieste. I genitori, anche se cattivi, si prendono cura dei loro figli, il Padre che è nei cieli non è cattivo, e si può star certi che si comporterà da padre.


Il detto sulla porta stretta (7, 13-14), in Luca è dato come risposta alla domanda se sono poche quelli che si salvano. In Matteo non c’è la domanda. Se tanti o pochi quelli che si salvano, è un segreto di Dio, e in ogni caso non è questo il punto. Dicendo che la porta è “stretta” Gesù vuole ricordarci che la strada della vita è faticosa e dolorosa: più avanti si capirà che è la via della croce.


Quello dell’albero e dei suoi frutti (7, 15-20) è un paragone suggestivo. Luca (6, 43-45) non contiene l’avvertimento contro i falsi profeti. Può darsi che il detto si riferisca ai profeti zelati che incitavano alla ribellione contro Roma nel periodo precedente alla guerra giudaica del 66-70 d.C. In ogni caso l’aggiunta di Matteo sembra riflettere l’esperienza della Chiesa: la vera prova dei discepoli è la loro vita.


Avviandosi alla conclusione del discorso, Matteo sviluppa una contrapposizione a diversi livelli. C’è chi parla continuamente di Dio (“Signore, Signore”), ma poi dimentica di fare la sua volontà. C’è chi si illude di lavorare per il Signore (“Abbiamo profetato… abbiamo scacciato…”) ma poi si scoprirà, nel giorno del rendiconto, di essergli sconosciuto (“Non vi ho mai conosciuto”).


Con queste parole Gesù denuncia una dissociazione nella vita dell’uomo: da una parte c’è l’uomo che ascolta, riflette, discute, programma; dall’altra, l’uomo che dimentica di agire, di applicare i programmi. C’è il rischio di una preghiera (“Signore, Signore”) che non si traduce in vita e in impegno (“la volontà di Dio”). C’è il rischio di un ascolto della Parola che non diventa mai qualcosa di operante e di pratico. La radice di questa dissociazione è il tentativo di salvare l’obbedienza a Dio e di sottrarsi, nel contempo, all’esigenza di conversione che essa comporta. Non sentendosi sicuro all’ombra della parola di Dio, l’uomo continua a cercare la propria sicurezza in se stesso e nella realtà del mondo. A Dio la preghiera e la meditazione, ai nostri interessi il resto della vita. E’ un tentativo goffo per servire due padroni. E’ dalla vita quotidiana che si deduce se abbiamo o no un solo padrone, è dalla vita quotidiana che si comprende quale sia davvero il nostro Signore. L’intero discorso si conclude col paragone delle due case (7, 24-27). La roccia che dà stabilità è Jahwè, la parola di Dio, la fede, il Messia. Il discepolo deve appoggiarsi a Cristo (la roccia), l’unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, di sottrarla alla fragilità. Il progetto cristiano non può contare sulle nostre forze, ma unicamente sull’amore di Dio. E’ nella forza di Dio che l’uomo trova la sua consistenza. Non c’è vera fede senza impegno morale. La preghiera e l’azione, l’ascolto e la pratica sono ugualmente importanti.


L’evangelista termina il discorso osservando che le folle restavano stupite di fronte alle parole di Gesù, (7, 28-29) perché egli insegnava con autorità, e non come gli scribi. L’autorità degli scribi era basata sulla tradizione: lo scriba era preoccupato di ripetere fedelmente l’insegnamento tradizionale e di mostrare che il suo stesso commento scaturiva dalla tradizione ed era in armonia con essa. Gesù, invece, non insegnava come uno scriba ma come un profeta: Gesù ha un mandato dal Padre di insegnare, un mandato che gli scribi non hanno. Egli manifesta chiaramente questo mandato, e la gente ne è stupita. Il discorso della Montagna non è un codice completo di etica cristiana. Ci sono, infatti, nel Nuovo Testamento numerose direttive di morale cristiana che non si trovano in questo discorso. In effetti non esiste alcun brano del NT che contenga un codice completo e sistematico di condotta. La rivoluzione morale cristiana consiste in un ri-orientamento dei valori.










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Matteo fa seguire al grande discorso della montagna due capitoli narrativi. Sono capitoli strettamente uniti al discorso: lo illustrano e lo completano: Gesù è il Messia della Parola (discorso della montagna) e dell’azione (i miracoli); è il Messia dei poveri, li accoglie e li guarisce. I due capitoli sono articolati in modo intelligente: vi sono tre gruppi di miracoli (8, 1-17; 8,23 - 9,8; 9, 18-34), divisi in due serie di parole. Le parole sviluppano il tema della sequela (8, 18-22) e il tema della messianicità di Gesù (9, 10-17).




Fino a questo momento, specialmente nel primo grande discorso della montagna, Matteo ci ha presentato il Messia della parola; ora, comincia il secondo quadro (cc. 8-9), che ci presenta il Messia dei fatti, il medico-taumaturgo che agisce di fronte alla necessità umana. E nel presentare questo quadro conviene mettere in evidenza lo scopo concreto a cui mirano questi racconti di miracoli.


Ordinariamente i miracoli sono stati presentati come prove del potere di Gesù e, in ultima analisi, della sua divinità. Gli evangelisti pensano molto diversamente: non presentano mai questi miracoli come prove, ma come predicazione diretta con la parola di Gesù e hanno il suo stesso scopo: scoprire il senso e il contenuto della sua attività.


Matteo ci ha detto chi è Gesù attraverso la sua parola (cc. 5-7); ora, ce ne offre l’immagine con i fatti. Il Vaticano II ci ha detto che la rivelazione si manifesta con le parole e con i fatti strettamente uniti fra loro; e questo appunto fa ora Matteo. La parola di Gesù si completa e si incarna nei fatti, e i fatti garantiscono il valore della parola.


Il lebbroso si rivolge a Gesù chiamandolo “Signore” e si prostra davanti a lui. E’ una confessione di fede. Non dimentichiamo che questa scena è stata messa in scritto dopo la risurrezione e nella luce che il fatto pasquale proiettò su tutto quello che era avvenuto nella vita di Gesù. Gesù è il Signore: fu la prima formula di fede cristiana. Alla presenza del Signore l’atteggiamento corretto dell’uomo è quello di adorazione: è il primo insegnamento che ci trasmette questo racconto.


Secondo Matteo il primo miracolo di Gesù fu per un lebbroso (8, 1-4), il secondo per un pagano. C’è già di che mettere in crisi l’orgogliosa sicurezza dei figli di Abramo. Il lebbroso era bandito dalla società perché contagioso: era facile passare dal corpo all’anima e considerarlo peccatore. Il lebbroso era anche uno scomunicato. Per Gesù, invece, non esistono puri e impuri, toccabili e intoccabili. Gesù lo tocca e guarisce: e questo è il secondo insegnamento di questo miracolo.




Dopo un lebbroso, un pagano. Il contenuto e l’insegnamento dell’episodio sono molteplici e profondi. Per due volte il centurione si rivolge a Gesù chiamandolo Signore. Come nella scena precedente, anche in questa il termine “Signore” va visto alla luce della Pasqua.


La scena del centurione è come un preludio della missione o dell’annunzio del vangelo ai pagani. Gesù approfitta dell’occasione per parlare del trasferimento del regno che dai giudei passerà ai gentili. Il popolo di Dio si costruisce sulla fede.


Per l’evangelista, quindi, l’episodio è il segno di un’attesa di Dio più viva nel mondo pagano che nello stesso Israele. E’ una lezione che Gesù stesso si incarica di esplicitare: “In verità vi dico, non ho trovato tanta fede in Israele”. La fede, ad ogni modo, non si trova sempre dove te l’aspetti, non coincide con gli ambiti istituzionali.




Se il primo miracolo fu per uno scomunicato e il secondo per un pagano, il terzo avviene nella casa di un discepolo. La guarigione è opera di Cristo e la donna è guarita “per servirlo”. Il plurale di Marco e Luca (“si mise a servirli”) è cambiato al singolare (“si mise a servirlo”). Ogni servizio nella Chiesa è, secondo Matteo, un servizio a Cristo.




Chiude il primo trittico dei miracoli una citazione di Isaia (53,4), che ha lo scopo di svelarci il significato profondo dei gesti compiuti. L’evangelista – interpretando i miracoli alla luce dei passi del servo di Jahwè – mostra di scorgere in essi non soltanto la potenza di Dio, ma ancor prima il suo amore misericordioso e la sua volontà di salvezza. Le guarigioni operate dal Messia sono il segno dell’arrivo del tempo della salvezza atteso dal profeta: è arrivato il servo di Jahwè che prende su di sé – per toglierle – le malattie (i peccati) del suo popolo.




Subito dopo la rivelazione di Gesù come Servo di Dio, si affaccia il tema della sequela, che – dopo il racconto di altri tre miracoli – verrà ripreso con la vocazione di Levi (9, 9-13). Tutto è in ombra in questi due racconti, nulla di preciso sull’identità dei due uomini (uno scriba e un altro discepolo) e nulla sull’esito (furono accettati? Hanno rifiutato?). In risalto sono le due affermazioni di Gesù. La prima: farsi discepolo non è semplicemente seguire un messaggio e accettare una dottrina: è condividere in tutto il destino del Figlio dell’Uomo, è lasciare la propria sicurezza per una vita incerta. La seconda risposta (8,21) è paradossale ma chiara. Il secondo discepolo desidera seppellire suo padre. Ciò non significa che suo padre fosse già morto (la sepoltura si faceva normalmente nello stesso giorno della morte), ma che il discepolo voleva aspettare fino alla morte di suo padre per dargli onorata sepoltura. Ma la rinuncia ai legami di famiglia è una delle condizioni per il discepolato: non si può aspettare finché si sia assolto a tutti i doveri familiari, non si sarebbe mai in grado di seguire la propria vocazione. Il tempo è adesso (10,37).




L’episodio della tempesta sedata è un’illustrazione di che cosa significhi essere discepolo. Matteo colloca al centro del racconto il rimprovero di Gesù: “Perché avete paura uomini di poca fede?”. C’è poca fede di chi non ha il coraggio di abbandonare tutto e divenire discepolo. Ma c’è anche la poca fede di chi – avendo rischiato tutto per Cristo – non si sente sicuro e tranquillo quando il Cristo tace. Ci sono discepoli che non sopportano l’apparente silenzio di Dio: hanno poca fede. Lo stupore dei discepoli di fronte all’agire di Gesù (“Chi è costui?”) è comprensibile, perché il dominio sulla tempesta e sulla furia del male, nell’AT, era una prerogativa di Jahwè. I discepoli intravedono che la potenza della divinità è nascosta in un uomo che sta con loro.




Matteo omette la descrizione di Mc sulla ferocità dell’indemoniato. Nel mondo antico, sia giudaico che pagano, la malattia mentale (o quelle malattie che presentavano delle caratteristiche ripugnanti o che rimanevano inspiegabili) più che quella fisica veniva attribuita al possesso demoniaco. Ciò che preme all’evangelista in questo e altri esorcismi compiuti da Gesù è di dirci che Lui libera gli uomini dalla paura dei demoni. I demoni non hanno alcun potere reale e sono immediatamente soggiogati da una sua parola. La potenza di Dio supera ogni altra potenza. Il racconto è un esempio di un miracolo che non riesce a suscitare la fede, e i vangeli non fanno alcun commento sulle ragioni del fallimento. Matteo omette la richiesta dell’uomo di seguire Gesù (Mc 5, 18-19).




All’episodio della liberazione degli indemoniati Gadareni, segue il miracolo della guarigione del paralitico. A differenza di Marco, Matteo è scarno di particolari, a lui interessa il solo significato religioso e al centro dell’episodio la sola cosa che conta è la fede. L’apparizione dell’ammalato e la sua fede evidente determinano non una guarigione ma una dichiarazione di perdono dei peccati, il che non era la reazione attesa. E tuttavia è in perfetta armonia con il concetto evangelico del miracolo.[14]


Se Matteo è sbrigativo sui particolari, non lo è però sul tema della fede, che anzi sottolinea più di Marco: è sempre e solo la fede che conta, ecco l’insegnamento.


E’ anche interessante la finale del racconto: per l’evangelista la meraviglia della folla non è – come per Marco e Luca – suscitata dal prodigio compiuto, ma sorge perché tale potere – quello di rimettere i peccati - è stato dato agli uomini. E’ la meraviglia dei credenti di fronte a una Chiesa, di fronte a una comunità fatta di uomini, che tuttavia ha il potere di rendere contemporanea l’azione misericordiosa di Dio.




Alla guarigione del paralitico segue la chiamata del pubblicano[15] Matteo. I farisei si meravigliano che Gesù siede a mensa con peccatori e pubblicani (9,11). Sono uomini che amano scandalizzarsi, il loro atteggiamento rivela una stortura della fede: pretendono che l’amore di Dio sia solo per i giusti e che la dignità messianica esiga ambienti puliti. Non hanno capito che egli viene a pulire, il Messia non viene a raccogliere i santi, ma a trasformare i peccatori in figli di Dio (9,13). Secondo Matteo questo – più che un rimprovero ai farisei – è una lezione per i discepoli: l’episodio, infatti, è raccontato in un contesto di vocazione.


Ma l’atteggiamento dei farisei rivela anche una stortura morale: la purezza legale (come sedere a mensa con uomini impuri) a scapito della carità, l’esteriorità a scapito dei valori di fondo. Gesù si rifà invece alla predicazione dei profeti (“misericordia voglio non sacrificio”), unanimi e severi su questo punto (Os. 6,16; Is. 1, 10-17).


Le parole di Gesù si tramutano in aperto dissenso, dapprima con i farisei: “Perché il vostro Maestro mangia insieme ai pubblicani e peccatori?”. Poi con i discepoli di Giovanni: “Perché mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?”. Nel primo caso la perplessità nasce dal comportamento di Gesù (i farisei si rivolgono ai discepoli), nel secondo caso nasce dal comportamento dei discepoli (e si rivolgono a Gesù). Ma il discusso è sempre Gesù ed egli reagisce parlando di se stesso.


I farisei e i discepoli di Giovanni digiunavano per affrettare la venuta del Messia e per disporsi ad accoglierlo. I discepoli di Gesù sono convinti che il Messia sia già con loro: è il tempo della festa, non del digiuno. Più avanti lo Sposo sarà tolto (allusione alla croce) e allora verrà il tempo del distacco, della passione e della prova, e si digiunerà (9,15). Ma sarà un digiuno diverso.


Gesù non si accontenta di questa risposta, ma prosegue denunciando il vero motivo per cui i farisei si mostrano perplessi e scandalizzati di fronte ai suoi comportamenti. Essi, infatti, leggono i suoi comportamenti (9, 16-17) partendo dal presupposto che lui e la sua dottrina debbano essere compatibili con le vecchie botti. Invece Gesù è portatore di novità e non è giusto valutarlo sul metro dei vecchi schemi mentali, religiosi e sociali. Va letto con occhi nuovi, disposti a cambiare le botti e il vestito. Il vangelo è incompatibile con la legge, l’opera iniziata da Gesù non è un rattoppo di elementi presi dal giudaismo con affermazioni sue proprie.


Un ultimo trittico di miracoli (9, 18-34) chiude questa sezione narrativa, L’evangelista approfitta di questi ultimi racconti per sottolineare il tema della fede. Alla donna che lo tocca egli dice: “La tua fede ti ha guarita” (9,22). Una donna che aveva perdite di sangue era considerata impura, e impuro diventava tutto ciò che ella toccava. Ma Gesù non bada a queste cose e si lascia toccare. Nel gesto della donna vede un atto di fede, e questo è ciò che conta.


Ancora più esplicito è il racconto della guarigione dei due ciechi (9, 27-31). “Vi sia fatto secondo la vostra fede”.


I miracoli sono sempre legati alla fede, ma non è la fede dell’uomo che guarisce, ma la potenza di Dio. La fede ne è la condizione: Matteo precisa che la donna guarì “in quell’istante”, cioè non quando ebbe fede e neppure quando toccò il mantello di Gesù, ma quando il Signore le rivolse la parola. E’ la parola di Cristo che guarisce e la fede è la condizione perché Dio operi i miracoli. Perché avere fede significa, in sostanza, confessare la propria impotenza e proclamare nel contempo la propria fiducia nella potenza di Dio. Fede è rifiuto di contare su se stessi per contare unicamente su Dio. Il grido degli ammalati che invocano il Cristo esprime sempre questo duplice atteggiamento.


L’evangelista approfitta di questi ultimi racconti per precisare un’altra cosa, e cioè che i miracoli di Gesù ottengono insieme l’assenso e il dissenso. Suscitano l’entusiasmo delle folle: “Non si è mai visto nulla di simile in Israele” (9,31). Ma anche la netta opposizione dei farisei: “Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni” (9,34). Con questa battuta negativa si chiude la prima narrazione dell’attività di Gesù. Stranamente il dissenso nasce soprattutto quando Gesù libera dal demonio: dopo il primo esorcismo fu invitato ad allontanarsi (8,34), e dopo il secondo è lui stesso accusato di essere strumento del demonio.


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DISCORSO: il discorso missionario (9,35-11,1)




Matteo introduce il discorso missionario (il secondo dei suoi cinque discorsi) offrendoci un quadro riassuntivo delle attività di Gesù (9,35): percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando la lieta notizia del regno e sanando ogni malattia. L’intenzione dell’evangelista è chiara: il discepolo non ha una missione diversa da quella del suo Maestro.


In Gesù il desiderio della missione nasce dal vedere le folle “come pecore senza pastore (9,36). L’espressione risale ai profeti e descrive le condizioni del popolo di Dio disperso, senza unità e senza una guida. Cristo vuole essere annunciato dovunque perché vuole unire, togliere gli uomini dalla solitudine e dalla dispersione.


Subito dopo Gesù ricorre a un’altra immagine dei profeti: la messe (9,37). L’immagine era usata per indicare il futuro regno messianico che non sarebbe più stato il tempo dell’attesa e della preparazione, ma della mietitura e della realizzazione. Ecco il tempo è arrivato, tutto è pronto e perciò la missione è urgente: è il tempo del raccolto, che i profeti hanno sempre visto in chiave escatologica: ma l’escatologia (gli ultimi tempi) è già iniziata e la salvezza è qui. La missione dei discepoli, perciò, non è di portare la salvezza ma di annunciare la presenza: il lavoro è di Dio e gli uomini raccolgono.


Incontriamo per la prima volta il gruppo dei dodici. Matteo non distingue la chiamata dei dodici dalla loro missione: la loro principale caratteristica è quelle di essere continuatori della missione del Maestro. E Gesù li invia con l’ordine di limitarsi “alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5). Questo ordine – il cui significato particolaristico sarà superato dal chiaro significato universalistico dell’invio finale da parte del Risorto (28, 10-20) – rivela la situazione storica in cui fu dato: Gesù inviò i dodici in priva nei villaggi d’Israele. Ma se il Vangelo ha conservato questo detto – e lo ha collocato in un discorso che vale per la Chiesa di sempre – è perché contiene anche un significato teologico perenne: Israele è il popolo eletto e l’elezione comporta una priorità. Del resto Gesù stesso ha limitato la sua missione a Israele (15,24). Non si assunse il compito di correre dovunque, ma si limitò a portare a compimento – entro un piccolissimo gruppo – le promesse di Dio. L’indicazione non è trascurabile. Ciò che conta non è correre dovunque e arrivare dappertutto, ma far maturare, anche in un solo luogo, dei valori che hanno in sé una carica di universalità. Conta più essere un segno chiaro dell’amore di Dio sia pure di fronte a un uomo solo (disposti però, naturalmente, ad esserlo di fronte a tutti), anziché a un vasto grigiore diffuso, meglio un piccolo gruppo maturo che diventi “segno e attrazione”, anziché un grande gruppo incolore e amorfo.


Matteo elenca alcune norme che costituiscono lo stile missionario. La prima di esse è la povertà: il discepolo di Cristo mette a disposizione tutto se stesso gratuitamente (la sua fede, il suo tempo, la sua amicizia), e lo fa perché è convinto di avere egli, per primo, ricevuto tutto gratuitamente e in abbondanza. E’ la forma più profonda della povertà di spirito: tutto ciò che è in noi è dono di Dio e degli altri e, perciò, tutto deve generosamente e gratuitamente, tornare a Dio e agli altri. C’è di più: la povertà si esprime nell’accontentarsi di poco, dello stretto necessario (10,9), e nel coraggio (che è fede) di affidare anche quel poco alla provvidenza di Dio.


L’apostolo cerchi un luogo “degno” (10,11), cioè un luogo che non susciti pettegolezzi o altro: sembra che già la chiesa primitiva abbia conosciuto esperienze dolorose in questo senso: falsi apostoli girovaghi che, con la scusa del Regno, andavano qua e là in cerca del meglio. E’ previsto il rifiuto (10,14). Scuotere la polvere dai piedi non è una maledizione: vuol dire che quando il discepolo ha fatto tutto, non deve fermarsi: non ha tempo da perdere. Il tempo è talmente poco e l’annuncio talmente importante che non puoi stare in un solo posto, ostinandoti. Del resto, il compito del missionario non è di forzare ad ogni costo il cuore dell’uomo: non lo ha fatto neppure Cristo. Il compito dell’inviato, quindi, è quello di fare la proposta chiara e convincente e poi di affidarla alla libertà dell’uomo stesso. Il compito del missionario si limita all’annuncio, ed è efficace nella misura in cui l’annuncio è chiaro e provocante.


Infine, Gesù ricorda che la lotta del discepolo contro il male non è ad armi pari: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. Il discepolo è povero ed esposto, ricco solo di fede nella validità del suo annuncio. La missione esige un ambiente di debolezza, ma la debolezza è colmata dalla presenza del Signore (28,20). Sembra che Dio esiga un ambiente di debolezza per costringere il discepolo alla fede e per togliergli ogni illusione: è Dio che agisce, non sono gli uomini.


La debolezza però non è faciloneria, superficialità, ingenuità. Semplici e prudenti, ecco le parole del Cristo. La semplicità è lealtà, trasparenza, fiducia nella verità e quindi rifiuto di ogni sotterfugio e di ogni mezzo di violenza. La prudenza è la capacità (e l’umiltà) di valutare le situazioni concrete. Ma si tratta sempre della prudenza del Cristo, non della prudenza del mondo che è fatta di calcolo cinico, di diplomazia e compromessi, sempre alla ricerca di una salvezza per se stessi.




