Isabel Allende.
Eva Luna racconta.
1990.
Trama.. “Raccontami una storia” dice Rolf Carlé. “Che
storia vuoi?” “Raccontami una storia che tu non abbia mai raccontato a
nessuno.” La coppia riposa dopo l'amore, ed Eva Luna comincia a narrare, come
Sherazade nelle Mille e una notte, ventitré racconti memorabili, storie di
passione e di violenza in cui corre un filo sottile e misterioso. Dopo la
maestosa lentezza, che abbiamo conosciuto nei romanzi di Isabel Allende, ecco
l'insorgere di un'imprevedibile e felice rapidità. Come se l'Autrice avesse
troppe storie da raccontare, troppi romanzi da scrivere, troppi personaggi da
animare e chiedesse soccorso a un suo personaggio, Eva Luna, anche lei narratrice,
e narratrice che ha il dono di suscitare la commozione del lettore.
L'Autrice.
Nata a Lima nel 1942, Isabel Allende è vissuta in Cile
fino al 1973 lavorando come giornalista. Dopo il golpe di Pinochet si è
stabilita in Venezuela: oggi vive in California. Notissima in tutta Europa, in
particolare per il best seller La casa degli spiriti (Feltrinelli 1983), con la
stessa casa editrice ha inoltre pubblicato: D'amore e ombra (1985), Eva Luna
(1988), Eva Luna racconta (1990), disponibili anche in edizione economica, Il
piano infinito (1992) e Paula (1995).
Il re ordinò al suo visir che ogni notte gli portasse una
vergine, e quando la notte era trascorsa dava ordine che la uccidessero. Così
fece per tre anni, e in città non v'era più donzella alcuna che potesse servire
per gli assalti di quel cavalcatore. Ma il visir aveva una figlia di grande
bellezza chiamata Sherazade... che era molto eloquente ed era un piacere
ascoltarla. (Le mille e una notte)
Ti toglievi la fascia dalla vita, ti strappavi i sandali,
gettavi in un angolo l'ampia gonna, era di cotone, mi sembra, e scioglievi il
nodo che ti stringeva i capelli in una coda. Avevi la pelle d'oca e ridevi.
Eravamo talmente vicini che non potevamo vederci, assorti entrambi in quel rito
urgente, avvolti nel calore e nell'odore che emanavamo insieme. Mi aprivo il
passo per le tue vie, le mie mani sulla tua vita protesa e le tue impazienti.
Sfuggivi, mi percorrevi, mi scalavi, mi avvolgevi con le tue gambe invincibili,
mi dicevi mille volte vieni con le labbra sulle mie. Nell'attimo estremo
avevamo un bagliore di completa solitudine, ciascuno perduto nel proprio abisso
rovente, ma subito risorgevamo al di là del fuoco per scoprirci abbracciati nel
disordine dei guanciali, sotto la zanzariera bianca. Ti scostavo i capelli per
guardarti negli occhi. Talvolta ti sedevi accanto a me con le gambe raccolte e
il tuo scialle di seta su una spalla, nel silenzio della notte che iniziava
appena. Così ti ricordo, in quiete. Tu pensi per parole, per te il linguaggio è
un filo inesauribile che tessi come se la vita si facesse narrandola. Io penso
per immagini congelate in una foto. Ma non impressa su una lastra, piuttosto
come disegnata a penna, è un ricordo minuzioso e perfetto, dai volumi morbidi e
dai colori caldi, rinascimentale, come un'intenzione colta su una carta porosa
o su una tela. E un momento profetico, è tutta la nostra esistenza, tutto il
vissuto e il da vivere, tutti i tempi simultanei, senza inizio né fine. Da una
certa distanza guardo quel disegno, in cui ci sono anch'io. Sono spettatore e
protagonista. Sono nella penombra, velato dalla foschia di un tendaggio
trasparente. So che sono io, ma sono anche questo stesso che osserva
dall'esterno. Conosco ciò che sente l'uomo dipinto su quel letto disfatto, in una
stanza dalle travi scure e dal soffitto da cattedrale, dove la scena appare
come il frammento di un'antica cerimonia. Sono lì con te e anche qui, solo, in
un altro tempo della coscienza. Nel quadro la coppia riposa dopo aver fatto
l'amore, la pelle di entrambi luccica, umida. L'uomo ha gli occhi chiusi, una
mano sul proprio petto e l'altra sulla coscia di lei, in un'intima complicità.
Per me questa visione è ricorrente e immutabile, nulla cambia, è sempre lo
stesso sorriso placido dell'uomo, lo stesso languore della donna, le stesse
pieghe delle lenzuola e gli stessi angoli bui della stanza, sempre la luce
della lampada sfiora i seni e gli zigomi di lei con la stessa angolatura, e
sempre lo scialle di seta e i capelli scuri cadono con identica delicatezza.
Ogni volta che penso a te ti vedo così, ci vedo così, fissati per sempre su
quella tela, invulnerabili alla corrosione della cattiva memoria. Posso
divagarmi a lungo su quella scena, fino a sentire che entro nello spazio del
quadro e non sono più colui che osserva, ma l'uomo che giace accanto a quella
donna. Allora si spezza la simmetrica quiete del dipinto e sento le nostre voci
vicinissime. “Raccontami una storia” ti dico. “Che storia vuoi?” “Raccontami
una storia che non hai mai raccontato a nessuno.”
Rolf Carlé.
DUE PAROLE.