Questo brano riflette l’esperienza della Chiesa primitiva e allude alla persecuzione sia da parte dei giudei (17)[16] sia da parte dei pagani (18). Questi versi sono una forma ampliata di Mc 13,9 sintetizzata in 24,9 (v. Lc 21, 12-18).


In questa seconda parte del discorso missionario, Matteo si intrattiene sulla persecuzione che accompagna la missione e, quindi, sul coraggio che è richiesto al discepolo. Il brano si può dividere in due parti: la persecuzione (10, 17-25) e il coraggio (10, 26-33).


Il discepolo che ha deciso di seguire il Maestro, non può aspettarsi un destino diverso da quello del Maestro (“Il discepolo non è da più del maestro”). E se per Gesù la via della croce non solo fu prevista, ma voluta, così deve essere per il discepolo: la persecuzione fa parte della missione ed è il segno della sua verità.


Ma il vero motivo per cui il mondo odia Cristo e continua ad odiarlo nei suoi discepoli è espresso da Gesù stesso: “A causa del mio nome”. L’annuncio del discepolo è un giudizio che inquieta il mondo, il Cristo è venuto a fare irruzione nella tranquillità del mondo e delle famiglie. La parola che il discepolo annuncia costringe a prendere posizione e la divisione penetra anche nel cuore delle famiglie (10, 34-36): la decisione per Cristo porta il fratello a separarsi dal fratello e i figli dai genitori (Mt addolcisce l’ “odiare” trovato in Lc con un “amare di più”). E così il discepolo (il vero discepolo) è considerato un disturbatore, un distruttore dell’ordine, della religione e della convivenza pacifica.


Il discepolo deve comprendere tutto questo e accettarlo coraggiosamente: deve perfino gioire, senza falsi eroismi, però. Perseguitati in una città, si fugge in un’altra: la predicazione del vangelo è il compito primario del discepolo e se gli viene impedito di predicare in un luogo deve spostarsi in un altro.


La seconda parte del brano (10, 26-33) è un invito al coraggio nella persecuzione, al coraggio di parlar chiaro, di gridare il messaggio di Cristo dai tetti, il coraggio di non aver mai vergogna di Cristo di fronte agli uomini.


I motivi che devono sostenere tale coraggio sono così elencate: la certezza di essere nelle mani del Padre; la certezza che condividere la croce di Cristo, significa anche condividere la sua risurrezione, la certezza, infine, che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vita.


E’ un coraggio – come si vede - che nasce dalla fede e dalla libertà, ma il coraggio è autentico nella misura in cui si ama Cristo più di ogni altra cosa (10, 37-39). Solo così il discepolo è libero da se stesso e non ha più nulla da difendere, quindi non è ricattabile. Soprattutto il discepolo deve sapere che il più è al sicuro, nelle mani di Dio.


L’ultima parte del grande discorso missionario non è più rivolta ai missionari, ma a coloro che li accolgono: è come accogliere Cristo. Nel concetto di accoglienza è in primo piano l’aspetto di ascolto, di accettazione del messaggio che i missionari portano. L’ultima espressione di questo brano però è riservata all’ospitalità, l’aiuto, il servizio (“chi darà da bere…): il missionario è un piccolo, cioè un uomo comune, debole e bisognoso. Ha lasciato la casa per essere un nomade, per vivere sulle strade, sempre a disposizione degli altri, ma come capita agli uomini comuni, la strada lo logora.






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SEZIONE NARRATIVA: ostilità dei Giudei (11,2- 12,50)


Fra il discorso missionario e il discorso in parabole Matteo inserisce una seconda sezione narrativa. Già sappiamo la funzione di queste sezioni: l’evangelista è convinto che i discorsi di Gesù siano importanti, ma è altrettanto convinto che il messaggio del Regno non è una dottrina ma un evento, una storia.


Come già nella precedente sezione narrativa (cc. 8-9), anche qui si intrecciano miracoli, brevi insegnamenti, dialoghi e controversie: la gente, i farisei e altri gruppi giudicano Gesù, esprimono pareri sulla sua opera. Anche Gesù giudica loro, ed è un giudizio negativo: svela le profonde ragioni del loro dissenso e la gravità del loro rifiuto.




Agli inviati del Battista che volevano rendersi conto della sua messianicità, Gesù risponde con una serie di allusioni agli oracoli di Isaia, soprattutto al c. 61, un passo importante che ha già fatto da sfondo alle beatitudini. Gesù non risponde direttamente alla domanda degli inviati di Giovanni (“ Sei tu colui che deve venire?”)[17] ma rinvia alle sue opere (una storia che è sotto gli occhi di tutti) e alle Scritture (il passo di Isaia). Gesù enumera una serie di miracoli che lo mostrano non come giudice potente, ma come il portatore della grazia e della salvezza: “I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano…”. Fra essi vi è perfino la risurrezione dei morti, soltanto l’ultimo (“ai poveri è predicato il vangelo”) non è un miracolo, e tuttavia è forse il segno più specifico e decisivo: che Gesù sia l’inviato di Dio è provato dai miracoli, ma è la predilezione per i poveri (ammalati, peccatori, pagani) che rivela la novità della sua scelta messianica.




Dopo aver indicato i termini in base ai quali è possibile dare un giudizio su di lui (i miracoli, la scelta dei poveri e le Scritture), Gesù esprime il suo giudizio sul Battista e lo fa rivolgendosi alle folle. La grandezza di Giovanni non consiste solo nell’austerità della sua vita e nella fortezza del suo carattere, sta piuttosto nell’aver accettato il compito di preparare il terreno al Messia, cioè di essere stato il suo testimone. Giovanni è venuto per rendere testimonianza a Gesù: risiede qui tutto il suo significato e la sua eccezionale grandezza e Gesù gli fa un grande elogio: Giovanni è la figura più grande di tutta l’economia della legge e dei profeti, implicitamente Giovanni viene giudicato superiore persino a Mosè. Giovanni, però, visse e operò prima della venuta del regno di Cristo, pertanto, anche il più piccolo nel regno, poiché riceverà la luce del vangelo e la potenza della fede, compirà opere più grandi di quelle di Giovanni.


Dopo il giudizio sul Battista c’è un giudizio “su questa generazione” (11, 16-19). Come è sua abitudine, Gesù ricorre a un paragone. Due gruppi di bambini, schierati sulla piazza uno di fronte all’altro, decidono di giocare al funerale. Ma quando il primo gruppo inizia le nenie, l’altro non si muove, ha già perso interesse al gioco: è troppo triste – essi dicono – allora si cambia e si ricomincia da capo, si gioca allo sposalizio. Ma anche questa volta il secondo gruppo non si muove: il gioco è troppo allegro. Gesù rimprovera gli uomini di questa generazione perché sono proprio come quei bambini capricciosi: non sanno quello che vogliono, non sanno decidersi e per chi non vuol decidersi le scuse sono sempre a portata di mano.




Questo brano Luca lo inserisce come parte delle parole di addio di Gesù alla Galilea, Matteo probabilmente vide un’opportunità di contrapporre all’elogio di Giovanni Battista il rimprovero rivolto a coloro che avevano visto di Gesù molto di più di quanto aveva visto Giovanni. Corazin e Betsaida, infatti, sono le città nelle quali Gesù ha svolto la sua attività con maggiore intensità: hanno udito l’annuncio e hanno visto i miracoli, ma non si sono aperte al vangelo. Al loro posto Tiro e Sidone, città pagane, si sarebbero convertite. Non è la prima volta che si fa un simile confronto. Per Matteo la vita di Gesù è segnata da questo confronto fin dall’inizio: i Magi sono venuti da lontano per adorarlo, mentre Erode ha cercato di ucciderlo.




Luca colloca questo brano dopo il ritorno dei 72 discepoli: è una preghiera di ringraziamento per il successo della loro missione e per la capacità di intendere che è stata loro (“i piccoli”) concessa. La collocazione di Matteo – dopo il rimprovero alle città della Galilea – contrappone i piccoli, i discepoli, ai saggi e ai prudenti che sono i giudei, in particolare le loro guide spirituali: scribi e farisei.


Gesù non è riuscito a fare breccia tra i saggi e i sapienti, il suo messaggio è stato accolto soltanto da pochi discepoli proveniente dalle classi contadine e operaie. Questo non significa che la rivelazione sia stata negata ai saggi e ai sapienti della comunità giudaica, Gesù ha annunciato anche a loro il regno, ma soltanto i semplici hanno accettato il suo insegnamento. Viene qui implicitamente affermato che la saggezza e la cultura giudaica, che consistevano nella conoscenza della legge, costituivano un autentico ostacolo alla comprensione del messaggio di Gesù.


Gli affaticati e gli stanchi (28-30) sono i poveri, ai quali viene annunciata la buona notizia. Gesù li invita perché è uno di loro. Il “giogo” e il peso di Gesù sono la sottomissione al regno di Dio. Sottomissione che non è schiavitù ma la rivelazione di un Padre che non impone nuovi precetti ma che libera dai gioghi e dai pesi opprimenti e rende più facile vivere conformemente alla sua volontà.




Il sabato era uno dei precetti divini più chiari, più indiscussi, quasi la tessera di riconoscimento del vero credente. La sua osservanza era rigidamente regolata. Naturalmente si ammettevano eccezioni per motivi di particolare gravità: portare aiuto a un uomo in pericolo, o a una donna colta dai dolori del parto o in caso di incendio e così via. Ma si trattava sempre di eccezioni a una regola, per Gesù invece è cambiata la regola. Egli afferma che il bene dell’uomo si pone al di sopra dell’osservanza del sabato, e questo non soltanto nel caso di pericolo di vita: “E’ permesso fare del bene anche di sabato”. Gesù proclama il valore assoluto dell’amore: è lui il profeta autorizzato a dirci che cosa Dio vuole e che cosa non vuole, cosa ritiene più importante e che cosa meno importante: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato”. Per Dio la cosa più importante è l’uomo, il bene dell’uomo: “Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del tempio” (12,6) – “Quanto è più prezioso un uomo di una pecora (12,12). E questo è veramente il punto più nuovo del ragionamento di Gesù. Se i sacerdoti possono infrangere le regole del sabato per svolgere il loro servizio al tempio, quanto più si possono infrangere per fare del bene all’uomo: “l’uomo è più grande del tempio”.


I farisei, invece, partendo dall’ovvio principio che Dio è superiore all’uomo, concludevano che l’onore di Dio era da preferirsi al bene dell’uomo: prima l’onore di Dio, poi il bene dell’uomo. Anche questo sembra un ragionamento ineccepibile e invece nasconde una stortura fondamentale, un errore teologico primario. Si suppone, infatti, che l’onore di Dio (di un Dio che è amore) possa trovarsi in conflitto con il bene dell’uomo, possa realizzarsi al di fuori del bene dell’uomo. Invece la gloria di Dio è sempre – e unicamente – nel bene dell’uomo. La signoria di Dio resta indiscussa e il dovere fondamentale dell’uomo resta sempre l’obbedienza: ma la signoria di Dio si manifesta nell’amore, qui sta il suo onore. E l’osservanza del sabato deve essere una celebrazione di questo amore, non una smentita.




Lo scopo di questo sommario è di introdurre la citazione tratta da Isaia 42, 1-4, citazione che è riportata da una delle rare allusioni di Mt al segreto messianico di Mc (v. 8,4). La citazione tratta da Isaia si riferisce non solo alla missione del Servo a favore dei pagani (e questo concetto viene incluso da Matteo nella sua citazione), ma è intesa come una forte contrapposizione all’accusa dei farisei riportata nel brano successivo.




L’accusa si trova anche in Mc 3, 20-22 ma senza il racconto del miracolo. Il miracolo è descritto soltanto nei suoi elementi puramente essenziali: l’interesse è nella discussione non nel miracolo in sé. Mt aggiunge “cieco” al “muto” di Lc. L’accusa abbassa Gesù al livello di uno stregone (Beelzebul: nome tratto da 2 Re 1, 2-6, era una divinità cananea il cui nome significa “Baal il principe”, ma l’ortodossia monoteista ne ha fatto “il principe dei demoni”), esisteva, infatti, a quel tempo la concezione che tali opere prodigiose potessero essere operate con l’aiuto dei demoni.




La prima argomentazione data in risposta si basa sull’assurdità dell’accusa dei farisei. Se Gesù scaccia i demoni per virtù di Beelzebul, allora il regno di satana è destinato alla rovina a motivo della sua stessa interna lotta distruttiva. I farisei sono restii ad ammettere questa logica deduzione. Viene qui senza alcun dubbio affermato il principio che la distruzione del regno di satana avverrà alla fine dei tempi.


La seconda argomentazione, mancante in Mc, è dedotta dagli esorcismi operati da Gesù, che a differenza di quelli giudaici, fatti di lunghi e complicati riti, con numerosi contatti e formule magiche, quelli di Gesù sono operati mediante un semplice comando, unito talvolta, a un semplice contatto fisico.


La parabola dell’uomo forte mostra che Gesù è completamente padrone dei demoni. Il brano si conclude con il detto concernente la bestemmia contro lo Spirito Santo.


A chiunque parla male del Figlio dell’uomo sarà perdonato, perché di fronte a Gesù, che si dichiara Figlio di Dio, che appare pur sempre un uomo come noi, è in qualche modo comprensibile il rifiuto, c’è posto anche per la buona fede. Ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata perché, da parte dell’uomo, c’è una chiusura alla verità, un rifiuto volontario e cosciente alla luce.


I vv. 33-37 sono stati inseriti in questo contesto perché idoneo a descrivere l’incredulità ostinata dei farisei. I detti si agganciano tutti al tema della parola in quanto rivelatrice del carattere genuino della persona. La persona cattiva non può parlare bene perché il suo cuore è cattivo. Il cuore nella Bibbia è la sede dell’intelletto e dei sentimenti. Per Gesù il primo dovere dell’uomo è di tenere pulito il proprio cuore, prima ancora di seguirne i dettami. Perché non si tratta solo di fare cose con cuore (si possono fare di cuore anche cose sbagliate), ma di fare cose che provengono da un cuore retto, capace di intuire il disegno di Dio e di valutare il giusto e l’ingiusto.




Gli scribi e i farisei chiedono a Gesù un “segno”, forse un segno più convincente di quelli compiuti finora, ma Gesù rifiuta con sdegno simile pretesa. A questa generazione, dice, non sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona profeta.


Nella interpretazione di Matteo il segno di Giona è la risurrezione, ma il pensiero volge anche in un’altra direzione: cioè il confronto fra l’accoglienza che ebbe la predicazione di Giona e l’accoglienza che ha invece la predicazione di Gesù. Il confronto si tramuta in una severa condanna e ripropone quella constatazione che l’evangelista ha più volte sottolineato: i pagani sono più disponibili alla parola di Dio degli stessi giudei.




Gesù scaccia i demoni ma essi tornano, questo significa che il tempo di satana continua e la lotta non finisce mai, anzi, sembra intensificarsi. Il discepolo non deve perciò mai sentirsi arrivato e al sicuro, immune dalla tentazione del peccato. Ma questo avvertimento di Gesù va visto anche in una prospettiva collettiva, è rivolto, infatti, a “questa generazione perversa”. Egli avverte che la sua venuta, che pure inaugura il Regno di Dio, non sottrae le generazioni alla possibilità di cadere nel dominio di satana. Di fronte alla venuta di Gesù, satana non cessa di colpire, ma intensifica i suoi attacchi, e ci si può trovare in una condizione peggiore della prima. Come appunto avviene dei suoi contemporanei.




I capitoli 11 e 12 hanno ripetutamente evidenziato la cecità di “questa generazione”, una generazione che assomiglia a quei bambini che rifiutano un gioco e anche l’altro, e che dopo aver visto tanti segni ne chiede altri. Ma accanto a questo quadro fortemente negativo c’è anche un filo positivo: all’inizio la grande figura del Battista, poi i “semplici” ai quali è piaciuto al Padre rivelare “queste cose”, e ora – a modo di conclusione – i discepoli, la vera famiglia di Gesù. L’episodio è comune a tutta la tradizione sinottica e contiene una lezione molto chiara: agli occhi di Cristo, e per appartenere al Regno, non è la parentela fisica che conta (tanto meno l’appartenenza a una razza o a un popolo), ma soltanto la fede, e precisamente una fede concreta, fatta di ascolto e di opere: “Chiunque fa la volontà del Padre mio”.


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DISCORSO: le parabole del Regno (13, 1-52)


La parabola nel NT designa una breve narrazione immaginaria usata da Gesù per spiegare la sua dottrina. Il racconto in parabole ha la funzione di intensificare la curiosità e di attirare l’attenzione.


La maggior parte delle parabole evangeliche possono essere lette in una duplice dimensione: la situazione originaria del tempo di Cristo e la sua attualizzazione nel tempo della Chiesa primitiva.


Le parabole furono modificate nell’insegnamento della comunità e queste modifiche emergono chiaramente quando si mettono a confronto le differente versioni della stessa parabola nei diversi vangeli.


I commenti delle parabole (v. 13, 18-23.36-43) e gran parte delle caratteristiche allegoriche sono elaborazioni fatte dalla Chiesa primitiva.




L’insegnamento della parabola del seminatore – questa è la situazione più originaria, cioè quella di Cristo – non riguarda anzitutto gli ascoltatori della Parola, ma i seminatori - cioè i predicatori. La parabola, infatti, attira l’attenzione sul lavoro del seminatore, un lavoro abbondante, senza misura, senza distinzioni e che al momento sembra inutile, infruttuoso, sprecato. Eppure – dice Gesù – i frutti verranno abbondanti, perché il fallimento è solo apparente: nel Regno di Dio non c’è lavoro inutile né spreco. Comunque, successo o no, spreco o no, il lavoro della semina non deve essere calcolato, cauto, previdente, soprattutto non bisogna scegliere i terreni e gettare i semi in alcuni si e altri no. Il seminatore butti i semi senza risparmio e senza distinzioni, perché nessuno (come dirà Gesù più avanti) deve anticipare il giudizio di Dio: neppure il seminatore ha questo diritto.


La tradizione non si è accontentata di trasmettere la parabola, ma vi ha aggiunto una spiegazione (13, 18-23), meglio un’attualizzazione, che trasforma la parabola (in origine rivolta ai predicatori) in una catechesi per i convertiti. La spiegazione si rivolge ai fedeli e insiste sulla necessità di alcune disposizioni interiori e personali perché la Parola ascoltata venga capita e cresca. Ecco le principali disposizioni: apertura ai valori del Regno, coraggio di fronte alle persecuzioni, costanza, resistenza allo spirito mondano e liberà interiore.


Questa interpretazione della comunità primitiva non annulla il primo livello di interpretazione, al contrario, lo utilizza come suo fondamento: la fede non sempre è perseverante neanche tra i vari membri della Chiesa, cioè i predicatori.




Come la parabola del seminatore, anche questa della zizzania è seguita da una spiegazione (13, 36-43). La parabola risale a Gesù, la spiegazione appartiene alla comunità. Questo ci impone due letture: la parabola in se stessa e la parabola alla luce della sua spiegazione.


La parabola insegna che nel campo ci sono buoni e cattivi (ma gli uomini non sono in grado di sapere chi sono i buoni e chi sono i cattivi). La presenza della zizzania non è una sorpresa, e soprattutto, non è un segno di fallimento. La Chiesa non è una comunità di salvati, di eletti, ma è il luogo dove ci si può salvare. La Chiesa non si chiude a nessuno. Esistono sempre “servi impazienti” che vorrebbero anticipare il giudizio di Dio, ma questo giudizio non è riservato agli uomini, perché essi non sanno giudicare e non conoscono il metro di Dio.


Il centro della parabola non sta semplicemente nella presenza della zizzania, ma nel fatto che essa ora non venga strappata: è qui la meraviglia e lo scandalo dei servi, in questa politica di Dio, in questa sua pazienza.


Se leggiamo la parabola nel primo livello, quello cioè della situazione storica di Gesù, possiamo rilevare che al suo tempo c’era il movimento farisaico, che pretendeva di essere il popolo santo, separato dalla moltitudine dei peccatori. E c’era il movimento di Qumran, con la sua idea di opposizione e separazione, di rigida santità che esigeva il rifiuto di tutti coloro che non erano puri. E c’era la stessa predicazione del Battista (Mt 3,12), che annunciava il Messia come colui che avrebbe vagliato il grano e lo avrebbe separato dalla zizzania. Gesù viene a fare il contrario di tutti questi tentativi: egli non si separa dai peccatori, ma va con loro, ha nella sua cerchia anche un traditore.


Possiamo dunque dire che zeloti, farisei, Qumran, affermavano la santità a costo della separazione, e in questo contesto si capisce tutta la forza polemica della parabola di Gesù. Non è tanto una predicazione morale, un invito alla pazienza, ma una spiegazione teologica: il Regno è una realtà già presente, ma è una realtà dinamica, il male è già vinto alla radice ma non ancora nelle sue conseguenze.


Se leggiamo però la parabola alla luce della sua spiegazione (vv. 37-43), allora l’insistenza non riguarda più il Regno di Dio e la sua politica di tolleranza, ma un ammonimento a non approfittare della pazienza di Dio: ci sarà infatti il giudizio.


Nella spiegazione sono visibili due parti assai diverse:


a) una spiegazione allegorica dei diversi punti della parabola (vv. 37-39)


b) una piccola apocalisse, che ha lo scopo di applicare la sorte del grano e della zizzania ai buoni e ai cattivi nell’ultimo giorno.


Questa spiegazione rivela un ambiente comunitario preciso: il tempo ha fatto affiorare nelle comunità la coscienza della missione universale, ma insieme ha rivelato la presenza di molte defezioni dalla Chiesa. Di fronte a questi abbandoni - a differenza di prima – non c’è più tanto la meraviglia e lo scandalo, ma piuttosto l’adattamento. Per questo la spiegazione della parabola, anziché insistere sulla tolleranza, insiste sul suo contrario: non è la stessa cosa stare da una parte o dall’altra, bisogna collocarsi dalla parte giusta perché alla fine saremo giudicati.