Portava il nome di Belisa Crepuscolario, ma non per
certificato di battesimo o trovata di sua madre, bensì perché lei stessa
l'aveva cercato fino a scoprirlo e a indossarlo Il suo mestiere era vendere
parole. Percorreva il paese dalle contrade più elevate e fredde alle coste
torride, installandosi nelle fiere e nei mercati, dove montava quattro pali con
un tendone, sotto il quale si proteggeva dalla pioggia e dal sole per servire i
clienti. Non aveva bisogno di decantare la sua mercanzia, perché dal tanto
girovagare la conoscevano tutti. C'era chi l'aspettava da un anno all'altro, e
quando si presentava in paese col suo fardello sottobraccio si metteva in coda
davanti alla sua bancarella. Vendeva a prezzi onesti. Per cinque centesimi
forniva versi a memoria, per sette migliorava la qualità dei sogni, per nove
scriveva lettere da innamorati, per dodici inventava insulti per nemici
irriconciliabili. Vendeva anche storie, ma non storie di fantasia, lunghe
storie vere che recitava d'un fiato, senza saltare nulla. Così portava le
notizie da un paese all'altro. La gente la pagava per aggiungere una o due
righe: è nato un bimbo, è morto il tale, i nostri figli si sono sposati, son
bruciati i raccolti. In ogni località le si radunava attorno una piccola folla
per ascoltarla quando cominciava a parlare, e così venivano a sapere della vita
degli altri, dei parenti lontani, delle vicende della Guerra Civile. A chi
acquistava per almeno cinquanta centesimi regalava una parola segreta per cacciare
la malinconia. Non la stessa per tutti, naturalmente, perché sarebbe stato un
inganno collettivo. Ciascuno riceveva la sua con la certezza che nessun altro
l'avrebbe adoperata per quello scopo nell'universo e dintorni. Belisa
Crepuscolario era nata in una famiglia così povera da non possedere neppure
nomi per chiamare i figli. Venne al mondo e crebbe nella regione più
inospitale, dove in certi anni le piogge si tramutano in valanghe d'acqua che
si portan via tutto, e in altri non cade una goccia dal cielo, il sole
s'ingigantisce fino a colmare l'orizzonte intero e il mondo si trasforma in un
deserto. Fino ai dodici anni non ebbe altra occupazione e virtù che
sopravvivere alla fame e alla fatica di secoli. Durante un'interminabile
siccità le toccò seppellire quattro fratelli minori, e quando capì che veniva
il suo turno decise di marciare per le pianure diretta al mare, per vedere se
nel viaggio riusciva a beffare la morte. La terra era erosa, spaccata in
profonde crepe, disseminata di pietre, fossili d'alberi e d'arbusti spinosi,
scheletri d'animali sbiancati dalla calura. Di tanto in tanto s'imbatteva in
famiglie che come lei andavano a sud, seguendo il miraggio dell'acqua. Alcuni
avevano iniziato la marcia portandosi i loro averi in spalla o su un carretto,
ma riuscivano appena a muovere le proprie ossa e poco dopo dovevano abbandonare
tutto. Si trascinavano penosamente, la pelle fatta squame di lucertola e gli
occhi bruciati dal riverbero della luce. Belisa li salutava con un gesto
passando, ma non si fermava perché non poteva sprecare le proprie forze in
esercizi di compassione. Molti caddero lungo il cammino, ma lei era talmente
caparbia che riuscì ad attraversare l'inferno e ad arrivare finalmente alle
prime sorgenti, sottili fili d'acqua quasi invisibili che alimentavano una
vegetazione rachitica, e che più avanti si tramutavano in ruscelli e stagni.
Belisa Crepuscolario salvò la vita e per di più scoprì casualmente la
scrittura. Giunta in un villaggio nelle vicinanze della costa, il vento le posò
ai piedi una pagina di giornale. Raccolse quel foglio ingiallito e friabile e
rimase ad osservarlo a lungo senza indovinarne l'uso, finché la curiosità poté
più della timidezza. Si avvicinò a un uomo che lavava un cavallo nella stessa
pozza torbida in cui aveva saziato la sua sete. “Che cos'è questo?” chiese. “La
pagina sportiva del giornale” replicò l'uomo senza dimostrarsi sorpreso della
sua ignoranza. La risposta lasciò attonita la ragazza, che però non volle
sembrar sfacciata e si limitò a indagare il significato delle zampette di mosca
tracciate sulla carta. “Sono parole, bimba. Qui dice che Fulgencio Barba ha
messo k.o. il Negro Tiznao al terzo round.” Quel giorno Belisa Crepuscolario
apprese che le parole vagano libere senza padrone, e chiunque con un po' di
abilità può impadronirsene per farne commercio. Considerò la propria situazione
e concluse che a parte prostituirsi o impiegarsi come domestica nelle cucine
dei ricchi erano pochi i mestieri che poteva fare. Vendere parole le parve
un'alternativa decente. A partire da quel momento esercitò questa professione,
e mai s'interessò ad altre. All'inizio offriva la sua merce senza sospettare
che le parole si potessero scrivere anche fuori dai giornali. Quando lo seppe
calcolò le infinite proiezioni della sua attività, con i suoi risparmi pagò
venti pesos a un prete affinché le insegnasse a leggere e scrivere e con i tre
avanzati si comprò un dizionario. Lo esaminò dall'A alla Z e poi lo gettò in
mare, perché non era sua intenzione truffare i clienti con parole inscatolate.