Tralasciamo la parabola del granello di senapa, perché comune a Marco. Accanto a questa, Matteo ha inserito la parabola del lievito (vv. 33-35).


Nella sua forma attuale questa parabola rientra nella stessa categoria delle parabole del seminatore e del grano di senapa, e come esse, la parabola del lievito illustra la crescita irresistibile del regno da modesti inizi. Ma al tempo della redazione evangelica la prospettiva è in parte mutata: la Chiesa è già in espansione. Resta sempre vero però che questa espansione viene da Cristo e dalla sua azione (lievito) e che, a sua volta, questa presenza della Chiesa (sempre piccola in confronto al mondo: oggi lo sappiamo molto bene) deve essere come il lievito in una grande massa di farina.


Le due brevi parabole del tesoro e della perla (vv. 44-46) vogliono sottolineare l’abbandono senza riserve e senza compromessi al Regno: il motivo che spinge il discepolo a lasciare e ad aderire a Cristo è la gioia di aver trovato.


Il detto conclusivo (v. 52) è una riaffermazione del principio che regola il rapporto tra legge (AT) e vangelo (NT). Lo scriba[18] che è diventato un discepolo utilizzerà tanto l’antico (la legge e i profeti) quanto il nuovo (vangelo). Nessuno dei due è sufficiente senza l’altro; il vangelo infatti è la pienezza, il compimento della legge.






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Dopo il discorso in parabole inizia la più lunga sezione narrativa che si spinge fino al c. 18. Matteo riprende qui il filo di Marco (cc.6-8), riproducendone sostanzialmente l’ordine degli episodi, la struttura letteraria e i temi principali. Come sempre nelle parti narrative il materiale è vario: miracoli, insegnamenti, controversie. E ritroviamo tutti i personaggi: la folla, i discepoli, gli avversari. La narrazione si snoda alternando scene in cui Gesù e i discepoli sono soli e scene in cui Gesù e i discepoli sono tra la folla. La prospettiva dominante è la prima: si ha l’impressione cioè che Gesù incominci a staccarsi dalle folle per dedicarsi alla formazione dei suoi discepoli. Certo Gesù continua ad agire tra la gente e in favore della gente (le due moltiplicazione dei pani, ad esempio). Anche la formazione che egli imparte ai discepoli non consiste in nessun modo nell’allontanarli dalla gente per stare da soli in una comunità chiusa, ma le spiegazioni di ciò che accade sono date per lo più ai soli discepoli.




La sezione narrativa si apre, come nelle altre narrazioni, con un episodio di rifiuto. L’episodio di Nazaret non è un episodio isolato, né la reazione di un piccolo paese: è invece il simbolo del comportamento dell’intero Israele nei confronti di Gesù. La ragione dello scandalo non è questo o quel gesto di Gesù, ma la condizione stessa del Figlio di Dio, il suo essersi fatto uomo, la sua scelta di un’esistenza umile e povera.




Dopo il rifiuto di Nazaret, il martirio del Battista prefigura quello di Gesù. Si noti come il martirio del Battista è stato sempre visto finora all’orizzonte dello stesso cammino di Gesù. E’ ricordato tre volte:


- la prima, quando Gesù inizia la sua attività pubblica in Galilea: “Avendo saputo che Giovanni era stato arrestato” (4,12).


- La seconda, quando Gesù attira l’attenzione sulle sue opere e sulle Scritture (il modo più corretto per capire chi egli sia) e poi – sempre prendendo spunto dal Battista – giudica severamente “questa generazione”: “Giovanni, intanto era in carcere” (11,2).


- Infine in questa sezione narrativa, in cui il destino di Gesù e quello del suo precursore sono posti l’uno accanto all’altro.




Come Marco, anche Matteo ricorda due moltiplicazione dei pani (4, 13-21 e 15, 32-39). I due racconti danno il tono alla sezione, perché il termine “pane” ritorna con frequenza al di fuori dei due racconti della moltiplicazione (15,3.26; 16,5.7.8.9.10.11): Gesù è il Maestro che dona la parola (il discorso della montagna), libera dal demonio e guarisce (i racconti di miracoli), e spezza il pane per le moltitudini. Il luogo dell’episodio non è chiaramente indicato in nessuno dei tre sinottici (“un luogo deserto”). Tuttavia, si trovava abbastanza vicino ai villaggi da permettere di andare a procurarsi il cibo; la località pertanto non è il “deserto” nel senso tecnico del termine.


I dodici distribuiscono il cibo e raccolgono gli avanzi: Mt registra un numero maggiore di persone, innumerevoli donne e bambini oltre i 5.000 registrati da Mc 6,44. Con ogni probabilità il numero è esagerato, e comunque non è il risultato di un conteggio delle singole persone. La tradizione orale ha la tendenza ad aumentare cifre di questo genere.


L’episodio viene riportato non tanto per quanto ha di miracoloso (manca qui infatti la solita meraviglia che segue il miracolo), quanto perché è un segno e un’anticipazione dell’Eucarestia. Le abbreviazioni di Mt ottenute per mezzo di omissioni di alcuni dettagli e dialoghi, hanno lo scopo di accentuare il significato simbolico dell’episodio.




Nell’AT, sebbene in testi poetici, la sovranità di Jahwè è descritta anche col ricorso al dominio che egli esercita sulle acque del mare: “Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque” (Sal 77,20); “cammina sulle onde del mare” (Gb 9,8). Il fatto che Gesù cammini sulle acque lo mette allo stesso livello su cui era visto Jahwè nell’AT. Pertanto, l’episodio, come il precedente, ha un significato simbolico.


Con questo capitolo inizia quella parte di Mt che viene chiamata la sezione ecclesiastica, che avrà il suo vertice al c. 18 con il discorso sulla Chiesa. I discepoli nella barca rappresentano la Chiesa, dalla quale Gesù non è mai lontano anche quando la situazione è minacciosa e la sua presenza invisibile. Mt è l’unico che aggiunge il fatto del tentativo di Pietro di camminare sulle acque. Questa aggiunta accresce il significato simbolico dell’episodio. La peculiare posizione di Pietro tra i dodici è chiaramente affermata in tutta questa sezione, per far risaltare la responsabilità che altri non hanno. Per affrontare queste responsabilità Pietro deve aver fede: egli cammina sulle acque come Gesù, non per propria potenza. La sua possibilità dipende unicamente dalla parola del Signore (“Vieni”) e la sua forza sta tutta nella fede. Aggrappato a questa fede il discepolo può ripetere gli stessi miracoli del suo Signore. Ma se questa fede si incrina, allora egli torna ad essere facile preda delle forze del male e soccombe nella tempesta.




Quest’ampia controversia inizia “con alcuni farisei venuti da Gerusalemme” e si conclude in una forma di istruzione privata ai discepoli. “allora i discepoli gli si accostarono”. Questo mutamento di interlocutori mostra che il discorso non intende essere solo un rimprovero ai farisei del tempo, ma anche un avvertimento alla comunità dei discepoli. Tanto è vero che l’evangelista non insiste unicamente sulla cecità dei farisei, ma anche sull’incomprensione degli stessi discepoli: “Anche voi siete ancora senza intelletto? Non capite che…”.


L’abilità di confondere le proprie tradizioni con la volontà di Dio è una malattia religiosa che può riprodursi facilmente dappertutto, anche nella comunità cristiana.


Gesù nel dibattito introduce un passo di Isaia (29,13) ne fa l’esegesi e lo applica al caso. Così è subito chiaro che la denuncia che egli fa ha il sostegno delle stesse Scritture. I rimproveri del profeta sono due:


- una religiosità superficiale (“con le labbra”) anziché un coinvolgimento totale dell’uomo, fin nel profondo del cuore (“ma il suo cuore è lontano da me”);


- una morale che smarrisce l’autentica volontà di Dio nel cumulo delle interpretazioni umane (“insegnando dottrine che sono precetti di uomini”).


Sono esattamente i due rimproveri che Gesù sviluppa in questo dibattito.


Le affermazioni salienti sono due:


a) La prima: “Avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione”[19] (15,6).


b) La seconda: “Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca” (15,10). E la ragione è semplice: ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore, è dal cuore che provengono i desideri malvagi. Nel linguaggio biblico il cuore è il luogo delle decisioni, è la coscienza, è la mente, e allora, è il cuore che va tenuto in ordine.


Ci sono, infine, alcune parole che Matteo è l’unico a riportare (vv. 12-14). I farisei, considerati modelli di fede, sono scandalizzati del discorso di Gesù e i discepoli ne sono turbati. Gesù nei confronti dei primi è molto duro: non sono più la pianta di Dio, “sono ciechi e guide di ciechi”. Non è difficile intravedere dietro queste parole una domanda assillante dei cristiani di provenienza giudaica della comunità di Matteo: si deve o non si deve rompere con il giudaesimo? La risposta è netta: “Lasciateli” (v. 14). Ritroveremo parole altrettanto dure più avanti (23, 16-22).




Questa narrazione non è il racconto di un miracolo, né può essere classificata come la storia di una frase. Il punto culminante dell’episodio, infatti, non è il miracolo o il detto di Gesù, ma il detto della donna. Sotto questo punto di vista il racconto è unico e rivela problemi connessi con l’ammissione dei pagani nella Chiesa, ma non è composto unicamente per questo.


Gesù afferma di essere venuto in primo luogo per Israele (la sua rottura non è con l’elezione del popolo ebraico, ma con le tradizioni farisaiche), ma poi salva una straniera. L’episodio pone il conflitto, già accennato nel precedente episodio, tra la priorità di Israele da una parte e i pagani dall’altra. Il conflitto è posto ma presto risolto: anche se Gesù è stato inviato per prima alle “pecorelle perdute della casa di Israele”, tuttavia non rifiutò la fede ovunque la trovasse, anzi, a volte, si trova più fede al di fuori che dentro. E’ un concetto che nel Vangelo di Matteo ritorna con sorprendente frequenza: i Magi che vengono da lontano (2,1ss,), i figli di Abramo che possono sorgere dalle pietre (3,9), il centurione pagano (8,10), i niniviti e la regina del sud più disponibili di “questa generazione” (12,39ss.).


La narrazione termina con un sommario che ha lo scopo di collegare il racconto della Cananea (sirofenicia in Mc) con la moltiplicazione dei pani per i 4.000. Questo episodio, infatti, spiegherebbe la presenza della folla in una zona remota e non popolata, “su per il monte”.




Questa seconda moltiplicazione dei pani è così simile alla prima da portarci alla conclusione che si tratti di una variante del medesimo episodio. La presenza di duplicati non è insolita in Mt sono invece, rari in Mc. Le divergenze sono poche: la presenza della folla per la durata di tre giorni, l’iniziativa presa da Gesù, il numero dei pani, il numero dei cesti avanzati, il numero delle persone. I punti in comune sono numerosi: il motivo di Gesù è espressamente indicato nella compassione, la folla si trova in un luogo disabitato, la gente si adagia sulla terra, viene usata la formula eucaristica, la scena è vicina al lago e il miracolo è seguito da un viaggio in barca.




Mt ripete qui quanto ha già utilizzato in 12, 38-39. I farisei e i sadducei chiedono a Gesù un segno dal cielo e questo – si precisa – per tentarlo. Il segno “dal cielo” non significa necessariamente un miracolo più strepitoso, né un prodigio cosmico di tipo apocalittico, ma più semplicemente un segno che provi indiscutibilmente l’autorità di Gesù. L’ironia è che lo chiedono in un contesto già ricco di miracoli. Alla loro richiesta Gesù oppone un netto rifiuto: non intende in alcun modo compiere miracoli diversi da quelli già compiuti: “Nessun segno se non il segno di Giona”, cioè la sua predicazione (che come quella del profeta invita alla conversione), la sua morte e la sua risurrezione. Agli occhi di Gesù la pretesa dei farisei e dei Sadducei non è solo loro, ma è l’espressione di una generazione più generale: “Una generazione perversa e adultera cerca un segno”.


Dunque si chiede a Gesù un altro segno come se quelli compiuti non fossero sufficientemente convincenti. Ma in realtà non sono i segni che devono essere cambiati o aumentati, ma il cuore di chi li valuta: “Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?” (16,3). Questa generazione conosce i segni premonitori della pioggia e del caldo del bel tempo e del brutto tempo, ma non sa decifrare i segni del tempo messianico, non sa riconoscere nelle parole e nei miracoli di Gesù quanto i profeti avevano detto di lui.


Il mondo di oggi è pieno di esperti. Conoscono tante cose: bravi coltivatori della terra ed eccellenti costruttori di macchine, ottimi conoscitori di canzonette e di calciatori, intenditori di film e di opere d’arte, dottori in lettere e professori in medicina. Ma quando si tratta di Cristo, tanti cristiani nuotano in un’abissale ignoranza, quando poi si tratta della Chiesa, la confusione è spaventosa: conoscono solo i pregiudizi dei libri di storia e dei giornalisti anticlericali. Non riescono a discernere i segni della missione del Cristo e della sua Chiesa, succubi di una diabolica propaganda; si creano degli alibi sulla famigerata “ricchezza” della Chiesa e sulla sua fragilità, sugli errori di certi uomini di Chiesa, ecc…




La prima osservazione da fare è questa: la confessione di Pietro sulla messianicità di Gesù, non è il frutto di una sua intuizione personale, ma è attribuita unicamente a una rivelazione divina. Questa testimonianza è importante perché ci fa capire come la Chiesa primitiva riconosceva, per rivelazione divina, la messianicità di Gesù.


La ragione per cui Pietro viene chiamato roccia è la fede da lui dimostrata nella sua confessione. Egli ha espresso verbalmente la fede dei discepoli, ed è sulla fede in Gesù che il gruppo formato da lui avrà il suo solido fondamento. Pietro è il portavoce e l’esempio di questa fede. Finché questa fede durerà, “le porte dell’inferno”[20] non avranno alcun potere sul gruppo.


La consegna delle chiavi è una chiara affermazione di una posizione di capo e di autorità. La frase riecheggia Is 22,22 dove Sobna riceve le chiavi del palazzo reale.[21]


Il significato dell’ufficio conferito è ulteriormente specificato nel conferimento del potere di legare e sciogliere.[22] La frase significa indubbiamente l’esercizio del potere, ma la natura e l’uso di questa autorità non sono specificati. Oggi c’è un fermento intorno a questa tematica sull’autorità del Papa, si parla, infatti sempre più di collegialità. Anche sul problema dell’ecumenismo, il primato di Pietro è oggetto di ampia discussione, lo stesso Giovanni Paolo II, ha chiesto ai teologi di approfondire questa verità profonda della Chiesa.


Dopo aver parlato della propria via messianica e della Chiesa, Gesù parla del discepolo. C’è subito un punto che appare centrale: ogni atteggiamento del discepolo deve porsi in riferimento a Cristo. Nessuna rinuncia è richiesta per se stessa, ma solo per Gesù. L’affermazione più importante è contenuta nel v. 24: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Per essere veri discepoli, bisogna fare qualcosa di radicale, di fondamentale: rinunciare a se stessi, alle proprie sicurezze, per dedicarsi, come Cristo, totalmente agli altri.




Il carattere fortemente simbolico di questa narrazione, indica che questo racconto, come quelle del battesimo di Gesù, ha un valore teologico più che storico. La narrazione ha il suo fondamento su un’esperienza mistica dei discepoli, ma l’esperienza è descritta mediante immagini simboliche cosicché resta impossibile ricostruire l’esperienza stessa.


La pienezza della percezione della realtà di Gesù così come viene indicata nell’episodio della trasfigurazione fu raggiunta dai discepoli solo dopo la risurrezione. Pertanto l’inserimento del racconto qui – dopo la confessione di Pietro e la predizione della passione – ci fa intuire che Mt vuole riaffermare la messianicità di Gesù non solo nella sua risurrezione, nella sua gloria, ma anche nella sua incarnazione e passione dove essa è nascosta.


Il centro della narrazione è costituito dalle parole del Padre: “Questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo”. L’ascolto è ciò che definisce il discepolo, tutto il resto serve da cornice. La parola di Dio si è fatta chiara nella persona, nelle parole e nell’esistenza di questo Gesù incamminato verso la croce. Non è una parola che trasmette nozioni qualsiasi, ma che rivela chi è Dio, chi siamo noi e qual è il senso della storia nella quale viviamo. Una parola, dunque, che indica ciò che dobbiamo fare e la regola da seguire. Non resta che ascoltarla con cuore attento e obbediente. Un’ultima annotazione: i discepoli, avendo visto Elia e Mosè accanto a Gesù, si chiedono che cosa possa significare questo in rapporto alla concezione popolare del ritorno di Elia (17, 9-13). I rabbini, infatti, parlavano – probabilmente sulla base di alcuni testi dell’AT (Ml 3, 23-24; Sir 48, 10-11) – del ritorno di Elia.


La risposta di Gesù è molto chiara: il ritorno di Elia si è realizzato in Giovanni Battista, e lo hanno trattato “come hanno voluto”, trattamento che prefigura la sorte che egli stesso sta per incontrare.




I discepoli non riescono a liberare un uomo dal demonio per la loro “poca fede”. Essi, infatti, non hanno poteri personali, possono solamente far loro la potenza del Signore, e per questo occorre la fede. Ma non ne serve molta, ne basta poca purché autentica: è sufficiente averne quanto un granellino di senape per spostare anche le montagne.


Sembra una contraddizione: Gesù rimprovera i discepoli per la loro poca fede e poi dice che ne basta poca. Nel linguaggio evangelico “poca fede” non designa la quantità ma la qualità: la poca fede di chi non si fida dell’amore del Padre e cerca sicurezza nell’accumulo dei beni (6,30). La poca fede dei discepoli che sul mare in tempesta dubitano della potenza di Gesù (8,26), o ancora la poca fede di Pietro che uscito dalla barca, esita e si impaurisce (14,31). In tutti questi casi si tratta di una fede esitante, contraddittoria, dubbiosa.




Il tratto più caratteristico di tutti questi capitoli, fino all’entrata di Gerusalemme, è lo sforzo di Gesù di concentrare l’attenzione dei discepoli sulla croce. Qui ne parla per la seconda volta, ribadendo gli stessi concetti della prima (16,21ss). Ma attorno a questo tema centrale, che fa da filo conduttore, ruotano altri insegnamenti più particolari, quasi tutti rivolti ai discepoli. Qui ne troviamo due: il primo è del brano precedente: la necessità della fede; e l’altro nel brano seguente: un invito a non scandalizzare inutilmente.




Questo racconto (proprio di Mt) ha l’aria di essere una parabola. Ad ogni modo, è certo che il centro della narrazione non è il miracolo in sé, ma il motivo per cui è compiuto: “Perché non si scandalizzino”.


La tassa consisteva in un contributo annuale e personale per i bisogni del tempio (Es 30, 13-15). Consapevole dell’abituale osservanza di Gesù della legge, sia pure associata all’affermazione della sua indipendenza dalla legge, Pietro assicurò i gabellieri che Gesù pagava sempre le tasse. Il brano è l’occasione per la formulazione di un detto. I “figli” dai quali i re non esigono le tasse sono i loro sudditi e Gesù giocando sulla metafora di “figlio” per designare se stesso (3,17: 17,5; 11, 25-27), afferma che, in quanto “figlio”, è esente dalla tassa, come pure i suoi discepoli che sono suoi fratelli e figli del medesimo Padre.


La motivazione del pagamento della tassa è unicamente per non dare scandalo. Il detto e la costruzione del dialogo sembrano riflettere la posizione dei giudeo-cristiani (cioè la comunità di Matteo) per quanto riguardava il tributo per il tempio. Se i giudeo-cristiani pagavano la tassa per il tempio era soltanto per motivo di convenienza e non perché si sentissero obbligati dalla legge. Gesù, infatti, è più grande del tempio.


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DISCORSO: il discorso ecclesiastico (18, 1- 35)


Questo discorso è attinto quasi interamente a Marco, con alcune aggiunte prese dalla fonte “Q”[23], il resto del discorso è proprio di Matteo. Difatti dietro il succedersi dei discorsi e dei temi (trattati non secondo una struttura logica e coerente), si intravede la struttura del vangelo di Marco, che racconta la vicenda di Gesù che iniziando dal battesimo, continua col ministero in Galilea e poi in Giudea, fino alla sua passione e morte. Secondo questa struttura il discorso del capitolo 18 si trova nel contesto degli annunci della passione. La collocazione è significativa: questo discorso ecclesiastico[24], che tratta dei rapporti tra i vari membri della comunità, va letto nella prospettiva della sequela, intesa come un cammino verso la croce. Possiamo dire che questo capitolo 18 intende rispondere a una domanda: come deve costituirsi una comunità che intende porsi alla sequela di Cristo Crocifisso?




La comunità discute intorno al più grande: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?”. L’interrogativo mostra una profonda incomprensione del discorso della croce che Cristo va facendo.


Marco colloca questo interrogativo nel contesto di una disputa tra i discepoli, Matteo invece omette questo dettaglio poco lusinghiero e ci descrive i discepoli che pongono direttamente a Gesù l’interrogativo concernente la preminenza. Luca è ancora più radicale e pone la questione del più grande nel contesto dell’ultima cena (22, 24-27), là dove Gesù svela con più chiarezza la sua via di servizio.


Come risposta a questo interrogativo dei discepoli, Gesù chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo ai discepoli e dice: “Dovete diventare come questo bambino”. In che senso il discepolo deve assomigliare al bambino? Probabilmente il contesto originario dell’invito di Gesù ai discepoli, si trova nella scena dei bambini che gli corrono dietro (Mt 19, 13-15; Mc 10, 13-16; Lc 18, 15-17). Gesù è sorpreso nel vedere l’abbandono e la fiducia dei bambini: lo accettano senza paure e senza calcoli e senza troppi perché. Gli adulti, al contrario, sono perennemente esitanti, complicati, in continua ricerca di alibi e giustificazioni. Per entrare nel regno bisogna essere bambini: disponibili, fiduciosi e semplici, occorre abbandonarsi a Cristo con la semplicità del fanciullo.