Diversi anni dopo, una mattina d'agosto, Belisa
Crepuscolario si trovava nel centro di una piazza, seduta sotto il suo tendone
a vendere argomentazioni giuridiche a un vecchio che sollecitava la pensione da
diciassette anni. Era giorno di mercato e attorno c'era un gran tramestio. D'un
tratto si sentirono urla e cavalli al galoppo; alzò gli occhi dalla scrittura e
vide prima una nuvola di polvere e subito dopo un gruppo di cavalieri che
irruppe nella piazza. Erano gli uomini del Colonnello, comandati dal Mulatto,
un gigante famoso in tutta la zona per la sveltezza del suo coltello e la
lealtà verso il suo capo. Entrambi, il Colonnello e il Mulatto, avevano passato
la vita impegnati nella Guerra Civile, e i loro nomi erano irremissibilmente
legati al tumulto e alla calamità. I guerrieri entrarono in paese come una
mandria impazzita, avvolti dal frastuono, fradici di sudore, spargendo sui loro
passi un terrore da uragano. Fuggirono svolazzando le galline, scapparono
all'impazzata i cani, corsero via le donne con i figli e nel mercato non rimase
anima viva tranne Belisa Crepuscolario, che non aveva mai visto il Mulatto e
pertanto si meravigliò che questi si rivolgesse a lei. “Proprio te cerco” le
gridò indicandola con la frusta arrotolata, e prima che avesse finito di dirlo
due uomini piombarono sulla donna abbattendo la tenda e fracassando il
calamaio, la legarono mani e piedi e la gettarono di traverso come un saccone da
marinaio sulla groppa del cavallo del Mulatto. Partirono al galoppo verso le
colline. Qualche ora dopo, quando Belisa Crepuscolario si trovava in punto di
morte con il cuore mutato in sabbia per gli scossoni del cavallo, sentì che si
fermavano e quattro mani possenti la posarono a terra. Cercò di mettersi in
piedi e di sollevare la testa con dignità, ma le forze le mancarono e si
abbatté con un sospiro, sprofondando in un sonno offuscato. Si svegliò diverse
ore dopo con il mormorio della notte nei campi, ma non ebbe il tempo di
decifrare quei suoni perché aprendo gli occhi si vide dinanzi lo sguardo
impaziente del Mulatto, inginocchiato al suo fianco. “Finalmente ti sei
svegliata, donna” disse porgendole la borraccia affinché bevesse un sorso di
acquavite con polvere da sparo e finisse di riprendere i sensi. Volle sapere la
ragione di tale maltrattamento, e lui le spiegò che il Colonnello aveva bisogno
dei suoi servigi. Le permise di bagnarsi la faccia e poi la portò a
un'estremità dell'accampamento, dove l'uomo più temuto del paese riposava su
un'amaca tesa fra due alberi. Non poté vedergli il volto, coperto dall'ombra
incerta del fogliame e dall'ombra incancellabile di molti anni di vita da
bandito, ma immaginò che dovesse avere un'espressione dura se il suo gigantesco
aiutante gli si rivolgeva con tanta umiltà. La sorprese la sua voce, soave e
ben modulata come quella di un professore. “Sei quella che vende parole?”
chiese. “Per servirti” balbettò lei, scrutando nella penombra per vederlo
meglio. Il Colonnello si alzò in piedi e la luce della torcia impugnata dal
Mulatto lo colpì di fronte. La donna vide la sua pelle scura e i suoi fieri
occhi da puma e seppe all'istante di trovarsi di fronte all'uomo più solo di
questo mondo. “Voglio diventare Presidente” disse lui. Era stanco di vagare per
quella terra maledetta in guerre inutili e in sconfitte che nessun sotterfugio
poteva trasformare in vittorie. Da molti anni dormiva alle intemperie,
straziato dalle zanzare, cibandosi di iguana e zuppa di serpente, ma questi
inconvenienti minori non costituivano ragione sufficiente per mutare destino.
Ciò che in realtà lo infastidiva era il terrore negli occhi altrui. Desiderava
fare il suo ingresso nei villaggi sotto archi di trionfo, tra bandiere
variopinte e fiori, desiderava che lo applaudissero e gli recassero in dono
uova fresche e pane appena sfornato. Era stanco di vedere che al suo passaggio
gli uomini si davano alla fuga, le donne abortivano di spavento e i bambini
tremavano, perciò aveva deciso di diventare Presidente. Il Mulatto gli aveva
suggerito di marciare sulla capitale e di entrare al galoppo nel Palazzo per
impadronirsi del governo, come avevano preso tante altre cose senza chiedere il
permesso, ma al Colonnello non interessava diventare un ulteriore tiranno, di
questi personaggi ne avevano già avuti abbastanza da quelle parti, e per di più
in quella maniera non avrebbe ottenuto l'affetto della gente. La sua idea
consisteva nell'essere eletto per votazione popolare alle elezioni di dicembre.
“Perciò devo saper parlare come un candidato. Puoi vendermi le parole per un
discorso?” chiese il Colonnello a Belisa Crepuscolario. Lei aveva accettato
molti incarichi, ma nessuno come quello; tuttavia non poté rifiutarsi, temendo
che il Mulatto le ficcasse una pallottola tra gli occhi, o peggio ancora che il
Colonnello si mettesse a piangere. D'altro canto sentì l'impulso di aiutarlo,
perché percepì un palpitante calore sulla sua pelle, un desiderio possente di
toccare quell'uomo, di percorrerlo con le sue mani, di stringerlo fra le
braccia. Per tutta la notte e buona parte della giornata seguente Belisa
Crepuscolario cercò nel suo repertorio le parole appropriate per un discorso
presidenziale, sorvegliata da vicino dal Mulatto, che non staccava gli occhi
dalle sue solide gambe da camminatrice e dai suoi seni verginali. Scartò le
parole aspre e secche, quelle troppo fiorite, quelle ormai stinte dall'abuso,
quelle che offrivano promesse improbabili, quelle carenti di verità e quelle
confuse, per tenere solo quelle capaci di toccare con certezza il pensiero
degli uomini e l'intuizione delle donne. Facendo uso delle conoscenze
acquistate dal curato per venti pesos, scrisse il discorso su un foglio di
carta e poi fece segno al Mulatto di sciogliere la corda con cui le aveva legato
le caviglie a un albero. La condussero di nuovo dal Colonnello, e al vederlo
riprovò la stessa palpitante ansietà del primo incontro. Gli porse il foglio e
aspettò, mentre lui lo guardava tenendolo con la punta delle dita. “Che cazzo
dice qui?.” chiese infine. “Non sai leggere?” “So far la guerra, questo so io”
replicò lui. Lei lesse ad alta voce il discorso. Lo lesse tre volte, affinché
il suo cliente potesse scolpirselo nella memoria. Quando ebbe finito vide
l'emozione sul volto degli uomini della truppa che si erano radunati per
ascoltarla, e notò che gli occhi gialli del Colonnello brillavano d'entusiasmo,
sicuro che con quelle parole la poltrona presidenziale sarebbe stata sua. “Se
dopo averla sentita tre volte i ragazzi stanno ancora lì a bocca aperta, vuol
dire che questa roba funziona, Colonnello, approvo il Mulatto. “Quanto ti debbo
per il tuo lavoro, donna?” chiese il capo. “Un peso, Colonnello.” “Non è caro”
disse lui aprendo la borsa che portava appesa al cinturone con i resti
dell'ultimo bottino “Per giunta hai diritto a un omaggio. Ti spettano due
parole segrete, disse Belisa Crepuscolario. “Come sarebbe a dire?” Procedette a
spiegargli che per ogni cinquanta centesimi spesi da un cliente, lei gli faceva
omaggio di una parola di uso esclusivo. Il capo si strinse nelle spalle, perché
non gli interessava per niente quell'offerta, ma non volle essere scortese con
chi l'aveva servito tanto bene. Lei si avvicinò senza fretta allo sgabello di
cuoio su cui lui stava seduto, e si chinò per consegnargli il suo regalo.
Allora l'uomo sentì l'odore di animale montano che esalava da quella donna, il
calore da incendio che irradiavano i suoi fianchi, la carezza terribile dei
suoi capelli, l'alito di verbena che gli sussurrava all'orecchio le due parole segrete
alle quali aveva diritto. Sono tue, Colonnello” disse lei ritirandosi. “Le puoi
usare quanto vuoi.” Il Mulatto accompagnò Belisa fino al limitare del sentiero,
senza cessar di guardarla con occhi supplici da cane sperduto, ma quando tese
la mano per toccarla lei lo fermò con un fiotto di parole inventate che ebbero
la virtù di fugargli il desiderio, perché credette si trattasse di qualche
maledizione irrevocabile.
Nei mesi di settembre, ottobre e novembre il Colonnello
pronunciò il suo discorso tante volte che se non fosse stato fatto di parole
fulgenti e durevoli l'uso l'avrebbe ridotto in cenere. Percorse il paese in
ogni direzione, entrando nelle città con aria trionfale e fermandosi anche nei
villaggi più dimenticati, laddove solo la traccia delle immondezze indicava la
presenza umana, per convincere gli elettori a votare per lui. Mentre parlava su
una pedana al centro della piazza, il Mulatto e i suoi uomini distribuivano
caramelle e pittavano il suo nome sui muri con talco dorato, ma nessuno prestava
attenzione a quelle trovate da bottegaio, perché erano abbagliati dalla
chiarezza dei suoi propositi e dalla lucidità poetica dei suoi argomenti,
contagiati dal suo desiderio tremendo di correggere gli errori della storia, e
allegri per la prima volta in vita loro. Terminata l'arringa del candidato, la
truppa lanciava pistolettate al cielo e accendeva petardi, e quando infine si
ritiravano restava dietro di loro una stella di speranza che perdurava
nell'aria per molti giorni, come il magnifico ricordo di una cometa. Presto il
Colonnello divenne l'uomo politico più popolare. Era un fenomeno mai visto,
quell'uomo sorto dalla guerra civile, pieno di cicatrici e che parlava come un
cattedratico, il cui prestigio si diffondeva per il territorio nazionale commuovendo
il cuore della patria. La stampa si occupò di lui. Vennero da lontano i
giornalisti per intervistarlo e ripetere le sue frasi, e così crebbe il numero
dei suoi seguaci e dei suoi nemici. “Andiamo bene, Colonnello” disse il Mulatto
dopo dodici settimane di successi. Ma il candidato non lo ascoltò. Stava
ripetendo le sue due parole segrete, come faceva sempre più di frequente. Le
diceva quando lo inteneriva la nostalgia, le mormorava addormentato, le portava
con sé sul suo cavallo, le pensava prima di pronunciare il suo celebre discorso
e si sorprendeva ad assaporarle senza accorgersene. E in ogni occasione in cui
quelle due parole gli venivano alla mente, evocava la presenza di Belisa
Crepuscolario e gli si sconvolgevano i sensi al ricordo dell'odore montano, del
calore da incendio, della carezza terribile e dell'alito di verbena, finché
cominciò a vagare come un sonnambulo e i suoi stessi uomini compresero che
avrebbe finito di vivere prima di raggiungere la poltrona presidenziale. “Che
cosa ti succede, Colonnello?” gli chiese tante volte il Mulatto, fino a che un
giorno il capo non ne poté più e gli confessò che la responsabilità del suo
stato d'animo erano quelle due parole che portava inchiodate nel ventre.
“Dimmele, che vediamo se perdono il potere” gli chiese il fedele aiutante. “Non
te le dirò, sono solo mie” replicò il Colonnello. Stanco di vedere il suo capo
declinare come un condannato a morte, il Mulatto si mise il fucile in spalla e
partì in cerca di Belisa Crepuscolario. Seguì le sue orme per tutta quella
vasta geografia fino a trovarla in un paese del sud installata sotto il tendone
del suo lavoro, narrando il suo rosario di notizie. Le si piantò davanti a
gambe spalancate e l'arma in pugno. “Tu vieni con me” ordinò. Lei lo stava
aspettando. Prese il calamaio, piegò la tenda della sua bancarella, si gettò lo
scialle addosso e in silenzio scalò l'anca del cavallo. Non si scambiarono un
gesto per tutto il cammino, perché nel Mulatto la voglia di lei si era mutata
in rabbia, e solo la paura ispiratagli dalla sua lingua gli impediva di
massacrarla a frustate. Né era disposto a comunicarle che il Colonnello s'era
inebetito, e che quanto non avevano ottenuto in tanti anni di battaglie era
stato provocato da un incantesimo sussurrato all'orecchio. Tre giorni dopo
raggiunsero l'accampamento e subito condusse la sua prigioniera dal candidato,
al cospetto di tutta la truppa. “Ti ho portato questa strega perché tu le
restituisca le sue parole, Colonnello, e perché lei ti renda il vigore” disse
puntando la canna del fucile alla nuca della donna. Il Colonnello e Belisa
Crepuscolario si guardarono a lungo, misurandosi a distanza. Gli uomini
compresero allora che ormai il loro capo non poteva più liberarsi dalla fattura
di quelle due parole indemoniate, perché tutti poterono vedere gli occhi
carnivori del puma farsi mansueti quando lei si fece avanti e gli prese la
mano.
BIMBA PERVERSA.