La seconda parola di Gesù (“Il più grande che si fa piccolo”), introduce una nuova prospettiva: qui piccolo non è più il simbolo di colui che è privo di grandezza, o di colui che non conta. Ma piccolo è chi è povero, trascurato tenuto in nessun conto. Il primo posto nella comunità è per costoro, perché Gesù si identifica con essi: “Chi accoglie un bambino accoglie me”.


Il discorso prosegue sviluppando ancora il tema del piccolo e introducendo un nuovo motivo: lo scandalo (18, 6-9). Nel linguaggio biblico lo scandalo si colloca sul piano della fede e non tanto sul piano della morale. Scandalo è tutto ciò che disorienta la fede. Gesù condanna coloro che scandalizzano i “piccoli” che credono in lui. Piccoli non sono più i bambini di cui abbiamo parlato prima, ma i fedeli semplici, incapaci di sopportare le novità e le arditezza dei “maturi”: la loro fede è fragile, forse immatura, scandalizzabile: anche costoro rientrano nel numero dei piccoli che hanno diritto al primo posto nella comunità. La comunità deve creare un ambiente che faciliti loro la crescita nella fede: non deve costituire un inciampo, che costringe i più deboli a soccombere. E’ questo il senso dell’altra affermazione di Gesù: “Guardatevi dal disprezzare anche uno solo di questi piccoli”. Forse la traduzione migliore non è “disprezzare”, ma trascurare. La comunità non può agire come se questi piccoli non esistessero, non può fare riforme senza tener conto delle ripercussioni sulla fede dei piccoli. Purtroppo invece la comunità (già quella di Matteo) è spesso tentata di fare il contrario: tanto, essi non contano, non hanno peso, l’avvenire è in altre mani. Ma non è così nella valutazione di Dio: “I loro angeli vedono sempre la faccia del Padre”. Possiamo concludere questo brano con una prima indicazione di vita comportamentale all’interno della comunità: la comunità cristiana è fondata sul servizio, sull’accoglienza e sul rispetto della fede degli altri.




La parabola ci è stata trasmessa sia da Luca che da Matteo. Gli evangelisti non furono semplici collezionisti del materiale che avevano trovato nella tradizione: furono veri autori. Lavorarono personalmente il materiale ricevuto, lo strutturarono e lo applicarono alle circostanze concrete dei destinatari per i quali scrivevano.


Vediamo in concreto le differenze tra Luca e Matteo.


L’intenzione della parabola, nel pensiero di Luca (15), è di giustificare la condotta di Gesù, che era accusato da scribi e farisei di frequentare “cattive compagnie”. Le tre parabole della misericordia: pecorella smarrita, dramma perduta e figlio prodigo, costituiscono la risposta del Maestro. In tutte il denominatore comune è la gioia del Padre nell’incontro. La conversione di un peccatore provoca molta gioia nel cielo. L’accento principale della parabola, quindi, secondo la redazione di Luca, cade sulla gioia che la conversione del peccatore procura al cuore di Dio.


In Matteo, invece, l’accento dell’insegnamento si è spostato e il centro si scopre facilmente perché lo stesso evangelista ce lo suggerisce: “Il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (v. 14). I “piccoli” non sono i peccatori in generale (come in Luca), ma i credenti, i discepoli. Di questi si interessa la parabola. Essi pure possono andare fuori strada (per tre volte, nei vv. 12 e 13, compare la parola “smarrite” che si può tradurre “andare fuori strada”). Matteo applica la parabola ai discepoli sedotti, ingannati, che si sono allontanati da Cristo.


Riferendosi ai dirigenti della Chiesa, l’evangelista intende insegnar loro come comportarsi di fronte a quelli che sono caduti o si trovano in pericolo di cadere. Devono imitare la condotta e l’atteggiamento di Dio che “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva”; non vuole che si perda nulla di quanto gli appartiene.




Questo brano mostra uno dei modi in cui i membri della Chiesa devono andare alla ricerca della pecora smarrita. Il dovere della correzione fraterna non è limitato alle offese di carattere personale: qualsiasi membro della comunità dovrebbe tentare di “guadagnare” il fratello che ha peccato. Ciò va fatto privatamente così che il fratello non sia umiliato. Se questo dialogo personale è infruttuoso, dovrà ripetersi alla presenza di alcuni testimoni, i quali devono dare maggior peso alla correzione per il solo fatto di parteciparvi. Se anche questo avvertimento solenne fallirà, occorrerà demandare il processo alla “chiesa” (nel contesto significa la comunità ecclesiale locale). Se il peccatore non accetta il verdetto della Chiesa, dovrà essere escluso dalla comunità. Le parole di scomunica sono stranamente in dissonanza con il tono generale dei vangeli, nei quali Gesù viene chiamato l’amico dei peccatori e dei pubblicani. Lo scopo della scomunica è sempre quello di aiutare il fratello e prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza ravvedersi. E’ l’unico scopo possibile e come potrebbe essere diversamente per una Chiesa che vuole imitare il pastore che va in cerca della pecora smarrita? Potremmo anche dire che lo scopo è di creare ai peccatori un disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno (cfr. la parabole del prodigo in Lc 15).


La prima parte del discorso (18, 1-14) ci ha mostrato con chiarezza che nella comunità cristiana sono spesso presenti le rivalità, gli scandali e i peccati. Come comportarsi di fronte a tutto questo? L’atteggiamento fondamentale da assumere è il perdono (18, 21-22), un perdono senza limiti (settanta volte sette) che assomiglia al perdono di Dio.




Questa parabola, propria di Matteo, è uno dei brani più severi dei vangeli. Sottolinea il dovere del perdona adducendo un altro motivo: il perdono concesso dall’uomo all’altro uomo è una condizione del perdono concesso da Dio all’uomo (v. 6,15: “Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Il perdono di Dio, quindi, è il motivo e la misura del perdono fraterno. Dobbiamo perdonare agli altri perché sarebbe inconcepibile tenere per sé un dono immenso gratuitamente ricevuto. Dobbiamo perdonare senza misura, perché Dio ci ha già fatti oggetto di un perdono senza misura: è dal senso della gratuità del dono di Dio che nasce il perdono. Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far risaltare la diversità di comportamento nelle due diverse situazioni, intende piuttosto far rilevare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo oggetto del perdono divino. Il servo è condannato perché tiene il dono per sé e non permette che il suo perdono diventi gioia e perdono anche per i fratelli. Bisogna invece imitare il comportamento di Dio (Mt 5, 43-48).


Possiamo concludere il discorso ecclesiastico con una seconda indicazione di vita comportamentale della comunità cristiana: all’esterno essa deve continuamente andare alla ricerca degli smarriti e all’interno deve alimentarsi continuamente col perdono reciproco.








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Dopo il discorso ecclesiastico si apre una nuova sezione narrativa, il cui tema principale è ancora la via della croce, difatti vi si trovano diversi richiami alla sequela e c’è una terza predizione della passione. Ma la sezione intende dare anche una risposta a un interrogativo: come si vive la croce nelle particolari situazioni della vita?




I farisei non chiedono se sia lecito o no sciogliere un matrimonio, per loro, infatti, la possibilità del divorzio è scontata. La loro domanda insidiosa (“per metterlo alla prova”) verte sulla possibilità di sciogliere il matrimonio “per qualsiasi motivo”. Per capire la domanda bisogna rifarsi alle discussioni teologiche e giuridiche dell’epoca: secondo l’opinione dottrinale che faceva capo a rabbi Hillel, era lecito il divorzio per qualsiasi motivo. Invece l’opinione più rigorosa che faceva capo a rabbi Shammai, esigeva per il divorzio determinate mancanze morali, quali per esempio l’adulterio. Ma, come si è detto, ai farisei non interessa tanto l’opinione di Gesù, quanto il costringerlo (“tentarlo”) a pronunziarsi per l’una o per l’altra opinione, in modo poi da poterlo accusare – in base alla risposta – di rigorismo o lassismo.


Gesù – come sempre nelle dispute in cui viene coinvolto – alla sterile e complicata casistica teologica oppone la riscoperta della genuina volontà di Dio, che orienta chiaramente in direzione dell’indissolubilità. La legge del divorzio è una concessione alla “la durezza del cuore”, una deviazione dall’istituzione originaria. Gesù, quindi, formula la legge dopo averle ridato il suo valore originale.


L’inciso del v. 9 (“eccetto in caso di concubinato”) ha sempre suscitato delle perplessità, ma quello che è certo è che l’eccezione che permette il divorzio in caso di concubinato, non è contemplata nella risposta di Gesù che conferma l’indissolubilità del matrimonio: “Quello che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi”. (v. 6). Se Gesù ammettesse l’eccezione del concubinato sceglierebbe la corrente della scuola di Smammai, ma questo contrasta con tutto il contesto delle argomentazioni che porta Gesù sull’indissolubilità del matrimonio: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina…”.


Neanche i discepoli comprendono perché il divorzio debba essere permesso solo in casi eccezionali. La loro semplicistica conclusione fu che il celibato è preferibile a un matrimonio indissolubile.


Gesù conclude questa questione con un detto finale: “Chi vuol capire capisca”. Il matrimonio (e non solo il celibato) è qualcosa da “capire”, è risposta a una vocazione, ha il suo rischio (la sua indissolubilità) ed esige la capacità di penetrare nella logica della fede. Il matrimonio come ogni realtà è al servizio del Regno (unica preoccupazione dell’uomo), per cui uno può anche rinunciare al matrimonio. Il matrimonio, non è l’unica strada possibile dell’amore (c’è anche il celibato) e non è neanche la configurazione definitiva dell’amore (ma solo una sua espressione: il definitivo è il Regno). Relativizzando il matrimonio (il valore assoluto è solo Dio), Gesù non lo svuota e neppure lo diminuisce, ma lo colloca semplicemente al giusto posto.




Questo brano contiene numerosi detti di Gesù sulla ricchezza. Matteo ritocca la formulazione di Marco (“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”, Mc 10, 17-31), trasformandola leggermente: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Così l’aggettivo “buono” non è più rivolto a Gesù, ma alle cose da fare, e il giovane formula la domanda in termini di “opere buone” da fare. Gesù sembra invece voler attirare l’attenzione sul rapporto globale con Dio e con il prossimo, ma la sua insistenza è sul prossimo e lo si deduce da due osservazioni: la prima è che Gesù non elenca tutti i comandamenti, ma solo alcuni e questi si riferiscono al prossimo. La seconda è che Gesù aggiunge un comandamento che non c’è nel decalogo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.


Il giovane (l’espressione di Mc, invece, “un tale” lasciano pensare a un uomo maturo più che a un giovane) sembra che vada alla ricerca di qualcosa di speciale, di una indicazione nuova e Gesù richiamandosi sia al suo insegnamento (6,19-21.24-34) sia alla pratica della Chiesa primitiva (At 2,44) invita il giovane a rinunciare alle ricchezze.


Matteo omette il particolare che di Mc (“Gesù lo fissò e lo amò”), ma aggiunge l’espressione: “Se vuoi essere perfetto”. Riferendo il termine “perfetto”, Matteo non vuole indicare una via speciale riservata a vocazioni particolari, ma parla semplicemente dell’ideale cristiano, della giustizia del discepolo che deve essere superiore a quella del fariseo e dello scriba. L’uomo non è invitato a seguire i “consigli evangelici”, ma a diventare un discepolo di Gesù, e l’invito, in questa occasione, è rifiutato.




Questa parabola appare solo in Matteo che interrompendo improvvisamente il filo di Mc 10, aggiunge questa parabola degli operai chiamati a lavorare a tutte le ore. Non è un’interruzione fatta a caso: la parabola, infatti, suggerisce al discepolo preoccupato della sua ricompensa (“Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne otterremo?”: 19,27) di non porre la questione in termini fiscali: dare e ricevere. Il regno di Dio ha altre leggi, che adesso vedremo.


Matteo dà alla parabola una sua interpretazione come appare dall’affermazione che apre e chiude la parabola stessa: “I primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi”. Il Regno rovescia le posizioni capovolgendo tutte le gerarchie di valori che l’uomo si è costruito. Dio ha un modo diverso, ha una giustizia diversa: per esempio preferisce i poveri ai ricchi, i peccatori ai farisei. Esattamente come Gesù che predica il regno alle folle senza nome, agli ammalati, ai poveri, ai pubblici peccatori. Ma questa lettura di Matteo (nata alla luce del solito problema: perché Dio ha trasferito il Regno ai pagani?) pur non essendo estranea interamente alla parabola, non raggiunge però il suo punto centrale. L’evangelista, infatti, fa leva su un particolare secondario: il padrone incominciò dagli ultimi anziché dai primi.


Il centro della parabola, invece, sta nella lamentela dei primi operai e la vera ragione della loro protesta non è perché sono stati pagati per ultimi, ma perché sono stati pagati con lo stesso salario degli ultimi. E’ questa la novità sconvolgente del vangelo: la proclamazione della misericordia e della grazia di Dio, che dona il suo regno ai pagani, ai peccatori, lo dona anche a chi, secondo noi, non lo meriterebbe.


Gli operai della prima ora non si lamentano per un danno subìto (hanno infatti pattuito un denaro e lo hanno ricevuto), ma piuttosto per un vantaggio accordato agli altri. Non pretendono ricevere di più, ma sono invidiosi che gli altri siano stati trattati come loro. Vogliono difendere una differenza, è questo che li irrita: la mancanza di distinzione. Il torto che credono di subire non consiste nel ricevere una paga insufficiente, ma nel vedere che il padrone è buono con gli altri: è l’invidia del giusto di fronte a un Dio che perdona i peccatori.


Letta così, la parabola non vuole anzitutto insegnarci come Dio si comporta, ma piuttosto come i giusti devono comportarsi di fronte alla misericordia di Dio e concretamente di fronte all’agire di Gesù, che va con i pubblicani e peccatori, e di fronte a un Regno che si apre ai pagani. “Il problema non è quello dei diritti e dei doveri di un padrone, ma quello della solidarietà che dovrebbe unire gli operai fra di loro” (J. Dupont), i fortunati con gli sfortunati, i giusti con i peccatori. I giusti non devono provare invidia, ma godere di fronte a un Padrone che perdona i fratelli peccatori.


Abbiamo in tal modo raggiunto il cuore della parabola, cioè la situazione storica, concreta della predicazione di Gesù, in altre parole, l’ambiente in cui è nata la parabola. Gesù, infatti, con questa parabola intende giustificare, di fronte ai farisei zelanti, il suo comportamento, la sua familiarità e la sua preferenza nei confronti dei peccatori. Egli non fa differenze fra giusti e peccatori, e di questo i giusti si sentono offesi: Gesù non sembra riconoscere la loro situazione privilegiata di fronte a Dio.


Oltre la situazione storica, abbiamo raggiunto la pretesa più profonda di Gesù, quella di essere il rivelatore della misericordia del Padre, quella di segnare con la propria venuta l’arrivo di un’ora eccezionale di grazia.




Il terzo annuncio della passione è molto più particolareggiato dei primi due: è un vero e proprio riassunto del racconto della passione, di cui elenca tutte le sequenze e i personaggi. Subito dopo (ed è certamente un contrasto voluto) viene riportata la domanda dei figli di Zebedeo, una domanda che mostra con chiarezza come il discorso sulla croce non sia stato recepito. La replica di Gesù è chiara: i discepoli non devono preoccuparsi “di sedere alla sua destra o alla sua sinistra”, ma di bere il suo “calice”, di condividere il suo “battesimo”. La vera preoccupazione del discepolo deve essere quella di seguirlo, non altro. Ma lo sguardo di Gesù abbraccia tutto il gruppo dei discepoli, ai quali indica come comportarsi se vogliono veramente seguirlo. E’ probabile che l’evangelista intenda qui rivolgersi soprattutto a coloro che occupano nella comunità posti di autorità. La posizione del gruppo dirigente della Chiesa è opposta (“fra voi però non è così”) alla posizione dei governanti delle nazioni[25]. Il potere assoluto non deve essere esercitato dai capi della sua Chiesa. Se i capi vogliono sapere in che modo debbono usare la loro autorità devono tener presente che nella Chiesa le posizioni sociali sono capovolte: i capi della Chiesa devono essere schiavi[26]: questa è nella Chiesa la posizione appropriata per chi vuol essere il primo tra i discepoli. Gesù aggiunge che questa è la sua stessa posizione egli è diventato lo schiavo di tutti, e il servizio che gli fu imposto è il supremo sacrificio della vita. Il riscatto[27], il prezzo pagato, significa che Gesù descrive se stesso ridotto al livello di uno strumento con il quale gli altri raggiungono un loro scopo. Il valore della sua vita non è determinato dall’affermazione di sé, né dall’auto-esaltazione sia pure in senso legittimo, ma semplicemente in termini del suo valore per gli altri. Ciò delinea la figura dello schiavo che non poteva avere fini suoi personali da realizzare.




Questa guarigione, che avviene poco prima dell’ingresso in Gerusalemme, è l’ultimo miracolo di Gesù. Matteo ha abbreviato Mc (10, 46-52), con l’omissione del nome del cieco e dei dettagli pittoreschi, ma ha alcune varianti interessanti: parla per esempio di due uomini invece che di uno solo, aggiunge la menzione della compassione di Gesù e del suo toccare gli occhi.


Il racconto illustra il crescendo del riconoscimento messianico man mano che Gesù si avvicina a Gerusalemme. Persino i ciechi sanno chi sia Gesù e gli rivolgono il titolo messianico di “Figlio di David”.[28] Una volta guariti, i ciechi seguono Gesù: si uniscono cioè alla folla che si era radunata per accompagnare Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme. Gesù è pronto per entrare in Gerusalemme acclamato come il Messia perché egli dimostrerà fra poco in quale modo il Messia compirà il suo atto salvifico.




L’entrata di Gesù in Gerusalemme è presentata da Matteo con una grande precisione geografica. Egli viene dalla Galilea attraverso la Perea ed entra dalla porta orientale. Così evita di passare attraverso la Samaria. La strada che sale da Gerico a Gerusalemme, prima di giungere al monte degli Ulivi, devia a sinistra e passa per Betfage e poi per Betania.


Questo episodio è la continuazione di quello precedente, Mt colloca questi due episodi (i due ciechi e l’ingresso a Gerusalemme) in una sola giornata, la descrizione della quale termina in 21,17: “E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betania, e là trascorse la notte”. L’ingresso di Gesù assomiglia a una scena regale, e i molteplici riferimenti veterotestamentari (2 Re 9,13; Zac 9,9) ne mostrano il senso profondo: è il Messia che entra nella sua città, cosa che la folla sembra aver capito: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea” (21,11). I mantelli distesi sulle strade erano un’imitazione dei tappeti rossi coi quali si usavano onorare i re dell’antichità. Anche i rami avevano lo scopo di rendere più soffice la strada. E’ un fatto curioso che nessuno dei tre sinottici menzioni le palme (si parla di rami di alberi) che sono poi diventate tradizionali nella commemorazione liturgica della processione; esse sono menzionate in Gv 12,13. Questo Messia, però, è diverso, per molti aspetti inatteso, e dimostrerà la sua messianicità in modo del tutto nuovo e sconvolgente, il suo regno, il suo dominio, la sua regalità saranno completamente diverse da quelle che il popolo si aspettava.




Una delle cose che maggiormente impressionarono i contemporanei di Gesù fu la sua autorità con cui parlava e insegnava. I dottori della legge, quando insegnavano, cercavano il fondamento al loro insegnamento nella legge o nella tradizione. Gesù parlava e insegnava senza bisogno di tutto ciò. La sua parola aveva l’autorità in se stessa: “Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (c. 5).


La stessa autorità espressa nelle sue parole si manifesta nella sua condotta.


Il gesto di Gesù, più che un segno di purificazione, vuole essere un vero e proprio superamento del tempio[29] (cuore del giudaismo) e del suo culto. Gesù giustifica il suo gesto con una citazione dell’AT risultante dalla fusione di Is 56,7 e Ger 7,11. Mt omette deliberatamente la frase di Mc 11,17 “per tutte le genti”. Il culto del vero Dio deve essere proclamato attraverso Gesù il Messia e non attraverso il tempio di Gerusalemme.


Il gesto di Gesù è un gesto messianico ed equivale alla sua dichiarazione di supremazia nei confronti della legge (v. 5, 17-42; 12, 1-14; 12, 22-37). Egli manifesta anche la sua autorità non solo sulla legge, ma anche sul tempio, la seconda grande istituzione del giudaismo di quel tempo. Ciò porta a un interrogativo sulla sua autorità (21, 23-27). Mediante gesti di questo tipo Gesù mostra che egli non riconosce nessuna delle autorità esistenti nel giudaismo, perché egli possiede un’autorità superiore e chiara.




Questo episodio è così difficile da capire che in Lc viene omesso, in Mc la pianta è trovata seccata quando il gruppo le passa accanto il giorno dopo e in Mt il fico secca all’istante alle parole di Gesù. A quanto pare Mc ha trasformato un detto profetico[30]in un miracolo al rallentatore mentre Mt in un miracolo istantaneo. La lezione tratta dall’episodio, però, è identica in Mt e in Mc, malgrado le variazioni matteane. Il detto è simbolico, non è la sterilità del fico che Gesù condanna ma la religiosità (tutta foglie) del giudaismo che è arrivato alla sua crisi finale, e si è reso sterile.




La domanda dei gran sacerdoti e degli anziani (Mc aggiunge “scribi”) sull’autorità di Gesù dovrebbe essere più propriamente collocata subito dopo la purificazione del tempio, inserita invece qui, essa si riferisce a tutte le parole e le azioni di Gesù. La risposta di Gesù è un contro-interrogativo sul mandato di Giovanni Battista: se essi accettano il mandato divino del Battista, si auto-condannano, perché non lo hanno creduto, se invece lo negano rischiano di scatenare lo sdegno della gente. Ecco allora la loro risposta: “Non lo sappiamo”: si sono dichiarati incapaci di raggiungere una decisione riguardante la figura più in vista del loro tempo davanti a Gesù stesso. Questa dichiarazione di incompetenza, dispensa Gesù da qualsiasi obbligo di sottomettersi al loro giudizio. Così il rifiuto di Gesù di rispondere all’interrogativo sul suo mandato è una tacita negazione dell’autorità dei suoi interroganti. Se sono dei capi religiosi, maestri della legge e rappresentanti del culto, dovrebbero essere in grado di discernere i veri, dai falsi profeti.