A undici anni Elena Mejìas era ancora un cucciolo
denutrito, con la pelle opaca dei bambini solitari, la bocca che mostrava
qualche vuoto di dentizione tardiva, i capelli color topo e uno scheletro
visibile che pareva troppo contundente per la sua taglia e minacciava di sbucar
fuori dalle ginocchia e dai gomiti. Nulla nel suo aspetto tradiva i suoi sogni
torridi o annunciava la creatura appassionata che in realtà era. Passava
inavvertita tra i mobili ordinari e le tende stinte della pensione di sua
madre. Era solo una gatta malinconica che giocava tra i gerani polverosi e le
grandi felci del patio o transitava tra il focolare della cucina e i tavoli
della sala da pranzo con i piatti della cena. Raramente un cliente badava a
lei, e se lo faceva era solo per ordinarle di spruzzare d'insetticida i nidi
degli scarafaggi o di riempire il serbatoio del bagno, quando la scricchiolante
carcassa della pompa rifiutava di far salire l'acqua fino al secondo piano. Sua
madre, stremata dal caldo e dal lavoro di casa, non aveva animo per tenerezze
né tempo per osservare la figlia, per cui non seppe quando Elena cominciò a
tramutarsi in un essere diverso. Durante i primi anni di vita era stata una
bimba silenziosa e timida, sempre intenta a giochi misteriosi, che parlava da
sola negli angoli e si succhiava il dito. Usciva solo per andare a scuola o al
mercato, non sembrava interessarsi al tumultuoso gregge di bambini della sua
età che giocavano in strada. La trasformazione di Elena Mejìas coincise con
l'arrivo di Juan José Bernal, l'Usignolo, come si era definito da sé e come
annunciava un manifesto che appese alla parete della sua stanza. I pensionanti
erano per lo più studenti e impiegati di qualche oscura dipendenza della
pubblica amministrazione. Signore e signori ammodo, come diceva sua madre, la
quale si vantava di non accettare chicchessia sotto il suo tetto, solo persone
di merito, con un'occupazione conosciuta, costumi morigerati, solvenza
sufficiente a pagare il mese anticipato e predisposizione ad accettare le
regole della pensione, più simili a quelle di un seminario che a quelle di un
albergo. Una vedova deve preoccuparsi della propria reputazione e farsi
rispettare, non voglio che la mia pensione diventi una tana di vagabondi e
pervertiti, ripeteva sovente la madre, affinché nessuno, e meno che mai Elena
potesse dimenticarlo. Uno dei compiti della bambina era di sorvegliare gli
ospiti e mantenere informata la madre di qualsiasi indirizzo sospetto.
Quest'opera di spionaggio aveva accentuato la condizione incorporea della
ragazzina, che sfumava tra le ombre delle stanze, esisteva in silenzio e
compariva all'improvviso, come fosse di ritorno da una dimensione invisibile.
Madre e figlia lavoravano insieme ai molteplici compiti della pensione,
ciascuna immersa nella sua tacita routine, senza necessità di comunicare. In
realtà si parlavano poco, e quando lo facevano, nel momento libero dell'ora
della siesta, discorrevano dei clienti. A volte Elena tentava di addobbare le
grigie vite di quegli uomini e donne transitori, che passavano per la casa
senza lasciar ricordo, attribuendo loro qualche evento straordinario,
colorandoli col dono di qualche amore clandestino o di una tragedia, ma sua
madre possedeva un istinto sicuro nello smascherare le sue fantasie. Nella
stessa maniera scopriva se sua figlia le nascondeva qualche informazione. Aveva
un implacabile senso pratico e una nozione chiarissima di quanto accadeva sotto
il suo tetto, sapeva con esattezza cosa faceva ciascuno a qualsiasi ora del
giorno o della notte, quanto zucchero era rimasto in dispensa, per chi suonava
il telefono o dove erano rimaste le forbici. Era stata una donna allegra e anche
carina, le sue vesti cupe contenevano appena l'impazienza di un corpo ancora
giovane, ma erano tanti anni che si occupava di dettagli meschini che le si era
inaridita la freschezza dello spirito e il gusto della vita. Tuttavia, quando
si presentò Juan José Bernal a chiedere una stanza, tutto cambiò per lei e
anche per Elena. La madre, sedotta dalla modulazione pretenziosa dell'Usignolo
e dal suggerimento di celebrità esposto nel manifesto, contraddisse le proprie
regole e lo accettò nella pensione, benché non calzasse per nulla con la sua
immagine del cliente ideale. Bernal disse che cantava di notte e doveva
pertanto riposare durante il giorno, che per il momento non aveva occupazione,
quindi non poteva pagare il mese anticipato, e che era molto scrupoloso con le
sue abitudini di alimentazione e d'igiene, era vegetariano e aveva bisogno di
due docce al giorno. Sorpresa, Elena vide sua madre registrare senza commenti
il nuovo ospite nel libro mastro e condurlo alla stanza trascinando a fatica la
sua pesante valigia, mentre egli portava la custodia con la chitarra e il tubo
di cartone in cui tesaurizzava il suo manifesto. Dissimulandosi contro la
parete, la bimba li seguì su per la scala, e notò l'espressione intensa del
nuovo ospite alla vista del grembiule di percalle appiccicato alle natiche
umide di sudore di sua madre. Entrando nella stanza Elena premette
l'interruttore e le grandi pale del ventilatore al soffitto presero a girare
con un sibilo di ferro ossidato. Da quell'istante cambiarono le abitudini della
casa. C'era più da fare, perché Bernal dormiva nelle ore in cui gli altri erano
usciti per andare al lavoro, occupava il bagno per ore, consumava una quantità
spaventosa di cibi da coniglio che dovevano essere cucinati separatamente,
usava il telefono ad ogni istante e scaldava il ferro per stirare le sue
camicie da divo senza che la padrona della pensione esigesse da lui contributi
straordinari. Elena tornava da scuola con il sole della siesta, quando il
giorno languiva sotto una terribile luce bianca, ma a quell'ora lui era ancora
nel primo sonno. Per ordine di sua madre si toglieva le scarpe, per non violare
il riposo artificiale in cui pareva sospesa la casa. La bambina si rese conto
che la madre cambiava giorno per giorno. I segni furono percettibili per lei
sin dall'inizio, molto prima che gli altri abitanti della pensione
cominciassero a bisbigliare alle sue spalle. Prima fu l'odore, un aroma
persistente di fiori, che emanava dalla donna e restava a fluttuare nell'ambito
delle stanze in cui passava. Elena conosceva ogni angolo della casa e la sua
lunga assuefazione allo spionaggio le permise di scoprire il flacone di profumo
dietro i pacchi di riso e le scatole di conserva in dispensa Poi notò la linea
tracciata con una matita scura sulle palpebre, il tocco di rossetto sulle
labbra, la biancheria intima nuova, il sorriso immediato quando Bernal scendeva
finalmente al tramonto, fresco uscito dal bagno, con i capelli ancora umidi, e
sedeva in cucina a divorare i suoi strani intingoli da fachiro. La madre gli si
sedeva di fronte e lui le raccontava episodi della sua vita d'artista,
celebrando ognuna delle proprie traversie con una forte risata che gli nasceva
nel ventre. Nelle prime settimane Elena provò odio per quell'uomo che occupava
tutto lo spazio della casa e tutta l'attenzione di sua madre. Le ripugnavano i
suoi capelli unti di brillantina, le unghie laccate, la sua mania di frugarsi i
denti con un legnetto, la sua pedanteria e la sua impudenza nel farsi servire.