Questa è la prima delle cinque controversie che ebbero luogo nei giorni che precedettero la passione.




Questa parabola che si trova soltanto in Mt, è la prima delle tre parabole che hanno lo stesso tema di base: l’accoglienza e il rifiuto del Regno. Il primo fratello incarna gli osservanti farisei, che sono ubbidienti a parole ma non nei fatti, il secondo, invece, incarna i peccatori che si convertono ascoltando il monito della parola di Dio. Da una parte, quindi, i capi giudaici, dall’altra le classi disprezzate dei pubblicani e delle prostitute. Questi ultimi seguono la via che Giovanni[31] indica per essere giusti: il pentimento; i giudei, invece, professano ma non compiono, osservano la legge non le opere della fede. La vita secondo la legge va completata con il pentimento proclamato da Giovanni e da Gesù, come condizione necessaria per entrare nel Regno.


Nella sua forma attuale la parabola riflette indubbiamente la fede dei pagani contrapposta alla miscredenza dei giudei. Anche oggi, a volte, i peccatori si mostrano più disponibili dei praticanti.




Diversi tratti di questa seconda parabola rispecchiano la situazione palestinese. Quando si pianta una vigna, viene eretto un muricciolo a sua protezione, vi si scava una buca per la pigiatura, e se la vigna è vasta, vi si erige una torre di guardia per tenere lontani i ladri. Ma più importanti di questi tratti sono i riferimenti veterotestamentari della parabola. L’immagine della vigna era già stata utilizzata da Osea (10,10) e poi ampiamente ripresa da Isaia, Geremia, Ezechiele e dal Salmo 80.


La parabola, però, sembra soprattutto riferirsi al famoso canto della vigna di Isaia (5, 1-7). Il profeta descrive la monotona storia del suo popolo: da una parte l’amore di Dio e dall’altra il continuo tradimento del popolo. E’ una storia – conclude il profeta – che non può continuare all’infinito: la pazienza di Dio ha un limite e ci sarà un giudizio. Dio si aspettava uva pregiata ed invece ebbe uva scadente. A questo punto non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno pruni e rovi.


Fin qui il canto di Isaia. Nella parabola evangelica vengono precisati due punti:


- il castigo non consiste semplicemente in una generica disobbedienza del popolo di Dio, ma nel fatto che questo popolo ha tolto di mezzo i suoi profeti e – alla fine – addirittura uccide il Messia. E’ un duro giudizio su Israele ed è un perenne avvertimento per gli stessi cristiani.


- Il secondo punto consiste nel fatto che il Regno sarà tolto ai capi d’Israele e sarà dato ai pagani, sarà tolto ai vicini e passerà ai lontani. Anche questo è un duro giudizio su Israele e un perenne monito ai cristiani. Dio è fedele al suo popolo, ma non al punto che il suo disegno di salvezza venga interrotto. Se i cristiani rifiutano, le sue esigenze di verità e giustizia troveranno altrove il modo di esprimersi.




La discordanza tra Mt e Lc in questa parabola è talmente grande, che siamo portati a concludere che Mt ha ampiamente rielaborato il racconto. Invece di una cena Mt ha una festa di nozze reali; in aggiunta alle scuse addotte dagli invitati in Lc, Matteo inserisce la variante dell’uccisione dei messaggeri e nella guerra che ne segue (“Il re mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”). Questo particolare rappresenta con tutta probabilità la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C.


Anche questa terza parabola si muove nella stessa direzione della precedente. Due sono le scene che la compongono:


- la prima rappresenta un banchetto nuziale per il figlio del re (richiamo trasparente alla venuta di Cristo). Ricordiamo che già nell’AT l’alleanza con Dio era raffigurata da immagini nuziali, e Isaia (25,6) presentava sotto il simbolo di un banchetto l’ éra messianica perfetta. La risposta all’invito divino a partecipare al banchetto è dura e negativa, al punto che ci si accanisce perfino sui servi che comunicano l’invito, cioè i profeti (come già era accaduto nella parabola precedente dei vignaioli). Il re, in risposta, dà alle fiamme la loro città.


- nella seconda scena il re procede a nuovi inviti: tutti, buoni e cattivi, sono convocati alle nozze, è ormai l’apertura a tutti i popoli. Tuttavia, anche per costoro vale la necessità di un’adesione autentica e totale (rappresentata dal simbolo del mutamento di veste), cioè della propria realtà interiore, secondo il valore biblico di questa immagine: le opere della giustizia devono accompagnare la fede (cfr 3,8; 5,20; 7,21ss; 13,47ss; 21,28ss). L’essere entrati nella sala non è ancora una garanzia: occorre essere in ordine, convertiti, vigilanti. La veste nuziale significa tutto questo.




Questa è la seconda (la prima riguardava l’autorità di Gesù, v. 21 23-27) delle cinque narrazioni di controversie presenti in questa sezione. Il racconto è preso da Mc (12, 13-17) con leggere modifiche; Lc (20, 20-26) lo ha maggiormente alterato.


Farisei ed erodiani[32] sottopongono a Gesù una questione scottante, ma la loro intenzione è ipocrita, essi, infatti, non cercano una risposta, ma vogliono semplicemente mettere in imbarazzo Gesù. Il tranello è chiaro: rispondendo negativamente, Gesù avrebbe suscitato la reazione delle autorità romane; rispondendo positivamente, avrebbe perso la simpatia della folla. La risposta di Gesù è completamente inattesa, e coglie di sorpresa i suoi interlocutori. Egli rigetta sia la posizione degli erodiani che quella dei zeloti. La moneta che reca l’immagine di Cesare indica l’orizzonte economico-politico che ha una sua autonomia. Tuttavia questa autonomia deve sempre confrontarsi con l’orizzonte dell’uomo che dipende direttamente da Dio come sua immagine e che, quindi, è tutelato dal Signore stesso nella sua dignità superiore alle leggi economiche. Lo Stato non può erigersi a valore assoluto: ogni potere politico – romano o no – non può arrogarsi diritti che competono soltanto a Dio. Lo Stato non può assorbire tutto il cuore dell’uomo, né sostituirsi alla sua coscienza.


Questa posizione di Gesù contribuì ad orientare le prime comunità cristiane al rifiuto di posizioni anarchiche (Rm 13,7; 1 Pt 2, 13-14) e alla denuncia del potere divinizzato (Ap 18, 1-3).




I sadducei[33]negavano la risurrezione dei morti perché la legge scritta non ne parlava, anzi citando Gen 3,19: “Sei polvere e in polvere ritornerai” facevano anche dell’ironia[34] (Mt 22,28). I farisei al contrario concepivano la risurrezione in termini materiali, citando testi biblici molto famosi, come ad esempio Ez 37,8: “Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva…) e Gb 10,11.


Gesù risolve il caso affermando che il matrimonio non perdura anche dopo la morte. Il concetto qui è in relazione con quello espresso da Paolo in 1 Cor 15, 35-50 dove viene affermata la risurrezione, ma viene pure asserita una trasformazione del corpo: “Né la carne né il sangue possono ereditare il regno”. L’esempio degli angeli si riferisce a una vita in cui il sesso non ha alcuna parte. L’espressione “essere come angeli del cielo” non vuole indicare, però, l’assenza dell’elemento corporeo, altrimenti si negherebbe la risurrezione e si affermerebbe la sola immortalità dell’anima di tipo platonico.


Oltre a questa spiegazione, che possiamo definire “teologica”, Gesù ne dà un’altra di tipo “esegetica”. I sadducei negavano la risurrezione perché la legge non ne parlava. La replica di Gesù, invece, che cita Es 3,6 è basata proprio sulla legge scritta. I patriarchi erano già morti da molto tempo quando Dio parlò a Mosè, e tuttavia, Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ciò non sarebbe possibile se essi avessero cessato di esistere, devono pertanto vivere in qualche modo diverso dalla vita del corpo terrestre. I sadducei non furono in grado di replicare a Gesù, né potevano spiegare questo testo, perché secondo la loro dottrina non esisteva alcuna relazione tra Dio e i morti.




E’ la quarta narrazione di una controversia. Nelle scuole teologiche del tempo si poneva la questione del primato dei vari precetti religiosi, i rabbini, infatti, contavano nella legge 613 comandamenti, dei quali 248 erano precetti positivi e 365 erano proibizioni. Questi comandamenti erano suddivisi in “lievi” e “gravi” secondo l’importanza della materia. Questo tipo di domanda era normale nelle discussioni rabbiniche.


La risposta di Gesù è racchiusa in due citazioni della legge (Dt 6,5 e Lv 19,18) che formano il fondamento della nuova morale del vangelo.


Il testo di Dt 6,5 forma una parte dello Shema, cioè la professione di fede del popolo ebraico: “Ascolta Israele… amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore…”.


La novità dell’affermazione di Gesù non consiste nell’aver citato questo comandamento, qualsiasi rabbino avrebbe giudicato ciò una risposta eccellente. La novità consiste, invece, nell’aver collocato Lv 19,18: “…Amerai il prossimo tuo come te stesso” sullo stesso livello di Dt 6,5: “Amerai Dio con tutto il tuo cuore”.


Nella letteratura giudaica non esiste alcun parallelo a questa formulazione di Gesù, che presenta, cioè, i due comandamenti come se fossero in realtà uno solo. E solo Matteo aggiunge che da questi due comandamenti “dipende” tutta la legge e i profeti: vale a dire l’intera rivelazione dell’AT. Le opere buone hanno valore in quanto opere di amore di Dio e del prossimo.




Questa è la quinta e ultima narrazione di una controversia. Fino a questo punto Gesù ha risposto a delle domande, ora è egli stesso che propone ai farisei una questione di esegesi (“Di chi è figlio il Messia?”) alla quale non sanno rispondere. Secondo l’interpretazione comune (Il Salmo messianico 110), il Messia è figlio di Davide, ma Gesù osserva, come mai in quel Salmo Davide lo chiama “Signore”? Alcuni commentatori propendono per l’origine trascendente di Cristo, che attua in pienezza il detto di quel Salmo perché, pur essendo discendente di Davide secondo la carne, lo supera nella sua dignità di Figlio di Dio, divenendo così suo Signore. Ma, il punto centrale della narrazione sta nel fatto che i farisei non furono in grado di risolvere un elementare problema esegetico. Gesù dimostra in tal modo che essi non sono maestri competenti di religione, persino la loro decantata abilità di interpreti va in frantumi. Non possono, pertanto, erigersi a giudici dell’identità del Messia se non sono neppure in grado di interpretare un testo messianico. Non ha senso qualsiasi loro presa di posizione nei confronti di Gesù, accettato o meno come Messia, perché essi non sanno comprendere le Scritture nelle quali il Messia è rivelato.




Questo capitolo 23 è un vero e proprio discorso che ha costruito Mt con la tecnica che più gli è abituale e cioè, utilizza parole del Signore pronunciate in contesti diversi e li mette insieme perché hanno affinità tematiche. Nel nostro capitolo l’evangelista ha raccolto molte parole polemiche del Signore, per mettere in evidenza il vertice della rottura fra Gesù e i farisei. Un’opposizione delineata fin dall’inizio del ministero in Galilea e che raggiunge il suo culmine nelle controversie a Gerusalemme, dopo l’entrata messianica (21, 1-11) e la purificazione del tempio (21, 12-17).


Tutti i gruppi giudaici (farisei e scribi, sadducei e zeloti) hanno preso posizione contro di lui, ma egli li ha costretti al silenzio: “Nessuno poteva rispondergli neppure una parola, e da quel giorno nessuno osò più interrogarlo” (22,46). Ora è Gesù che li attacca, mettendo a nudo le vere e nascoste radici della loro resistenza.


Il discorso è composto da un’introduzione, seguita da sette “guai” contro gli scribi e i farisei, e una conclusione.


Nell’introduzione Gesù condannando le contraddizioni degli scribi e dei farisei, descrive - a modo di contrasto – le caratteristiche del vero discepolo. Scribi e farisei, guide spirituali del giudaismo, si sono seduti sulla cattedra di Mosè, (cioè si sono presentati come continuatori del suo magistero: lo ripetono, lo difendono, lo interpretano autorevolmente, lo attualizzano), ma al loro insegnamento non corrisponde il loro comportamento. Hanno un’autorità che va riconosciuta (“Osservate tutto ciò che vi dicono”), ma hanno un comportamento che non va imitato (“Dicono e non fanno”).


Due sono i rimproveri che muove loro Gesù: l’incoerenza (“legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente[35], ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”) e la ricerca di sé (“allargano i loro fillattèri[36] e allungano le frange[37], amano i posti d’onore nei conviti”).


Filatterie e frange avevano un significato simbolico: conservare sempre il ricordo della legge del Signore e l’impegno di osservarla. Ma era proprio questo che scribi e farisei non facevano.


L’introduzione si conclude con il rigetto da parte di Gesù di tre titoli onorifici (maestro, padre e dottore) perché c’è un solo Padre: Dio, un solo maestro e dottore: il Messia, e i discepoli sono tutti fratelli.


Nel primo “guai” (23,13) emerge la metafora delle chiavi del Regno, metafora usata per Pietro in 16,19 e applicata qui a scribi e farisei. Per Regno si intende qui il Regno inaugurato dalla proclamazione di Gesù. I farisei rifiutano di credere in Gesù ed escludono dalla comunità giudaica coloro che credono.


Nel secondo “guai” (23,15), Gesù mette l’accento sul proselitismo (la conversione di un pagano alla religione ebraica). La propaganda religiosa giudaica era molto attiva al tempo di Gesù. Mt inserisce qui un versetto molto duro (“un figlio della Geenna il doppio di voi”), ed è difficile capire cosa ci sia alla base di questa condanna così severa dei proseliti. Questo versetto, a quanto pare, riflette l’esperienza della chiesa apostolica ( e con ogni probabilità, quella giudeo-cristiana di Mt). E’ possibile, infatti, che i proseliti (i pagani convertiti alla religione ebraica) mostrassero maggiore ostilità nei confronti dei giudeo-cristiani (giudei convertiti al cristianesimo), considerati da loro come rinnegati, di quanta ne mostrassero i giudei nativi.


Nel terzo “guai” (23,16-22) viene criticato l’insegnamento farisaico. Il punto in questione è l’insegnamento rabbinico sull’obbligo dei giuramenti. La questione è se la formula del giuramento sia o meno obbligatoria. Chi desiderava sottrarsi all’obbligo del giuramento poteva andare in cerca di una interpretazione che negasse la validità della formula usata. Per sciogliere coloro che li avevano imprudentemente emessi, i rabbini ricorrevano a sottili argomenti. E’ la casistica di tali evasioni ciò che Gesù attacca. Scribi e farisei sono guide cieche perché, pur studiando con cura meticolosa la legge e pur sforzandosi di praticarla, non colgono l’anima profonda della legge stessa, complicano senza motivo per la gente semplice il comandamento originario di Dio, e nello stesso tempo lo esteriorizzano e lo circondano di scappatoie che permettono agli esperti (cioè a loro stessi) di evadere con coscienza tranquilla. Sono molti i segni della loro cecità: la confusione tra il rigorismo minuzioso dell’osservanza della legge (distraggono l’attenzione da ciò che è essenziale e la concentrano su ciò che è secondario) e l’autentica obbedienza al Signore (che è gioiosa libertà).


Anche il quarto “guai” (23,23-24) è un’invettiva contro l’insegnamento di scribi e farisei. Il punto in questione era quali tipi di prodotti del campo erano soggetti alla legge della decima. Nell’interpretazione rigorista qualsiasi prodotto naturale era soggetto alla legge, un’interpretazione più umana limitava l’obbligo al tradizionale “grano, vino e olio”. I rabbini applicavano il precetto mosaico della decima da prelevare sui prodotti della terra anche alle piante più insignificanti e rare, quali: menta, aneto e cumìno, (minuscoli semi). Gesù non obietta contro questo rigorismo in se stesso, queste norme però, pur legittime, sono prive di valore quando sono disgiunte dalla giustizia, dalla misericordia e dalla fedeltà, veri e fondamentali precetti.


Il tocco finale del ridicolo è l’esempio dello scolare il moscerino e dell’inghiottire il cammello. Nell’antichità si usava fissare dei colini alla bocca delle caraffe per raccogliere qualsiasi tipo di insetto si infiltrasse nel vino. L’osservanza farisaica adoperava i colini non soltanto per questo scopo ma anche per colare qualsiasi sostanza impura che uno inavvertitamente potesse consumare. La casistica può perdersi talmente nei dettagli da dimenticare le cose veramente importanti e giuste da fare. Il cammello era l’animale più grosso conosciuto in Palestina, simili iperbole (esagerazioni, eccessi) dovevano essere comuni nel discorso popolare.


Il quinto “guai” (23,25-26) mette in discussione la devozione legale farisaica, ai limiti del fanatismo. Comunque, il piatto e il bicchiere non sono qui intesi in senso letterale: è dubbio che la prassi ebraica si accontentasse di lavare l’esterno dei recipienti. I recipienti sono metafore e simboleggiano le persone, e il “guai” è diretto alla preoccupazione di una corretta osservanza esteriore a scapito di una disposizione interiore.


Il sesto “guai” (23,27-28) è simile nella struttura al precedente. L’imbiancatura delle tombe nell’odierna Palestina risale al periodo neotestamentario, quando era una prassi comune. Siccome il contatto con i morti e le tombe causavano impurità, l’imbiancatura aveva lo scopo di identificare le tombe e mettere in guardia coloro che inavvertitamente avrebbero potute toccarle. L’interno delle tombe poi costituiva il grado supremo di impurità. Il punto in questione è anche qui la prassi farisaica: l’osservanza della legge, della quale i farisei si vantavano, era solo un mantello per nascondere una vita vissuta in una totale contraddizione con la legge. I vizi menzionati sono l’ipocrisia (la parola è un ritornello nel discorso) e l’illegalità.


Il settimo “guai” (23,29-36) è più lungo dei precedenti e riflette da una parte l’uccisione di Gesù e il definitivo adempimento delle Scritture, e dall’altra gli attacchi delle autorità giudaiche contro gli apostoli e i missionari della primitiva comunità cristiana. Prendendo spunto dalle tombe, Gesù denuncia la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi dagli stessi Ebrei, come attesta la storia di Israele e di tutta l’umanità, a partire da Abele per giungere fino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal re Ioas di Giuda. Ma ancora oggi, scribi e farisei, continuano ad uccidere i profeti (“voi colmate la misura dei vostri padri”), ma Gesù continuerà a mandare “profeti, sapienti e scribi” (un’allusione ai missionari cristiani) che subiranno la stessa sorte dei profeti. Il destino è inevitabile: “nessuno scamperà dalla Geenna”; l’intero brano va letto alla luce della catastrofe del 70 d.C. Per coloro che erano abituati a pensare biblicamente questo evento fu chiaramente un giudizio di Dio e l’orrore del disastro mostrò che non fu un giudizio per un crimine qualsiasi ma per un immenso bagaglio di colpe. Abele (Gen 4,8) è la prima vittima dell’assassinio nella Bibbia e il profeta Zaccaria (2 Cron 24, 20-22) è l’ultima vittima dell’assassinio nella Bibbia ebraica che termina con i libri delle Cronache. Questa è indubbiamente la ragione per cui vengono menzionati questi due nomi.


Nella conclusione (23, 37-39) del discorso ritorna il tema fondamentale del Vangelo di Matteo: Gesù è il Salvatore promesso dall’AT, ma il popolo eletto lo ha respinto e così Israele si è escluso dalla storia della salvezza. Il lamento finale è pieno di tristezza, si direbbe di impotenza: “La vostra casa sarà deserta” (Ger 22,5). Israele ha rifiutato il suo Dio e Dio abbandona il suo popolo. Ma non è un abbandono definitivo e senza speranza, il piano di Dio non è sconfitto. L’ultima parola è un’allusione alla domenica delle Palme, e quindi alla Croce e al ritorno trionfale di Cristo nella gloria.


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DISCORSO: il discorso escatologico (24, 1-25,46)


Questo è il quinto e ultimo discorso di Gesù nel vangelo di Matteo: nei capitoli 5-7 abbiamo incontrato quello della montagna, nel capitolo 10 il discorso missionario, nel capitolo 13 quello sulle parabole e nel capitolo 18 quello sulla Chiesa. Quest’ultimo viene chiamato “escatologico” (termine greco che significa “riguardante le cose ultime”) perché viene considerato il fine ultimo della storia. Bisogna subito notare però, che nelle parole di Gesù si intrecciano piani diversi: alla fine del tempo si associa l’evento clamoroso della fine di Gerusalemme e del suo tempio - avvenuta nel 70 d.C. ad opera dei romani - e vissuta in modo traumatico dagli stessi evangelisti, che lo hanno fatto emergere nel discorso di Cristo. Inoltre, com’era costume in quel tempo, il linguaggio di Gesù è costellato di immagini e simboli caratteristici della letteratura “apocalittica”, che noi abbiamo già spiegato leggendo il vangelo di Luca.


Il discorso, quindi, si riferisce sia alla caduta di Gerusalemme che alla fine escatologica, ma è impossibile individuare quali versetti si riferiscono all’uno o all’altro evento. Non va mai dimenticato che sia buona parte del pensiero biblico dell’Antico e Nuovo Testamento, come la storia e l’escatologia, sono fuse insieme in un modo che è del tutto estraneo al pensiero moderno.




Nella prima parte dei discorso escatologico (soprattutto nei primi versetti del capitolo 24) si vede bene l’intreccio dei due piani, storico ed escatologico: da un lato, c’è l’accenno al crollo del tempio a cui Gesù fa riferimento, cioè agli eventi del 70 (“… non resterà pietra su pietra che venga distrutta” v.2), dall’altro, si parla della “venuta” piena e definitiva di Cristo alla fine del mondo (“…dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo” v.3). Ciò che Gesù, subito dopo, raffigura – rifacendosi sempre alle immagini del linguaggio apocalittico – è lo svolgersi della storia della Chiesa, con le persecuzioni esterne e con le crisi interne (“l’amore di molti si raffredderà” v. 12).


Il discorso continua con la rappresentazione, sempre con immagini apocalittiche, dell’ “l’abominio della desolazione”[38] e della grande tribolazione, cioè la fase degli ultimi tempi, tratteggiata con catastrofi cosmiche, con le crisi create dai falsi profeti e dagli pseudo-messia (i “ falsi cristi”). Il vertice rimane “la venuta del Figlio dell’uomo”, l’ultima grande manifestazione (la parusìa) che sigillerà la storia. Essa sarà inattesa e destinata a tutti i popoli, che saranno sottoposti a giudizio. Tutto il brano è pervaso da uno stato di tensione, di speranza e di timore ed è un invito a impegnarsi seriamente per il regno di Dio, lasciando a margine le cose secondarie.


L’accenno alla “grande tromba” (v. 31) fa parte della scenografia apocalittica. Ad essa si ispira anche Paolo in 1 Cor 15,52 (“al suono dell’ultima tromba”) e in 1 Tess. 4,16 (“al suono della tromba di Dio”).


Il discorso “escatologico” presenta a questo punto una mini-parabola (v. 32), quella del fico che con il suo fogliame segnala la vicinanza dell’estate. Allo stesso modo nella storia ci sono segni che ne indicano la direzione e la meta. Data la complessità dei temi – e tenendo conto del già citato intreccio dei piani – non sempre è facile distinguere se Gesù si stia riferendo alla storia nel suo svolgimento o alla fine dei tempi. E’ il caso del v. 34: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada”. Si tratta della distruzione di Gerusalemme o della venuta finale come imminente di Cristo, secondo quanto desiderava la Chiesa delle origini?


La seconda parte del discorso escatologico si apre (24,36) e si chiude (25,13) con la medesima affermazione: nessuno conosce il “giorno” e l’ “ora”. Il tema è chiaro: la venuta del Signore è imprevedibile, di qui la necessità della vigilanza.


Al tempo di Noè – racconta il libro della Genesi (6, 6-12) – “la malvagità degli uomini era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male; la terra per causa loro era piena di violenza”.


Gesù paragona gli uomini di questa generazione, cioè di coloro che vivono nella fase finale della storia (quindi anche noi) alla generazione dei tempi di Noè: essi vivevano nella spensieratezza totale delle cose che incombevano su di essi: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito. Nel paragone è messa in evidenza la autocoscienza e il godimento della vita come fondamento della propria sicurezza.


Il cristiano non deve lasciarsi sorprendere da un avvenimento così imprevisto. Egli sa molto bene quello che lo attende e che la rapidità degli avvenimenti ultimi non permette di pensare alla conversione nell’ultimo momento. La generazione di Noè passò alla storia come la più corrotta di tutte (1 Pt 3,20). Non si fa menzione dei suoi peccati concreti, ma si costata solo il fatto: vivevano sicuri e felici e all’improvviso li sorprese il diluvio.


Sebbene l’insegnamento principale di questo brano sia incentrato sull’atteggiamento di spensieratezza e di vita facile della generazione del diluvio, un insegnamento non meno importante, anche se secondario, deve essere visto nella vita di Noè. Il suo comportamento traduce perfettamente la condotta dell’uomo di fede. Egli non aveva alcun indizio per dedurre la catastrofe che si avvicinava: si fidò unicamente della Parola di Dio e portò a compimento quella costruzione assurda in un paese arido, lasciandosi guidare solo dall’ordine che aveva ricevuto da Dio. Al modo di Abramo, egli è dunque il modello di coloro che ripongono la loro fede incondizionata in Dio. Si dice ai cristiani: siate come Noè, e non come i suoi contemporanei. Infatti, quando verrà il Figlio dell’uomo, si ripeterà quello che avvenne allora: uno “sarà preso”, perché appartiene a Cristo (Mt 10, 32-33) e l’altro “sarà lasciato”. E questo, senza preavvisi, nella piena vita di ogni giorno, nel lavoro, nei campi, o in casa.


Questa vigilanza attenta e costante è illustrata da tre parabole: quella del servo fidato e prudente (24, 45-51), la parabola delle ragazze sagge e delle stolte (25, 1-13), e la parabola dei talenti (25, 14-30).


La prima parabola precisa il contenuto del vegliare: è l’atteggiamento di chi amministra i beni saggiamente e “distribuisce il cibo a ciascuno”, il contrario è l’atteggiamento di chi, confidando nell’assenza del padrone, si fa egli stesso padrone e opprime i fratelli e si immerge nei piaceri. Vigilare non è dunque solo attesa, ma impegno concreto.


La parabola delle vergini affronta il tema da un’altra prospettiva: bisogna essere pronti a ogni evenienza, anche al ritardo. Dunque, né calcolare il ritardo (per poi approfittarne) né rimanere delusi. Il pericolo è duplice: darsi alla follia perché il Signore ritarda, oppure non avere la pazienza di attendere a lungo il suo ritorno. Ma la cosa più importante è questa: non è la vicinanza o la lontananza del ritorno del Signore che rende importante il tempo nel quale viviamo. Esso è importante perché ricco di possibilità di salvezza.


La terza parabola, quella dei talenti, spiega che vigilare significa passare dalle parole ai fatti, e la scena del giudizio (vv. 14-30) che conclude il discorso escatologico, precisa che i fatti – in base ai quali saremo giudicati – si riconducono all’amore.


La chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone (vv. 24-27). Il servo ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza della legge. Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto.


Anche noi siamo tentati di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta invece la pretesa del padrone. E’ la medesima reazione che sorge nei confronti di altre parabole: per esempio, nei confronti della parabola che racconta di un padrone che dà la stessa paga agli operai che hanno lavorato un’intera giornata e agli operai che hanno lavorato un’ora soltanto (Mt 20,12); o nei confronti della parabola del prodigo, che racconta di un padre che perdona e festeggia il ritorno del figlio che uscì di casa e sperperò il patrimonio (e mai nessuna festa, invece, per il figlio rimasto in casa: Lc 15, 29-30). Questa nostra reazione è la stessa degli scribi e farisei, degli scrupolosi osservanti della legge. Essi concepiscono la giustizia come un rapporto di parità: tanto-quanto. Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli e senza paura. Anche il servo della parabola deve uscire dall’angusta prospettiva del tanto-quanto. Il servo non deve porre dei limiti al proprio servizio, perché l’amore non ha limiti e non deve avere paura di correre rischi, perché nell’amore non c’è paura.


La parabola dunque ha lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo. E’ tutto l’opposto di quel timore servile che cerca in Dio rifugio e sicurezza, con una esatta osservanza dei suoi comandamenti. E’ invece un rapporto di amore, dal quale possono scaturire coraggio, generosità e libertà.


Tutto quanto abbiamo rilevato finora appartiene al tenore originario della parabola. L’evangelista Matteo, che raccoglie la parabola dalla tradizione, la rielabora e la inserisce nel discorso escatologico e se ne serve per illustrare il suo pressante invito alla vigilanza. Lo scopo dell’evangelista è chiarito da un “infatti” posto all’inizio: “Vigilate dunque perché non conoscete né il giorno né l’ora; avverrà infatti come di un uomo che, dovendo partire…”.


Ma che significa in concreto vigilare? Il servo vigile e fedele – ci dice Matteo – è colui che, superando il timore servile e la gretta concezione farisaica del dovere religioso, traduce il messaggio in atti concreti, generosi e coraggiosi. Dio al suo ritorno non vuole quanto ci ha dato, ma molto di più. A coloro che si muovono nell’amore e si assumono il rischio delle decisioni, si aprono prospettive sempre nuove. Chi invece resta inerte e pauroso, diventa sterile, e gli sarà tolto anche quello che ha (v. 29).




Matteo conclude il discorso escatologico e l’intera serie dei discorsi di Gesù con la grandiosa scena del giudizio: l’appartenenza al regno non esige l’esplicita conoscenza di Cristo, ma soltanto la concreta accoglienza del fratello bisognoso. Lo stesso cristiano non gode di alcuna garanzia: anch’egli sarà giudicato unicamente in base alla carità. Ma che significato dare a quei “piccoli miei fratelli?” coi quali Gesù sembra identificarsi? Chi sono? I poveri semplicemente, i discepoli di Gesù o i missionari poveri e perseguitati?


Prima di rispondere a queste domande, vogliamo chiarire tre affermazioni che ci sembrano sicure.


Prima: il giudice è chiamato “figlio dell’uomo” e “re”, e questo “re” è Gesù di Nazaret, colui che fu perseguitato, rifiutato e crocifisso, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana: la fame, la nudità, la solitudine. Ed è un re che si identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella funzione di giudice universale rimane fedele a quella logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. E’ dunque un re che vive sotto spoglie sconosciute, sotto le spoglie dei suoi “piccoli fratelli”.


Seconda: sbaglieremmo se vedessimo in questa pagina una logica diversa da quella della Croce, diciamo un contrasto fra il Cristo crocifisso e il giudice escatologico, come se alla logica dell’amore (Croce) venisse alla fine sostituita la logica della potenza (giudizio). Nulla di tutto questo: il giudizio svela la vera identità dell’uomo: è solo l’amore verso i fratelli che dona all’uomo consistenza e salvezza.


Terza: Matteo altrove ci ha detto che gli uomini al giudizio dovranno rendere conto di tutti gli atti della loro vita (16,27), perfino di ogni parola (12,36). Qui però Gesù ricorda solo l’accoglienza agli esclusi. Un’accoglienza fattiva: tutto il giudizio è costruito attorno alla contrapposizione tra il “fare” e il “non fare”. E’ la solita tesi cara a Matteo: l’essenziale della vita concreta non è di dire e nemmeno di confessare Cristo a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Questa è la volontà di Dio e questa è la vigilanza.


Ritorniamo ora alla domanda iniziale: chi sono i “piccoli” che Gesù chiama “miei fratelli” e nei quali si rende presente al punto da ritenere fatto a se stesso quanto fatto a loro? Il termine “piccolo” (Mt 18,6.10.14) è usato altrove per indicare i cristiani deboli, spesso trascurati dalle élites della comunità. Secondo un altro testo (10,42) i “piccoli” sono i predicatori del vangelo, poveri e bisognosi di accoglienza. Il termine “fratello” invece ha un senso più generale e indica i discepoli. La conclusione è questa: i piccoli fratelli di Gesù sono i membri della comunità, trascurati, deboli, insignificanti, disprezzati. E in particolare sono i predicatori del vangelo, poveri e perseguitati. Pertanto l’avvertimento racchiuso in questa scena di giudizio è duplice: uno rivolto a tutti gli uomini e l’altro alla Chiesa. A tutti: la sorte di ogni uomo dipende dall’accoglienza mostrata ai missionari del vangelo, cioè, ai discepoli di Cristo. E alla Chiesa: nessuna comunità è al riparo dal giudizio, anche la comunità verrà giudicata in base all’accoglienza che essa concretamente avrà mostrata verso i poveri, i trascurati e i piccoli. L’amore rimane, dunque, la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena e definitiva del Signore.










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Gli studiosi della Bibbia sono generalmente d’accordo nell’affermare che questa parte della tradizione evangelica fu la prima in ordine di tempo ad acquistare una struttura fissa. Nessuna parte della vita di Gesù è redatta con uguale abbondanza di dettagli e con uguale concordanza delle fonti. Lo spazio assegnato al racconto della passione in Marco in rapporto al resto del suo vangelo è indice del ruolo importante che questa narrazione ebbe nella Chiesa apostolica; la sproporzione è notevole pure in Matteo, anche se minore. La predicazione primitiva di Gesù era incentrata sul racconto della morte e della risurrezione. Questo fu il grande atto salvifico di Dio e il punto culminante dell’azione salvifica nella storia della salvezza. Paolo disse che egli predicava Cristo e questi crocifisso (1 Cor 2,2).


Il racconto della passione in Matteo contiene alcuni ampliamenti suoi propri. Alcuni di questi sono leggendari, altri sono il frutto di un’interpretazione di testi di “compimento” delle Scritture dell’AT simile a quella notata frequentemente nei racconti dell’infanzia, e con meno frequenza in altre parti del vangelo.


Il racconto della passione non è un resoconto delle parole di Gesù, benché Gesù parli più frequentemente in Matteo che in Marco. Potrebbe sembrate strano a noi, ma in effetti i vangeli non contengono alcuna esposizione teologica della passione, né attraverso le parole di Gesù né utilizzando le parole degli altri. Ciò fu demandato all’insegnamento apostolico, il che risulta chiaramente dalle lettere di Paolo.




I vangeli sinottici premettono al racconto vero e proprio della passione un’ampia introduzione che assolve a un compito molto importante: creare cioè la cornice in cui leggere la passione e offrire inoltre la chiave per comprenderla in profondità. Gli episodi che formano questa introduzione sono il complotto dell’autorità, l’unzione a Betania, il tradimento di Giuda, l’istituzione dell’Eucarestia, la predizione dell’abbandono dei discepoli. Questi episodi introduttivi sono percorsi da una specie di contrasto carico di significato: da una parte il complotto, il tradimento e l’abbandono di Pietro e dei discepoli, dall’altra la volontà di Gesù di donarsi per gli uomini.


Nel racconto del complotto Mt (26, 1-5) ampia Mc (14, 1-2) in misura notevole. Matteo aggancia immediatamente questo brano al discorso precedente (“Terminati tutti questi discorsi”). La predizione di Gesù (26,2), propria di Matteo, è un’introduzione solenne al racconto ed è controbilanciata dalla decisione delle autorità giudaiche: egli sa ciò che stanno tramando ed è padrone della situazione. I fautori del complotto sono Caifa, qui nominato solo da Mt, i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo[39] (Mc “i grandi sacerdoti e gli scribi”).




Il racconto dell’unzione figura in tutti e quattro i vangeli. Lc lo colloca nel primo periodo del ministero di Gesù (7, 36-50), non fa il nome dell’ospitante e identifica la donna con una peccatrice. Gv lo situa prima della passione (12, 1-18), ma lo descrive come accaduto nella casa di Marta e Maria a Betania, e identifica la donna come Maria. Mt segue Mc, l’ospitante è Simone il lebbroso e la donna non è né nominata né identificata come una peccatrice.


Gesù gradisce il gesto, nello spirito in cui fu inteso, anche se egli era contrario al lusso (Mt nota che il profumo[40] era molto costoso), ed egli giustifica quest’atto di prodigalità con un’allusione alla sua morte e sepoltura imminenti, ed è per questo che l’accetta.


Frattanto si consuma il tradimento, soltanto Matteo precisa la somma che Giuda riceve (“trenta monete d’argento”[41]) per la consegna di Gesù.




Per quattro volte Gesù parla dl tradimento, ma il centro della scena rappresentato dalle parole che Cristo pronunzia sul pane azzimo e sulla coppa di vino che facevano parte del rituale della cena ebraica. La Pasqua è la più solenne festa ebraica e viene celebrata con un preciso rituale che rievoca le meraviglie compiute da Dio nella liberazione dalla schiavitù egiziana (Esodo 12). La sua celebrazione si protrae dal 14 al 21 del mese di Nisan (marzo-aprile), in essa si consumava l’agnello, precedentemente sgozzato nel tempio. La Pasqua è anche detta “festa degli Azzimi”, perché è permesso mangiare solo pane senza lievito (in greco azjmos).


Perciò, come gli israeliti dovevano ricordare il significato di quel pasto singolare circondato di solennità, così Gesù spiega il senso della nuova cena pasquale, nella quale si distinguono i punti seguenti:


a) Gesù rende partecipi del suo destino i suoi discepoli: “Io vi dico: non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò con voi, nuovo, nel regno di mio Padre” (v. 29).


b) Il sangue di Gesù è sparso in remissione dei peccati. Solo Matteo sottolinea questo carattere sacrificale della cena pasquale. Il sacrificio era dono della vita per un’altra vita: così si afferma il potere sostitutivo del sacrificio di Gesù, come anche il suo valore espiatorio ( Cristo muore in croce al posto nostro e il suo sacrificio in croce era diretto a ottenere la liberazione e la purificazione delle nostre colpe).


c) La cena inaugura la nuova alleanza. Per questo è detta “sangue dell’alleanza”. Quello che si attendeva per il futuro: un nuovo ordine di cose nel quale Dio mettesse la sua legge nel cuore e perdonasse i peccati, è giunto con questa cena pasquale.


d) L’ultimo punto è messo più chiaramente in evidenza con la contrapposizione intenzionale fra l’antica (Es 24,8; Zc 9,11) e la nuova alleanza. Le due alleanze furono sigillate col sangue. La prima col sangue di animali, la nuova col sangue di Gesù. Cristo in persona è la nuova alleanza, come era stato annunziato del servo di Jahwè (Is 42,6; 49, 7-8). Egli è dunque il servo di Jahwè. Il sangue è sparso per molti[42]. E’ un semitismo che equivale a tutti.


L’espressione “il mio corpo” e “il mio sangue”, nel linguaggio del tempo, era sinonimo di “io stesso”. La vita di Gesù messo a morte può essere assimilata attraverso l’assunzione del pane e del calice.




Questo episodio è di grande importanza per capire la passione che segue. Mentre la Trasfigurazione (17, 1-9) rivelava, in anticipo, la gloria del Figlio dell’uomo pur incamminato verso la croce, qui viene rivelata la profonda umanità del Cristo, la sua “debolezza”. Il racconto ci manifesta anche la reazione intima di Gesù di fronte agli avvenimenti dolorosi che incombono: è la passione interiore del Maestro. I racconti che seguono (processo, condanna, insulti, crocifissione) sono la superficie della passione, i fatti, la cronaca. Qui, invece, viene svelata la reazione intima di Gesù, nei racconti, che cosa gli uomini fecero a Gesù, nel Getsemani come egli reagì nel proprio animo. Infine c’è un terzo aspetto, non più cristologico come i primi due, ma ecclesiale: riflette la lezione di vita che la comunità cristiana ricava dalla meditazione del Getsèmani. Come il Cristo, mediante la preghiera al Padre, superò vittoriosamente il momento decisivo della prova, così il discepolo deve fare altrettanto.


Questi aspetti sono tipici di Matteo, ma comuni anche a Mc (14, 32-42). Due sono le caratteristiche di Mt: ha sostituito qualche vocabolo migliorando la struttura delle frasi; l’altra caratteristica è che Mt presenta Gesù meno disorientato di come appare in Mc. Attenua il turbamento di Gesù, lo presenta addolorato e triste, ma non pervaso da “paura e disorientamento” come in Mc.




L’evangelista Marco racconta i fatti nella loro cruda realtà, senza commento. Matteo segue lo schema di Marco, punto per punto, però lo interpreta e lo commenta, mediante parole poste in bocca a Gesù. Con una parola, Gesù mette in risalto il tradimento di Giuda: “Amico per questo sei qui?” (26,50). E’ forse un’allusione al Salmo 55, la preghiera di un uomo tradito dagli amici più cari che solo confida nell’amicizia di Dio: “Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato, se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente, ci legava una dolce amicizia, insieme camminavamo gioiosi verso la casa del Signore”.


Gesù parla al discepolo che ha sfoderato la spada (26, 52-54) rimproverandolo e spiegandogli la via che il Messia deve percorrere in obbedienza alle Scritture. Gesù rifiuta la tentazione zelota che invitava alla violenza: quella di Gesù è la via della croce non della forza. E se Gesù si lascia arrestare è solo per libera decisione, non per impotenza, ma per obbedire al piano divino di salvezza. Gesù vive fino in fondo la debolezza dell’amore perché è in esso si svela la forza di Dio.


La sezione che va dalla cena all’arresto va letta come un unico blocco, ma con due tematiche che si intrecciano continuamente: il tradimento da una parte e il dono di Gesù dall’altra.




I Vangeli non hanno l’intenzione di riferirci tutti i fatti, né l’ordine esatto in cui si sono svolti. Hanno scelto quei fatti che, alla luce della Risurrezione e dello Spirito, furono compresi come più importanti. E nel raccontarli hanno scelto non un ordine cronologico ma kerigmatico (un annuncio), atto a condurre alla fede. Così non è facile ordinare gli eventi del Getsemani, dell’arresto, del processo giudaico e romano, e metterli in sintonia con la giurisprudenza giudaica del tempo. E neppure è molto facile concordare fra loro i quattro racconti evangelici. E’ necessario distinguere la sostanza dei fatti e il modo con cui sono stati raccontati: i Vangeli sono un intreccio di storia e di fede, di racconto e di interpretazione teologica. Non è corretto, constatando la presenza di un’interpretazione teologica, negarne la sostanziale storicità: sono fatti interpretati ma fatti.


Appena arrestato, Gesù è condotto nel palazzo di Caifa, sommo sacerdote, presso il quale si erano già radunati alcuni membri del Sinedrio, non tutti, ma certo i più influenti (26,57). Non si tratta di un vero e proprio processo, ma piuttosto di un’istruttoria preliminare e informale. Il diritto giudaico proibiva i dibattiti processuali durante la notte. Il vero processo si tenne al mattino, come anche Mt ha cura di ricordare (“Venuta la mattina, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani tennero consiglio contro Gesù per farlo morire”: 27,1).


Il racconto si sviluppa in due scene strettamente e intenzionalmente congiunte: nella prima il protagonista è Caifa e nella seconda è Pietro. Al centro sta la scena, breve e drammatica di Gesù deriso e oltraggiato. La scena di Pietro è introdotta sin dall’inizio: “Pietro lo seguiva da lontano fino al cortile del Sommo sacerdote, poi vi entrò e si sedette con le guardie per vedere come andava a finire” (26,58). In tal modo il tradimento di Pietro fa da cornice al processo di Gesù.


L’evangelista Matteo segue in tutto il racconto di Marco, eccetto piccole modifiche: precisa che il Sommo Sacerdote era Caifa che Pietro entrò nel cortile e si fermò a scaldarsi “per vedere come sarebbero andate a finire le cose”. Mt ci dice anche, brutalmente, che il Sinedrio cercava una “falsa testimonianza”. Per Mt il processo fu una caricatura, un consapevole oltraggio alla verità. A riguardo, infine, della solenne proclamazione di Gesù, l’evangelista aggiunge: “D’ora innanzi vedrete il figlio dell’uomo”. Per Mt la gloria di Gesù e il suo giudizio non sono rimandati a un lontano futuro.