Si chiedeva cosa vedesse sua madre in lui, era solo un avventuriero dozzinale,
un cantante di miseri locali di cui nessuno aveva sentito parlare, forse un
ruffiano, come aveva suggerito in un sussurro la signorina Sofia, una delle
pensionanti più anziane. Ma allora, un caldo pomeriggio di domenica, quando non
c'era nulla da fare e le ore parevano prigioniere fra le pareti della casa,
Juan José Bernal apparve nel patio con la sua chitarra, si installò su una
panca sotto il fico e cominciò a percuotere le corde. Il suono attirò tutti gli
ospiti, che si andarono affacciando ad uno ad uno, prima con una certa
timidezza, senza capire la ragione di tanto baccano, ma poi afferrarono
entusiasmati le sedie della sala da pranzo e si accomodarono attorno
all'Usignolo. L'uomo aveva una voce volgare, ma era intonato e cantava con
grazia. Conosceva tutti i vecchi boleros e le rancheras del repertorio
messicano e qualche canzone guerrigliera disseminata di parolacce e bestemmie,
che fecero arrossire le donne. Per la prima volta da quando la bimba poteva ricordare
ci fu nella pensione un'atmosfera di festa. Quando si fece buio accesero due
lampade a paraffina per appenderle agli alberi e portarono birre e la bottiglia
di rum riservata a curare i raffreddori. Elena servì i bicchieri tremando,
sentiva le parole di disperazione di quelle canzoni e i lamenti della chitarra
con ogni fibra del corpo, come una febbre. Sua madre seguiva il ritmo con un
piede. Di colpo si alzò, la prese per le mani ed entrambe iniziarono a ballare,
seguite immediatamente dagli altri, compresa la signorina Sofia, tutta moine e
risatine nervose. A lungo Elena si mosse seguendo la cadenza della voce di
Bernal, stretta contro il corpo della madre, aspirando il suo nuovo odore di
fiori, completamente felice. Ma presto notò che la respingeva dolcemente,
separandosi per continuare da sola. Con gli occhi chiusi e la testa riversa
all'indietro, la donna ondeggiava come un lenzuolo che si asciuga al vento.
Elena si ritirò e pian piano anche gli altri tornarono alle loro sedie,
lasciando la padrona della pensione sola al centro del patio, persa nella sua
danza. Da quella sera Elena vide Bernal con occhi nuovi. Dimenticò che
detestava la sua brillantina, il suo stuzzicadenti e la sua arroganza, e quando
lo vedeva passare o lo sentiva parlare ricordava le canzoni di quella festa
improvvisata e tornava a sentire l'ardore sulla pelle e la confusione
nell'anima, una febbre che non sapeva tradurre in parole. Lo osservava da
lontano, furtivamente, e andò così scoprendo quello che prima non aveva saputo percepire,
le sue spalle, il suo collo ampio e forte, la curva sensuale delle sue labbra
spesse, i suoi denti perfetti, l'eleganza delle sue mani, lunghe e sottili. La
prese un desiderio insopportabile di avvicinarsi a lui per seppellire il volto
nel suo petto bruno, ascoltare la vibrazione dell'aria nei suoi polmoni e il
rumore del suo cuore, aspirare il suo odore, un odore che sapeva secco e
penetrante, come di cuoio tagliato o di tabacco. Si immaginava di giocare con i
suoi capelli, di palpargli i muscoli della schiena e delle gambe, di scoprire
la forma dei suoi piedi, mutata in fumo per entrargli nella gola e occuparlo
tutto. Ma se l'uomo alzava lo sguardo e incontrava il suo, Elena correva a
nascondersi nel cespuglio più appartato del patio, tremando. Bernal si era
impadronito di tutti i suoi pensieri, la bimba non poteva più sopportare
l'immobilità del tempo lontano da lui. A scuola si muoveva come in un incubo,
cieca e sorda a tutto salvo che alle immagini interiori, dove vedeva solo lui.