Fin dall’inizio, dunque, ci viene detto che il processo è condotto in modo insincero: non è soltanto un’annotazione storica, ma un avvertimento. I capi dei sacerdoti e gli anziani cercavano una falsa testimonianza, un capo d’accusa che giustificasse la legalità dell’arresto. Naturalmente avevano motivi per condannarlo, ma non erano motivi legali: la costante opposizione ai loro privilegi, la simpatia della folla, la lucidità dei suoi giudizi. Queste sono le vere ragioni della condanna, ma sono ragioni da nascondere dietro pretesti più nobili.


L’unico capo d’accusa che riescono a trovare è una parola di Gesù sulla distruzione del tempio, accusa che verrà ripresa con ironia dai passanti sotto la croce (27,40).


Di fronte alle accuse Gesù tace. Il particolare allude al Servo di Jahwè, di cui parla Isaia 53,7: “Maltrattato egli accettò l’umiliazione e non aprì la sua bocca, come un agnello condotto al macello”.


Il Sommo Sacerdote chiede a Gesù, sotto solenne giuramento, di manifestare con chiarezza la sua identità. Questa volta Gesù esce dal silenzio, accetta la definizione di Caifa, si riconosce in essa, ma insieme la supera: per definire il Cristo si deve passare dal piano semplicemente messianico al piano divino. In questa risposta sulla sua messianicità, Cristo ricorre a due passi biblici: il primo è il Salmo 110,1 (testo regale-messianico), il secondo, desunto dal profeta Daniele (7,13), è più forte perché presenta un aspetto divino che, applicato a un uomo, risulta blasfemo. E’ per questo che Caifa incrimina Gesù per bestemmia (e il testo sembra lasciar trasparire la sua gioia di aver finalmente trovato un consistente capo d’accusa) e si strappa le vesti: Gesù di Nazaret si fa uguale a Dio, si arroga dei compiti che sono propri di Dio.


In questo modo si conclude un’istruttoria che, anziché rivelare la colpevolezza di Gesù, mette in luce la sua piena dignità.




Matteo non racconta il processo romano subito dopo il processo giudaico. Inserisce fra i due un’ampia parentesi (l’impiccagione di Giuda 27, 3-10). Il posto scelto per la collocazione di questo episodio non ha alcun fondamento cronologico, ma serve per illuminare sia la pericope precedente (processo giudaico) sia quella seguente (processo romano). Matteo vuole mostrare che il processo fu ingiusto, un tradimento e Giuda lo riconosce per primo: “Ho tradito il sangue innocente” (v. 4), e lo riconoscono anche i sacerdoti: “Non è lecito mettere queste monete nella cassa del tempio perché sono prezzo di sangue” (v. 6). Ma rilevare che il processo di Gesù fu un tradimento non basta. Non è ancora una lettura in profondità, Matteo aggiunge che questo ingiusto processo fa parte del piano di Dio e compie le Scritture (vv. 9-10): è questa la lettura profonda dell’episodio. In definitiva non è Israele che giudica Gesù, ma è Gesù che giudica Israele: il tradimento ricade su chi lo compie (vv. 5 e 25).


Il racconto del processo di Gesù di fronte a Pilato sviluppa il tema della regalità di Gesù: il titolo “re dei giudei” appare all’inizio del racconto (27,11) e alla fine (27,29). L’evangelista non perde occasione per sottolineare che Gesù è innocente. La moglie di Pilato lo chiama “uomo giusto” (27,19), e Pilato stesso ne riconosce pubblicamente l’innocenza (27,24). Gesù è condannato innocente dal suo popolo e dall’atteggiamento contraddittorio di Pilato, il quale apre il processo con una chiara intenzione di obiettività e si sforza di sottrarre il Cristo alla condanna. Ma appena è posto in causa personalmente (“Vedendo che a nulla giovava ma che, al contrario, ne nasceva un tumulto” v. 24), la sua obiettività viene meno: c’è una ragione di Stato che prevale sulla verità e la giustizia. Pilato non è in alcun modo disposto a perdere se stesso.


Nella scelta tra Gesù e Barabba, Mt precisa che il rifiuto è corale (v. 20). E’ tutto il popolo che condanna il Messia, non solo i capi.


I giudei avevano consegnato Gesù a Pilato, ora Pilato lo consegna ai soldati per la crocifissione. Ma prima del viaggio al Calvario, l’evangelista racconta una seconda scena di oltraggio (vv. 27-31), parallela alla scena precedente che faceva seguito al processo giudaico: là si derideva Gesù profeta, qui Gesù re. E’ una scena importante, in un certo senso al centro di tutta la sezione, e riunisce i due temi maggiori che l’evangelista va svolgendo, cioè la rivelazione della regalità di Gesù e il suo rifiuto da parte del mondo.


La scena degli oltraggi non esprime soltanto fino a che punto Gesù fu rifiutato e fino a che punto egli si umiliò. Intende dimostrare fino a che punto la regalità di Dio, che è apparsa in Gesù, è diversa dagli schemi comuni: è diversa al punto da sembrare una burla. Ma questa diversità Gesù l’aveva fatta intendere in precedenza (20, 25-28): “Voi sapete che i capi delle nazioni… dominano; tra voi però non deve essere così… chi vuol diventare grande tra voi si faccia servo…”. C’è dunque una radicale differenza fra la regalità del mondo e quella di Cristo: quella del mondo si manifesta nella potenza, nella imposizione, nella salvezza di sé; la regalità di Cristo si manifesta nel servizio, nell’amore, nel rifiuto della potenza. Ecco perché il mondo rifiuta la regalità di Cristo, non la comprende, addirittura la considera una regalità da burla. Ed ecco perché gli stessi discepoli sono spesso tentati di modificare la regalità di Gesù, di farla somigliante a quella del mondo, nel tentativo di renderla più convincente ed efficace.




Matteo, riproduce tutte le sequenze del racconto di Marco, e perciò, il senso fondamentale della sua narrazione è il medesimo. Tuttavia, come è sua abitudine, rilegge e annota. Si può dire che nessuna sequenza sia priva di qualche annotazione.


A convincerci che il racconto di Matteo è simile a quello di Marco basta uno sguardo d’insieme: Gesù è nel più totale abbandono, è insultato dai passanti, i quali rilanciano contro di lui l’accusa dei falsi testimoni al processo. Lo insultano gli scribi i farisei e gli anziani, e nella loro voce e in quella dei passanti, risuona la medesima voce di Satana che già ha parlato nel deserto (4, 1-11): “Se sei figlio di Dio…”.


Il viaggio verso il calvario è detto brevemente con una frase di passaggio. Anche Matteo riporta l’episodio del Cireneo, ma ne tralascia i tratti non essenziali: che l’uomo di Cirene era padre di Alessandro e Rufo, e che stava tornando dai campi. Conserva, però, il verbo più importante (“lo costrinsero”), che pone l’episodio nella giusta prospettiva, impedendo di vedere nel Cireneo una qualsiasi figura di discepolo.


L’episodio del Cireneo non è ricordato da Mc e Mt per suggerire come il discepolo debba “portare la croce dietro a Gesù”. L’episodio, piuttosto, mette in luce la prostrazione di Gesù, sfinito al punto da indurre i soldati a costringere un passante a portare la croce al suo posto.


Una volta giunti al Calvario, qualcuno offre a Gesù vino mescolato con “fiele”. Marco parlava di “mirra”, Matteo di fiele: un piccolo cambiamento che rende più esplicito il riferimento al Salmo 69,22: “Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Gesù “lo assaggiò, ma non ne volle bere”. Perché questo particolare? Si trattava di una bevanda, una sorta di narcotico,, che veniva pietosamente offerta ai condannati per attenuare la loro sofferenza. E’ dunque un gesto di pietà e Gesù lo gradisce: “lo assaggiò”. Tuttavia egli vuole offrirsi al Padre e agli uomini in piena lucidità, e perciò non lo beve.


In Marco la crocifissione era descritta con un solo verbo: “E lo crocifissero”. A Matteo basta addirittura un semplice participio passato: “Dopo averlo crocifisso”. Matteo vuole che lo sguardo sia, non per la crocifissione che non descrive, ma tutto per il Crocifisso, dove lui scorge il compimento della profezia del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.


La ragione della condanna è espressa con particolare solennità: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Marco diceva più semplicemente “Il re dei Giudei”.


Per descrivere gli insulti, Matteo, come già Marco, utilizza tre verbi diversi, in parte sinonimi: “bestemmiare” (27,39), che indica oltraggio verso qualcosa di sacro; “prendersi beffa di lui” (27,41) e il terzo utilizzato dai ladroni “lo oltraggiavano” (27,44). Tutti coloro che lo negano, riconoscono che Gesù ha preteso una filiazione divina. I sacerdoti, dunque, senza volerlo, manifestano la profonda verità di Gesù.


Gesù è in croce fra due malfattori crocifissi come lui (27,38). Nella sua vita fu schernito e accusato di essere “amico dei pubblicani e peccatori” (11,19), e ora muore in loro compagnia. Matteo commenta la morte di Gesù ricorrendo ai medesimi passi veterotestamentari di Marco: i Salmi 68 e 22 e Isaia 53.


Il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (27,46) è stato interpretato da molti come un grido di disperazione, ma non è così, a escluderlo basta ricordare che l’intero racconto della passione ha sullo sfondo la figura del giusto sofferente, che è figura dell’uomo abbandonato, non del disperato. Non c’è dubbio che il grido di Gesù sia stato una preghiera: una preghiera gridata, ma sempre una preghiera. Ma a differenza di molte preghiere veterotestamentarie, egli non invoca da Dio vendetta, né giustizia, ma la sua compagnia. Il grido di Gesù sulla croce è rivolto solo a Dio e a Lui non chiede aiuto ma presenza. La preghiera di Gesù è la domanda del perché della sofferenza innocente, della verità sconfitta, dell’amore inutile. La domanda di Gesù è la domanda dell’uomo, condividendo questa radicale domanda dell’uomo, il Figlio di Dio ha mostrato tutta la sua solidarietà con l’uomo.


Come nel vangelo di Marco, anche nel racconto di Matteo Gesù muore con un alto grido: “Ma Gesù, avendo di nuovo gridato con voce forte, emise lo spirito” (27,50).


Per dire la morte, Marco ha usato il verbo “spirare”, Matteo invece usa un’espressione più sottile: “emise (o consegnò) lo spirito”. Lo spirito è il soffio della vita che viene da Dio (Gen 2,27) e il verbo “afiemi” significa “emettere” e “consegnare”. Ovviamente anche la formula di Matteo dice semplicemente il morire, ma lo dice religiosamente. L’uomo riconsegna a Dio il soffio ricevuto da lui in dono.


Nel suo racconto della crocifissione Matteo ci ha già offerto due chiavi di lettura: la disposizione delle scene e i riferimenti alle Scritture. Al termine della narrazione ce ne offre una terza, forse più importante: nel cuore stesso dello scandalo si fa strada la vittoria. La luce scaturisce subito dopo che le tenebre divennero più fitte. Due segni testimoniano che la morte di Gesù è salvezza: il velo del tempio che si lacera[43], e il riconoscimento della sua filiazione divina da parte dei soldati pagani.


Il segno della rottura del velo del tempio non è modificato rispetto a Marco, se non per il fatto che qui si trova strettamente congiunto al terremoto, che scuote la terra e spacca le rocce, e alla risurrezione dei morti. In tal modo la fine del tempio è davvero giunta ma si apre una prospettiva nuova.


Molto modificato il secondo segno che Matteo riprende da Marco: la confessione del centurione (27,54). Non solo il centurione, ma l’intero corpo di guardia (“e quelli con lui”) riconoscono il Figlio di Dio nel Crocifisso. In Marco il segno che ha svelato al centurione l’identità di Gesù è stata la sua stessa morte. “Vedendolo morire in quel modo”. In Matteo, invece, sono i segni che hanno seguito la morte: “alla vista del terremoto e di quanto accadeva”. In Marco è stata la “debolezza” di Gesù a svelare la “potenza” di Dio. In Matteo il rapporto è rovesciato: è la potenza di Dio che ha svelato il senso della debolezza della croce. Ma il significato alla fine è lo stesso. La debolezza della croce nasconde il grande evento della salvezza.


Il terremoto[44] e la risurrezione sono nella letteratura profetica e apocalittica due segni classici che indicano l’avvento di un mondo nuovo. La croce è il grande evento che tutto rinnova e capovolge: questo è il messaggio che Matteo – ricorrendo a immagini bibliche che i suoi lettori erano in grado di decifrare - vuole comunicarci. Non soltanto crolla la barriera sacra (“il velo del tempio”) che separava i vicini a Dio dai lontani, ma nasce una nuova umanità (le tombe che si aprono e i morti che risorgono). Tutto dice che la croce è l’istante in cui crolla il mondo vecchio per far posto a un mondo nuovo. Le reminiscenze bibliche sono diverse, ma può bastarci la grande visione di Ez 37, 11-14: “Aprirò i vostri sepolcri… E riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai sepolcri”. Questo è proprio ciò che avviene ai piedi della croce: si aprono i sepolcri, risorgono i morti e il Signore è riconosciuto. La differenza è che il Signore, che qui è riconosciuto, è Gesù, il Crocifisso. La croce è il momento della nascita del nuovo mondo, l’istante in cui il mondo nuovo si affaccia. E la risurrezione non è solo quella di Gesù, ma anche la nostra. In quella di Gesù è racchiusa la risurrezione finale, nella quale sono coinvolti gli uomini e il mondo.


Il corpo di Cristo viene deposto nella tomba di un discepolo benestante, Giuseppe d’Arimatea. Testimoni della sepoltura sono non solo Giuseppe d’Arimatea e le donne, ma anche il presidio dei soldati, posti a custodia della tomba su richiesta giudaica. La “Parasceve” è il giorno che precede o “prepara” il sabato. Con l’accenno alle guardie al sepolcro, fatto dal solo Matteo, l’evangelista vuole sottolineare la validità indiscutibile della risurrezione.


Nell’episodio delle guardie presso la tomba di Gesù (26, 62-66), Matteo rivela un chiaro intento polemico. Egli scrive in un ambiente in cui circolava la diceria del furto del cadavere (“I suoi discepoli sono venuti di notte e lo hanno trafugato mentre noi dormivamo”: 28,13): una diceria, nota Matteo, “diffusa tra i giudei sino ad oggi” (v. 15).


Questo intento polemico fa da cornice all’intera pericope. Lo troviamo all’inizio (27, 62-66): “Ordina che il sepolcro sia tenuto al sicuro, perché i suoi discepoli non vengano a rubare il corpo e dicano: è risorto”. Ed è ribadito alla fine: le guardie sono invitate a sostenere l’idea del trafugamento.


Ma in realtà le guardie – poste al sepolcro per sventare il trafugamento del cadavere – sono costrette a farsi testimoni della risurrezione: “Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono e caddero come morte” (28,4). Sono proprio loro che corrono ad annunciare ai sacerdoti l’accaduto (v. 11). E solo perché comprate (“Diedero ai soldati una forte somma”) sostengono la versione del trafugamento.


Con questo Matteo mette in luce la realtà della risurrezione e insieme mostra come il rifiuto di Gesù – da parte delle autorità giudaiche – continua: un rifiuto lucido, in mala fede e che non disdegna la calunnia e la corruzione.








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Osservando il Nuovo Testamento si scopre che il tema della risurrezione è presente dovunque, in una grande varietà di forme: predicazione, catechesi, liturgia, racconti. Ciò dimostra che la fede nella risurrezione penetrava tutte le manifestazioni della vita della Chiesa. E questo è facilmente comprensibile: è infatti a partire dalla risurrezione che la Chiesa comprende il Cristo e se stessa.


I racconti evangelici sono tra loro molto diversi. Gli evangelisti si sono permessi molta più libertà che nei confronti della passione. Sono molto più attenti agli aspetti teologici dell’avvenimento, anche se tutti ne affermano, energicamente, la realtà e la concretezza, diciamo la storicità.


Gli interessi degli evangelisti – pur nel rispetto dell’originalità di ciascuno – sembrano ricondursi a due: un interesse apologetico, cioè l’esaltazione della fede nella risurrezione come un fatto reale, e un interesse teologico (la risurrezione è un fatto di salvezza per noi). All’interno di questa duplice prospettiva, dobbiamo cogliere l’originalità di Matteo.




Per Matteo la risurrezione di Gesù fu un avvenimento strettamente soprannaturale: non fu veduto né poteva essere visto da nessuno. Matteo è quello che ha dato a questa scena un maggior numero di particolari. A prima vista egli ci dà l’impressione che le donne siano state testimoni oculari dell’avvenimento. Esse si dirigono al sepolcro di buon mattino, ma non per ungere o imbalsamare il corpo di Gesù, come dicono Marco e Luca, ma per “visitarlo”. Matteo, infatti, ha già dato notizia delle guardie poste a custodia del sepolcro che impedivano a chiunque l’accesso, quindi le donne non potevano entrare nella tomba per ungere il corpo di Gesù.


Matteo non si limita a descrivere, come invece Marco, la pietra ribaltata, ma dice che ci fu “un gran terremoto”, e che un angelo del Signore “dall’aspetto della folgore e in vesti bianche” discese dal cielo. Sono elementi simbolici, derivati dalle teofanie apocalittiche, in particolare da Daniele (7,9 e 10,6.8-9). Sono tutti motivi che si collegano ai temi della manifestazione di Dio e del giudizio. Con questi tratti Matteo ci offre un codice di lettura e ci apre il senso della risurrezione stessa: è il gesto escatologico (finale) di salvezza che impegna gli uomini in una risposta di fede.


L’angelo non si limita ad affermare che il Cristo è risorto, ma attira l’attenzione sulla croce: la risurrezione è la vittoria della croce, ne svela il senso positivo e salvifico.


La via dell’amore percorsa con ostinazione da Gesù non è dunque vana: contrariamente al giudizio degli uomini, essa è la via che porta alla vita e costruisce il mondo nuovo. Il giudizio di Dio è diverso da quello degli uomini.


Nello stesso racconto Matteo include anche l’apparizione del Risorto alle donne. Gesù le saluta con un invito alla gioia. Esse cadono in ginocchio davanti al Signore, in atteggiamento di adorazione, e ricevono da lui la missione di dare la notizia ai suoi discepoli , che chiama “suoi fratelli”, come in altre occasioni (12,49; 25,40).




Tre sono i temi conclusivi del Vangelo di Matteo: la potenza del Figlio dell’uomo, la missione universale della Chiesa e la presenza del Signore risorto nella sua comunità.


Queste ultime parole di Matteo ci introducono nel tempo della Chiesa. Il loro interesse è ecclesiale, non cristologico. Infatti l’apparizione di Gesù è raccontata di sfuggita: “e vedendolo”. Non è su di essa che cade l’accento, all’evangelista non interessa più convincere della realtà della risurrezione (ciò è stato fatto in precedenza), ma mostrare le conseguenze che dalla risurrezione derivano per la fede della Chiesa.


La piena manifestazione di Gesù avviene in Galilea, dove erano stati invitati ad andare i discepoli (26,32; 28, 7-10). Perché in Galilea? Probabilmente per far comprendere che Gerusalemme aveva cessato di essere il centro del culto e della religiosità. Da allora l’accesso a Dio, al vero tempio, non era più circoscritto a un luogo – “né su questo monte né in Gerusalemme” (Gv 4,21) – ma a una persona, alla persona del Cristo.


La piena rivelazione avviene “sul monte che Gesù aveva loro fissato”. Matteo non ci informa su questo particolare del suo vangelo. Non sappiamo di nessun monte che Gesù avesse loro indicato in precedenza; il monte è ricordato unicamente per il suo simbolismo: il monte è il luogo della rivelazione. La rivelazione di Dio nell’AT avvenne sul monte Sinai. La rivelazione di Gesù (nuovo Mosè), avvenne sul monte delle beatitudini (dove egli manifesta il suo insegnamento e le sue esigenze morali) e sul monte di Galilea (dove manifesta la sua autorità e la sua missione).


La prima parola di Gesù Risorto è una rivelazione: “Mi è stata data ogni potere in cielo e in terra”. Con questo Gesù dichiara di essere il compimento della profezia di Daniele (7, 13-14) intorno al Figlio dell’uomo: “Ecco apparire sulle nubi del cielo uno, simile a un figlio di uomo…”. Questa “signoria universale” del Signore risorto è la radice da cui scaturisce l’universalità della missione. Tutto il breve discorso di Gesù è dominato dall’idea di pienezza e universalità. Fare discepoli fra tutte le genti non significa, necessariamente, che tutti debbono convertirsi. Ciò che importa è che il popolo di Dio sia “fra tutte le genti”, magari una minoranza, ma fra tutte le genti.


Scopo della missione è “fare discepoli”, è la definizione più sintetica e corretta dell’esistenza cristiana: il cristiano è un discepolo. Non si tratta di offrire un messaggio, ma di instaurare una relazione stretta e personale con Cristo: il discepolo si lega alla persona del maestro e si impegna a condividere il suo progetto di vita. I discepoli non insegnano qualcosa di proprio, ma solo “tutto ciò che egli ha comandato”.


Il vangelo termina come era cominciato. All’inizio ci fu annunziato il nome dell’Emmanuele, Dio con noi, come era stato annunziato dal profeta Isaia (1,23). Ora ci si assicura che quella profezia è diventata realtà permanente: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo”. In altre parole, Gesù continua a essere l’Emmanuele, il Dio con noi.








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A conclusione delle nostre riflessioni possiamo tentare di riassumere brevemente le caratteristiche principali della persona di Gesù Cristo che Matteo ha messo particolarmente in rilievo, nel suo Vangelo: Gesù è il Maestro, il nuovo Mosè, superiore all’antico, il profeta portatore della parola di Dio ultima e definitiva. Egli è il re d’Israele nel quale si adempiono tutti gli annunzi e le speranze dell’AT. Però non compie solo l’antico, ma inizia il nuovo. Egli è il creatore del nuovo popolo: la Chiesa, che si delinea in questo vangelo con le sue istituzioni e i suoi ministeri, con l’ordinamento comunitario e il primato di Pietro.