Cosa stava facendo in quel momento? Forse dormiva bocconi sul letto con le
persiane chiuse, la stanza in penombra, l'aria afosa agitata dalle pale del
ventilatore, un sentiero di sudore lungo la colonna vertebrale, la faccia
affondata nel cuscino. Al primo rintocco della campanella correva a casa,
pregando che non si fosse ancora svegliato e lei riuscisse a lavarsi e a
mettersi un vestito pulito e a sedersi ad aspettarlo in cucina, fingendo di
fare i compiti perché la madre non la sommergesse di lavori domestici. E poi, quando
lo sentiva uscire fischiettando dal bagno, agonizzava d'impazienza e di paura,
sicura che sarebbe morta di gioia se lui l'avesse toccata o soltanto le avesse
parlato, ansiosa che questo accadesse, ma nel contempo pronta a sparire tra i
mobili, perché non poteva vivere senza di lui ma neppure poteva resistere alla
sua ardente presenza. Occultamente lo seguiva dovunque, lo serviva in ogni
minima cosa, indovinava i suoi desideri per offrirgli ciò di cui aveva bisogno
prima che lo chiedesse, ma si muoveva sempre come un'ombra, per non rivelare la
propria esistenza. Di notte Elena non riusciva a dormire, perché lui non era in
casa. Abbandonava l'amaca e usciva come un fantasma a vagare per il primo
piano, cercando il coraggio di entrare finalmente, in perfetto silenzio, nella
stanza di Bernal. Si chiudeva la porta alle spalle e apriva leggermente la
finestra perché il riflesso della strada entrasse a illuminare le cerimonie che
aveva inventato per impadronirsi dei frammenti dell'anima di quell'uomo, rimasti
a impregnare i suoi oggetti. Nella lastra dello specchio, nera e brillante come
una pozza di fanghiglia, si osservava a lungo, perché là si era guardato lui, e
le impronte delle due immagini potevano confondersi in un abbraccio. Si
accostava al cristallo con gli occhi spalancati, vedendo se stessa con gli
occhi di lui, baciando le proprie labbra con un bacio freddo e duro, che
immaginava caldo, come bocca di uomo. Sentiva la superficie dello specchio
contro il petto e le si intumidivano le minuscole ciliegie dei seni,
provocandole un sordo dolore che si diffondeva giù giù e si installava in un
punto preciso fra le gambe. Cercava quel dolore, ancora e ancora. Dall'armadio
tirava fuori una camicia e le scarpe di Bernal e se le infilava. Faceva qualche
passo per la stanza con molta attenzione, per non fare rumore. Così vestita
frugava nei cassetti, si pettinava col suo pettine, succhiava il suo spazzolino
da denti, lambiva la sua crema da barba, accarezzava i suoi indumenti sporchi.
Poi, senza sapere perché lo facesse, si toglieva la camicia, le scarpe e la
propria camicia da notte e si stendeva nuda sul letto di Bernal, aspirando con
avidità il suo odore, invocando il suo calore per avvolgersi in esso. Si
toccava tutto il corpo, cominciando dalla forma strana del cranio, le
cartilagini traslucide delle orecchie, le occhiaie, la cavità della bocca, e
così verso il basso disegnandosi le ossa, le pieghe, gli angoli e le curve di
quella totalità insignificante che era lei stessa, desiderando di essere
enorme, pesante e densa come una balena. Immaginava di andarsi colmando di un
liquido vischioso e dolce come miele, di gonfiarsi e crescere fino alle
dimensioni di una bambola madornale, fino a riempire tutto il letto, tutta la
stanza, tutta la casa col suo corpo turgido. Stremata, a volte si addormentava
per qualche minuto, piangendo. Una mattina di sabato Elena vide dalla finestra
Bernal avvicinarsi a sua madre di spalle, mentre questa era china nella vasca a
strofinare panni. l'uomo le mise la mano sulla vita e la donna non si mosse,
come se il peso di quella mano fosse parte del suo corpo. Benché distante,
Elena percepì il gesto di possesso di lui, l'atteggiamento di abbandono di sua
madre, l'intimità dei due, quella corrente che li univa come un formidabile
segreto. La bimba sentì che un istantaneo sudore la bagnava tutta, non poteva
più respirare, il suo cuore era un uccellino spaventato fra le costole, le
formicolavano le mani e i piedi, il sangue pulsava da scottarle le dita. Da
quel giorno cominciò a spiare sua madre. Ad una ad una andò scoprendo le prove
cercate, all'inizio soltanto sguardi, un saluto troppo prolungato, un sorriso
complice, il sospetto che sotto il tavolo le loro gambe si incontrassero e che
inventassero pretesti per rimanere soli. Finalmente, una notte, di ritorno
dalla stanza di Bernal dove aveva compiuto i suoi riti da innamorata, sentì un
rumore d'acque sotterranee proveniente dalla camera di sua madre, e allora capì
che per tutto quel tempo, mentre lei credeva che Bernal stesse guadagnandosi da
vivere con canzoni notturne, l'uomo si trovava invece dall'altra parte del
corridoio, e mentre lei baciava il suo ricordo nello specchio e aspirava
l'impronta del suo passaggio fra le lenzuola, lui era con sua madre. Con la
destrezza appresa in tanti anni di abitudine all'invisibilità attraversò la
porta chiusa e li vide immersi nel piacere. Il paralume a frange irradiava una
luce calda che rivelava gli amanti sul letto. Sua madre si era trasformata in
una creatura tonda, rosea, gemente, opulenta, un ondeggiante anemone di mare,
tutta tentacoli e ventose, tutta bocca e mani e gambe e orifizi, roteando e
roteando incollata al gran corpo di Bernal, che per contrasto le parve rigido,
impacciato, dai movimenti spasmodici, un pezzo di legno scosso da una ventata
inesplicabile. Fino allora la bambina non aveva mai visto un uomo nudo e la
sorpresero le fondamentali differenze. La natura maschile le parve brutale, e
ci mise molto a superare il terrore e a costringersi a guardare. Ma presto la
vinse il fascino della scena e poté osservare attentamente, per imparare da sua
madre i gesti che erano riusciti a strapparle Bernal, gesti più possenti di
tutto il suo amore, di tutte le sue preghiere, dei suoi sogni e dei suoi
silenziosi richiami, di tutte le sue cerimonie magiche per attirarlo al suo
fianco. Era certa che quelle carezze e quei sussurri contenessero la chiave del
segreto, e se fosse riuscita a impadronirsene Juan José Bernal avrebbe dormito
con lei nell'amaca che ogni sera appendeva a due ganci nella stanza degli
armadi. Elena passò i giorni seguenti in stato crepuscolare. Perse
completamente l'interesse per quanto la circondava, lo stesso Bernal compreso,
che passò a occupare un posto secondario nella sua mente, e si immerse in una
realtà fantastica che sostituì in tutto e per tutto il mondo dei vivi. Continuò
a compiere i suoi doveri per la forza dell'abitudine, ma la sua anima era
assente da tutto ciò che faceva. Quando la madre notò la sua mancanza
d'appetito, l'attribuì all'imminenza della pubertà, benché Elena fosse
evidentemente troppo giovane, e trovò il tempo di sedersi in disparte con lei e
di metterla al corrente della disgrazia di esser nata donna. La bimba ascoltò
in un silenzio imbronciato la predica sulle maledizioni bibliche e il sangue
mestruale, convinta che a lei non sarebbe mai capitato. Il mercoledì Elena
provò appetito per la prima volta in una settimana. Si infilò nella dispensa
con un apriscatole e un cucchiaio, e divorò il contenuto di tre barattoli di
piselli, poi tolse il vestito di cera a un formaggio olandese e se lo mangiò
come una mela. Poi corse nel patio, e piegata in due vomitò un verde miscuglio
sui gerani. Il dolore di pancia e il sapore acido in bocca le restituirono il
senso della realtà. Quella notte dormì tranquilla, avvolta nella sua amaca,
succhiandosi il dito come ai tempi della culla. Il giovedì si svegliò allegra,
aiutò sua madre a preparare il caffè per i pensionanti e poi fece colazione con
lei in cucina, prima di andare a scuola. Ma ci arrivò lamentandosi di forti crampi
allo stomaco, e tanto si contorse e chiese il permesso di andare in bagno che a
metà mattina la maestra l'autorizzò a tornare a casa. Elena fece un lungo giro
per evitare le strade del quartiere e si avvicinò a casa dal retro, che dava su
un dirupo. Riuscì ad arrampicarsi sul muro e a saltare nel patio con meno
rischi del previsto. Aveva calcolato che a quell'ora sua madre doveva essere al
mercato, e siccome era il giorno del pesce fresco ci avrebbe messo molto a
tornare. In casa c'erano solo Juan José Bernal e la signorina Sofia, che da una
settimana non andava al lavoro perché aveva un attacco di artrite. Elena
nascose i libri e le scarpe sotto un cumulo di tovaglie, e scivolò in casa.