La Chiesa riceve dal Messia la vera interpretazione della Legge. Gesù è l’incarnazione della volontà definitiva di Dio, cioè l’interprete autentico e ultimo della legge. La Chiesa è il vero Israele. L’Israele giudaico ha rinunziato alla missione universalistica che Dio gli ha affidato, quella cioè di essere la luce delle nazioni e, per questo, Dio lo ha privato della sua elezione e ha affidato la sua vigna ad altri (21,41).


Il passaggio avvenuto dall’Israele “secondo la carne” all’Israele “secondo la Spirito” non comporta in primo luogo un cambiamento di pensiero, ma di azione: mettersi, cioè, sulla linea tracciata dal discorso della montagna e nel fare la volontà di Dio.


Al termine della lettura non solo del Vangelo di Matteo, ma dei Sinottici, la persona di Gesù ci appare, abbastanza ricca e diversificata. Marco ci ha presentato il Cristo della Croce (segreto messianico: il vero volto di Cristo si rivela proprio nella morte in Croce: “Questi era veramente il Figlio di Dio”). Luca, invece, ci ha fatto scoprire il volto mansueto e misericordioso di Cristo: “amico dei pubblicani e peccatori”). Matteo, come abbiamo visto, Gesù-Maestro. Il Vangelo di Giovanni ci presenterà il mistero dell’incarnazione di Cristo.


Nei limiti dei mezzi ma con la buona volontà che ha animato tutti nell’assiduità dell’ascolto, ci sembra di poter dire: abbiamo conosciuto qualcosa di più della vita di Gesù. Ma non è sufficiente, perché Gesù oltre che conoscerlo, bisogna seguirlo, viverlo: nella sua parola, nella testimonianza della vita, nei fratelli.


Il messaggio finale di Matteo è un’assicurazione della presenza viva di Gesù nella Chiesa, una presenza che è rivolta al compimento finale della Chiesa. La risurrezione non fu un semplice ritornare in vita ma l’inizio di una nuova esistenza nella quale la vita di Cristo diventa permanente in quel gruppo (che oggi è la Chiesa) che continua la sua missione.


La Chiesa stessa è la testimonianza della risurrezione, perché la sua vita e la sua attività sono una costante testimonianza che Gesù vive.


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I. PROLOGO: Genealogia e racconti dell’infanzia (1, 1-2,23)
La genealogia di Gesù (1, 1-17)
La nascita di Gesù (1, 18-24)
L’adorazione dei Magi (2, 1-12)
La fuga in Egitto e strage degli innocenti (2, 13-23)
II. PRIMO LIBRO: L’annuncio del regno (3, 1-7,29)
Sezione narrativa: l’inizio del ministero (3, 1-4,25)
Discorso: Il Discorso della Montagna (5, 1-7,29)
III. SECONDO LIBRO: Ministero in Galilea (8, 1-11,1)
Sezione narrativa: ciclo di dieci miracoli (8, 1-9,34)
Discorso: Il discorso missionario (9,35-11,1)
IV. TERZO LIBRO: Controversie e parabole (12, 2-13,52)
Sezione narrativa: incredulità e ostilità dei Giudei (11,2-12,50)
Discorso: le parabole del Regno (13,1-52)
V. QUARTO LIBRO: La formazione dei discepoli (13,53-18,35)
Sezione narrativa: episodi prima del viaggio a Gerusalemme (13,53-17,27)
Discorso: il discorso ecclesiastico (18, 1-35)
VI. QUINTO LIBRO: Giudea e Gerusalemme (19,1-25,46)
Sezione narrativa:viaggio a Gerusalemme ed eventi in essa (19,1-23,39)
Discorso: il discorso escatologico (24,1-25,46)
VII. IL RACCONTO DELLA PASSIONE (26,1-27,66)
VIII. IL RACCONTO DELLA RISURREZIONE (28, 1-20)


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ú Dizionario dei concetti Biblici del N.T. – EDB Bologna
ú Grande Commentario Biblico Queriniana Brescia
ú Il Concilio Vaticano II – Documenti - Ed. Dehoniane Bologna
ú La Bibbia per la famiglia – G. Ravasi – Ed. S. Paolo
ú Pagine difficili della Bibbia (A.T.) – E. Galbiati, A: Piazza – Massimo Milano
ú Piccolo Glossario del Cristianesimo – Edizioni Dehoniane –Roma
ú La nascita dei Vangeli Sinottici - Jean Carmignac - Edizioni Paoline
ú Il racconto di Matteo – Bruno Maggioni – Cittadella Editrice – Assisi
ú La Bibbia per la famiglia- Gianfranco Ravasi – Edizioni S. Paolo
ú I racconti evangelici della Passione – Bruno Maggioni - Cittadella Editrice – Assisi
[1] La prima attribuzione a Matteo di un’opera letteraria è l’affermazione di Papia, vescovo di Gerapoli nella Frigia, 130 d.C., citata da Eusebio nel IV secolo d.C. Papia non definisce lo scritto di Matteo un vangelo, ma dice che: “Matteo ordinò i detti (greco logìa) in lingua ebraica e ciascuno li tradusse (o interpretò) come ne era capace”. I “detti” sono generalmente intesi come i detti di Gesù; e quest’opera avrebbe avuto una certa rassomiglianza con la fonte “Q”. Ireneo e Origene, invece, parlano di un vangelo non di “logìa”, e non c’è alcun dubbio che essi intendessero il vangelo così come noi lo conosciamo.
[2] La genealogia (in greco, biblos ghenéseos “libro delle origini”) si ispira alla tradizione biblica (1Cronache 1-9; Genesi 5,1). Motivi religiosi e giuridici spingono gli Ebrei a conservare la memoria dei loro antenati, poiché la discendenza è il fondamento di importanti diritti e privilegi. Con questa genealogia Matteo dimostra l’appartenenza di Gesù al popolo di Israele.
[3] Per gli Ebrei il fidanzamento è un impegno decisivo, in funzione del matrimonio. Esso costituisce il primo momento della celebrazione (in ebraico qiddushin, “consacrazione”), quando la donna viene “consacrata” all’uomo e i due giovani possono già essere chiamati marito e moglie. Nel nostro caso il contratto matrimoniale scritto era stato fatto tra Giuseppe (o i suoi genitori) e i genitori di Maria. Questo è il significato dell'espressione: “essendo promessa sposa”. La violazione del fidanzamento è considerato adulterio (Deut 22, 23-27). Dopo un anno si celebrava il matrimonio vero e proprio (in ebraico nissuim, dal verbo nasa, “sollevare”, “portare”), quando la sposa veniva portata nella casa dello sposo. Questo è il significato dell’espressione: “Prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta”. In seguito i due momenti furono uniti in un unico rito.
[4] Al tempo di Gesù l’espressione “figlio di Davide”, esprimeva una forma popolare di speranza messianica. Non solo, e non tanto, una discendenza di Davide, quanto un progetto di restaurazione religiosa e politica. Illuminante è il dibattito che leggiamo in Mt 22, 41-45. Gesù non nega la sua discendenza davidica, ma nega l’importanza che gli scribi vi attribuivano.
[5] Il termine greco magoi “magi" (latino magi da cui il termine italiano) ha una vasta gamma di significati: sacerdoti persiani, detentori di poteri soprannaturali, astrologi. La menzione della “stella” mostra che essi sono esperti in astrologia. La tradizione cristiana li ha identificati con sovrani provenienti dall’Oriente (ciò lascia pensare alla Mesopotamia, la patria dell’astrologia del mondo greco) e ha fissato il loro numero a tre, ispirandosi ai doni da essi offerti. L’oro, l’incenso e la mirra riecheggiano il Sal 72,10; Is 60,6.
[6] E’ impossibile identificare un particolare corpo celeste con la stella di Betlemme, ogni sforzo al riguardo sarebbe futile. Essa, infatti, ha un valore religioso, essendo nella tradizione giudaica un segno messianico. La stella nell’antico Oriente era il segno di un dio e, di conseguenza, di un re divinizzato. Il lettore giudeo riconoscerebbe in essa la stella che spunta da Giacobbe (Num 24,17), cioè il re Davide.
[7] Betlemme è il luogo di nascita di Davide e il luogo di origine del futuro re Messia. A conferma di ciò Matteo cita Michea 5, 1-3.
[8] Il testo si riferisce alla distruzione della monarchia dell’Israele settentrionale da parte degli Assiri nel 721 a.C.
[9] Il deserto della Giudea è la scarpata scoscesa che dalla catena montagnosa centrale delle regione scende giù fino alla vallata del Giordano e del Mar Morto. Il battesimo nelle acque del Giordano indica che Giovanni predicava nelle vicinanze del fiume, molto probabilmente non lontano da Gerico. Questo è situato a pochi chilometri di distanza da Qumran, e le relazioni di Giovanni con la setta di Qumran offrono lo spunto per interessanti considerazioni.
[10] Giuseppe Flavio scrive che i capi dell’insurrezione giudaica tentarono più volte di ripetere i miracoli dell’uscita dall’Egitto: “Uomini ingannatori e impostori, che sotto apparenza di ispirazione divina operavano innovazioni e sconvolgimenti, inducevano la folla ad atti di fanatismo religioso e la conducevano fuori nel deserto, come se colà Dio avesse mostrato loro i segni della libertà imminente”. Lo steso autore testimonia anche di speranze legate al tempio e ai suoi dintorni: “Un certo falso profeta in quella giornata aveva proclamato alla gente della città che Dio comandava di salire al tempio per ricevere il segno della salvezza”. Infine, tra le vicende dell’insurrezione Flavio ricorda un oracolo ambiguo, che circolava tra la folla, secondo il quale “in quel giorno uno del loro paese avrebbe ricevuto la sovranità su tutto il mondo”. Queste annotazioni di Giuseppe Flavio testimoniano in modo eloquente la febbre messianica del tempo di Gesù e del tempo di Matteo. Il problema era scottante, la comunità cristiana palestinese degli anni 60-70 era fortemente interpellata: che posizione prendere di fronte ai movimenti rivoluzionari, di stampo zelota, che andavano formandosi? La comunità, riflettendo sulla storia di Gesù, rifiutò decisamente questa falsa strada messianica.
[11] Matteo nota che Cafarnao si trova nel vecchio territorio delle tribù di Zabulon e Neftali. Queste due province d’Israele furono le prime ad essere travolte dall’imperatore d’Assiria, Tiglat-Pileser III nel 733 a.C. Parte della popolazione di questi territori fu mandata in esilio. In tale occasione il profeta Isaia aveva pronunciato un oracolo proprio a favore di quelle terre del nord calpestate. Dice dunque il profeta che in futuro Dio avrebbe reso gloriosa la terra di Zabulon e di Neftali (cioè Galilea) che ora era umiliata; allora “il popolo che camminava nelle tenebre” avrebbe visto “una grande luce” e sperimentato una grande e indicibile “gioia” e Matteo vede nella proclamazione del regno di Dio fatta da Gesù in Galilea, il compimento di questa profezia.
[12] Gli scribi erano teologi e moralisti, interpreti della legge e custodi della tradizione. Il popolo ricorreva ad essi per scrutare le Scritture e per sapere come viverle. Loro ambizione era la fedeltà, ma avevano il torto di ritenersi fedeli alla legge ripetendola e frantumandola in una casistica. Così facendo mortificavano la legge, fissandola entro schemi incapaci di aprirsi alla perenne novità di Dio e della storia e disperdendola in una miriade di precetti, che ne rendevano intollerabile l’osservanza e la privavano del suo centro.
[13] Il termine “fariseo” significa “separato”. Fariseo è colui che si separa dal mondo e dalle sue suggestioni, dal popolo che spesso ne è vittima, e si distingue per il suo rigido attaccamento alla tradizione dei padri, per l’attenta osservanza della legge e per lo zelo. Tre sono le tendenze del fariseismo descritte dal vangelo.
- La tendenza al formalismo, cioè a una scrupolosa osservanza della pratiche cultuali e legali, con il rischio di perdere di vista il centro della legge che è la carità.
- La tendenza a concepire la salvezza in termini di merito, di conquista, anziché in termini di grazia, di dono gratuito di Dio.
- la tendenza a concepire Dio come un signore in cerca di una gloria per sé, e non invece come un padre che trova la sua compiacenza nella salvezza e nella liberazione dell’uomo.
[14] I miracoli di Gesù non erano solo o principalmente conferme esterne del suo messaggio. Un uomo può dimostrare di avere un potere più che naturale proprio con la stessa efficacia sia facendo camminare un albero che facendo camminare un paralitico. Per Gesù, invece, il miracolo era la strada per comprendere il suo messaggio. La parola e l’azione miracolosa, l’una accanto all’altra, erano l’espressione concreta dell’entrata del potere di Dio nel tempo. La descrizione del ministero di Gesù comprende sia la predicazione sia i miracoli.
[15] I pubblicani (o gabellieri) sono conosciuti nei vangeli come una tipica classe di disonesti, erano elencati a volte assieme ai peccatori (cioè giudei non praticanti). Le tasse romane erano raccolte da gabellieri che appaltavano il diritto di raccogliere le tasse e poi le estorcevano fino all’ultimo centesimo. Erano perciò considerati oppressori e anche traditori dei loro connazionali, perché collaboravano con il potere imperiale straniero.
[16] Tribunali: il plurale si riferisce al grande tribunale di Gerusalemme composto di 72 membri che esaminò Gesù e gli apostoli (At 3-5). Governatori: un nome generico per designare gli ufficiali provinciali romani. Re: si riferisce a re satelliti quali Erode Antipa e Erode Agrippa.
[17] E’ difficile spiegare le ragioni per cui Giovanni, tramite i suoi inviati, pose questo interrogativo. Basandoci sulle scarse informazioni che abbiamo sul suo conto, possiamo pensare che la forte accentuazione sul giudizio escatologico presente nella predicazione di Giovanni, secondo quanto ci riferisce il vangelo (v. 3, 1-10), non era presente nella predicazione di Gesù e ciò lasciava Giovanni un po’ perplesso. Il messianismo e l’escatologismo di Giovanni, quindi, erano stati corretti dalla predicazione di Gesù.
[18] Nel NT non si parla mai di scribi cristiani, ma si deve presumere che tra i membri della comunità cristiana primitiva ci fossero anche degli scribi. Numerosi commentatori pensano che “Matteo” stesso fosse uno di tali scribi.
[19] Per “vostra tradizione” qui si deve intendere la tradizione religiosa, cioè quel complesso di precetti, riti e consigli che gli uomini avevano via via escogitato per tradurre nel concreto i comandamenti di Dio. Uno sforzo giusto ma su cui bisogna vigilare, perché c’è sempre il rischio di confondere il secondario con l’essenziale, la legge con la sua interpretazione.
[20] La frase non significa le “potenze del male” ma il “potere della morte”, Sheòl infatti è la dimora biblica dei morti.
[21] La “chiave” era il simbolo del funzionario preposto al palazzo, la massima carica della corte israelita e Pietro viene pertanto dichiarato maestro di palazzo nella Chiesa.
[22] Questa frase significa potere decisionale che impone un obbligo, e sciogliere significa prendere una decisione che esime da un obbligo.
[23] Con la lettera Q viene indicata dai biblisti una fonte (Quelle in tedesco) contenente soprattutto i detti di Gesù, a cui avrebbero attinto Matteo e Luca.
[24] Il discorso non è “ecclesiastico” nel senso che esso parla della struttura della Chiesa, non vi è menzionato, infatti, alcun capo ufficiale della Chiesa. Il discorso indica il clima spirituale che dovrebbe regnare tra i discepoli per quanto concerne i loro rapporti vicendevoli.
[25] Il tipo di governo descritto fa pensare alle corti dei re ellenistici e dei re satelliti nell’impero romano quali Erode.
[26] Nell’antichità lo schiavo non era una persona umana dal punto di vista legale. Esso rappresentava il più basso rango sociale (come il fanciullo in 18, 2-4), quella categoria di persone che non erano in grado di imporre la loro volontà a nessuno, ma dovevano subire l’imposizione della volontà degli altri.
[27] I peccati degli uomini inducono un debito verso la giustizia divina, la pena di morte prevista dalle legge (cf. 1 Cor 15,56; 2 Cor 3,7.9; Gal 3,13; Rm 8,3-4). Per liberarli da questa schiavitù del peccato e della morte (Rm 3,24), Gesù pagherà il riscatto e cancellerà il debito versando il prezzo del suo sangue (1 Cor 6,20, 7,23; Gal 3,13; 4,5), cioè morendo al posto dei colpevoli, così come era stato annunciato dal “servo di Jahvè” (Is 53).
[28] Questo titolo ricorre anche nel duplicato della guarigione dei due ciechi di 9, 27-31; era un titolo messianico popolare: il Messia re era un discendente di Davide, quindi, un nuovo Davide.
[29] Il termine greco to hieron (tempio) designa tutto il complesso del tempio, cortili e fabbricati. Il commercio comunque poteva essere fatto soltanto nel cortile dei gentili (cioè dei pagani), quello più esterno, nel quale poteva entrare qualsiasi persona. Il commercio consisteva nella vendita degli animali per il sacrificio; sono menzionate esplicitamente le colombe che erano usate dai poveri in sostituzione degli animali più grossi richiesti dalle persone ricche.
[30] Giudizi analoghi sulla religiosità di Israele, espressa con l’immagine dell’albero, si trovano in numerosi profeti: Ger 8,13; Ez 17,24; Gl 1,7; Mi 7, 1-12.
[31] “E’ venuto a voi Giovanni nella via della giustizia”. Il termine giustizia indica la volontà di Dio e la fedeltà ad essa (Mt 3,15: …è convenente per noi che si compia ogni giustizia”).
[32] Sostenitori della dinastia di Erode, erano strettamente legati ai dominatori romani. Essi non si sottraevano al pagamento delle imposte, dando così un tacito riconoscimento al dominio straniero. Questa situazione determinò la nascita del movimento degli “zelati”, che si rifiutavano di pagare il tributo all’imperatore e non esitavano a ricorrere alle armi per la liberazione del territorio di Israele. I farisei, infine, rifiutavano l’aperta ribellione e pagavano le tasse per evitare il peggio.
[33] Discendenti del sommo sacerdote Zadok, i sadducei, erano il partito dell’aristocrazia sacerdotale e sembra che fossero anche i rappresentanti della classe ricca dei latifondisti. Erano ultraconservatori. In politica accettavano il governo romano della Palestina, e in teologia accettavano unicamente la legge scritta nei primi cinque libri della Bibbia (il Pentateuco) e rifiutavano la tradizione orale. La loro fine fu segnata dalla caduta del Tempio di Gerusalemme e del sacerdozio, nel 70 d.C.
[34] La legge del levirato (Dt 25, 5-6 e Gen 38,8) aveva lo scopo di assicurare la continuità della famiglia. Quando un uomo moriva senza figli, suo fratello era obbligato ad avere un figlio dalla vedova; il figlio avrebbe portato il nome del defunto.
[35] Questa imposizione si riferisce all’interpretazione troppo rigorosa della legge da parte degli scribi, al contrario della legge di Gesù, il cui insegnamento è un giogo agevole e un carico leggero (11,29).
[36] Sono astucci di cuoio, contenenti pergamene di alcuni testi biblici (Es 13, 1-16; Dt 6, 4-9; 11, 18-21). Durante la preghiera venivano legati al braccio sinistro e sulla fronte con strisce. Questo uso deriva dall’interpretazione letterale di Dt 6, 6-8. Il termine “filattéri” deriva dal verbo greco fjlassein (“custodire”), poiché questi astucci custodivano i testi della preghiera.
[37] Le “frange” (in ebraico zizit) sono i fiocchi legati con un cordone azzurro ai quattro angoli del mantello (vedi Numeri 15, 37-41) per ricordarsi della legge.
[38] L’espressione ricorre anche nel libro di Daniele (9,27; 11,31; 12,11), dove indica la profanazione del Tempio di Gerusalemme che compì il re siro-ellenistico Antioco IV Epifanie nel 167 a.C., introducendo nel tempio “l’idolo abominevole della devastazione”, cioè la statua di Zeus.
[39] Caifa era il sommo sacerdote in carica. Egli era genero dell’ex sommo sacerdote Anna, deposto nel 15 d. C., ma ancora influente (Lc 3,2; Gv 18, 13-14). I “sommi sacerdoti” sono coloro che hanno già esercitato questa funzione e quanti appartenevano all’alto clero, composto soprattutto dai sadducei. Gli “anziani” sono gli esponenti laici del sinedrio.
[40] Nell’antichità i profumi – derivati dall’olio – venivano collocati in piccoli vasi di alabastro per conservare interamente la sua fragranza. Ungere con unguenti profumati un ospite di riguardo era molto frequente. Ungere e prendersi cura dei cadaveri erano, presso gli Ebrei, le opere di carità più meritorie.
[41] Questa somma corrisponde al prezzo della vita di uno schiavo ucciso accidentalmente da un bue infuriato (Es 21,32). Ma la cifra rimanda anche ai trenta sicli d’argento versati al pastore nel racconto del profeta Zaccaria 11,12
[42] la ragione per cui è scelto l’aggettivo “molti” e non “tutti” è quella di mettere in rilievo l’efficacia di quel sacrificio mediante l’opposizione fra uno che dà la vita e quelli per cui la dà, che sono molti (da questo punto di vista, parlare di “molti” è più efficace che parlare di “tutti”, perché “tutti” possono anche essere pochi).
[43] “Il velo del tempio” può trattarsi del velo che separava l’atrio esterno del tempio stesso, o di quello che separava il “Santo” e il “Santo dei Santi”. Nel primo caso la morte di Gesù permette anche ai pagani – ai quali un’iscrizione proibiva l’ingresso nel tempio - l’accesso alla presenza di Dio. Nel secondo caso il sacrificio di Cristo segna la fine di ogni ostacolo tra l’uomo e Dio nell’antico culto (vedi Ebrei 10,20).
[44] Il terremoto nella poesia veterotestamentaria è un segno del passaggio di Jahwè


 

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