Salì la scala appiccicata alla parete, trattenendo il respiro, finché sentì la
radio strepitare nella stanza della signorina Sofia e si tranquillizzò. La
porta di Bernal cedette immediatamente. Dentro era buio e per un momento non
vide nulla, perché veniva dallo splendore del mattino nella strada, ma
conosceva la stanza a memoria, aveva misurato lo spazio tante volte, sapeva
dove si trovava ciascun oggetto, in quale punto preciso il pavimento
scricchiolava e a quanti passi dalla porta c'era il letto. Comunque attese che
gli occhi si abituassero alla penombra e che le apparissero i contorni dei
mobili. Pochi istanti dopo poté distinguere anche l'uomo sul letto. Non era
bocconi, come tante volte l'aveva immaginato, ma supino sulle lenzuola, con
addosso solo le mutande, un braccio teso e l'altro sul petto, una ciocca di
capelli sugli occhi. Elena sentì che di colpo tutta la paura e l'impazienza
accumulate durante quei giorni svanivano completamente, lasciandola netta, con
la tranquillità di chi sa ciò che deve fare. Le parve di aver vissuto quel
momento molte volte; si disse che non aveva niente da temere, si trattava solo
di una cerimonia un po' diversa dalle precedenti. Lentamente si tolse
l'uniforme scolastica, ma non si azzardò a liberarsi anche delle mutandine di
cotone. Ora poteva vedere meglio Bernal. Si sedette sul bordo del letto, vicino
alla mano dell'uomo, cercando di fare in modo che il suo peso non provocasse
neppure una piega nelle lenzuola, si chinò lentamente, finché il suo volto non
fu a pochi centimetri da lui e poté sentire il calore del suo respiro e l'odore
dolciastro del suo corpo, e con infinita prudenza gli si distese accanto,
piegando ogni gamba con attenzione, per non svegliarlo. Attese, ascoltando il
silenzio, finché si decise a posare una mano sul ventre di lui in una carezza
quasi impercettibile. Quel contatto provocò un'ondata soffocante nel suo corpo,
credette che il rumore del suo cuore rimbombasse in tutta la casa e svegliasse
l'uomo. Le ci vollero diversi minuti per recuperare il raziocinio, e quando si
sincerò che non si muoveva rilassò la tensione e appoggiò la mano con tutto il
peso del braccio, così leggero peraltro che non turbò il riposo di Bernal.
Elena ricordò i gesti che aveva visto fare a sua madre, e mentre introduceva le
dita sotto l'elastico delle mutande cercò la bocca dell'uomo e lo baciò come
aveva fatto tante volte davanti allo specchio. Bernal gemette ancora
addormentato e allacciò la bambina alla vita con un braccio, mentre con l'altra
mano afferrava quella di lei per guidarla e la sua bocca si apriva per
restituire il bacio, mormorando il nome dell'amante. Elena lo sentì chiamare
sua madre, ma invece di ritirarsi si strinse ancor più contro di lui. Bernal la
prese per la vita e se la mise sopra, sistemandola sul proprio corpo mentre
iniziava i primi movimenti dell'amore. Solo allora, sentendo la fragilità
estrema di quello scheletro da passerotto sul petto, un barlume di coscienza
trafisse l'ovattata bruma del sonno, e l'uomo aprì gli occhi. Elena sentì che
il corpo di lui si tendeva, si vide presa per le costole e respinta con tal violenza
che finì a terra, ma si rimise in piedi e tornò da lui per abbracciarlo di
nuovo. Bernal la colpì in faccia e saltò giù dal letto, atterrito da chissà
quali antiche proibizioni e incubi. “Perversa, bambina perversa!” gridò. La
porta si aprì e la signorina Sofia apparve sulla soglia.
Elena passò i sette anni seguenti in un collegio di suore,
altri tre in una università della capitale, e poi andò a lavorare in una banca.
Nel frattempo la madre si sposò con l'amante e insieme continuarono ad
amministrare la pensione, finché non ebbero risparmi sufficienti per ritirarsi
in una piccola casa di campagna, dove coltivavano garofani e crisantemi da
vendere in città. L'Usignolo collocò il suo manifesto da artista in una cornice
dorata, ma non tornò mai più a cantare in spettacoli notturni e nessuno lo
rimpianse. Non accompagnò mai la moglie a far visita alla figliastra, né
chiedeva di lei, per non eccitare i dubbi della propria mente, ma ogni tanto
pensava a lei. L'immagine della bambina rimasta intatta per lui, gli anni non
la sfiorarono, continuò a essere la creatura lussuriosa e vinta dall'amore che
lui aveva respinto. In verità, man mano che trascorrevano gli anni, il ricordo
di quelle ossa leggere, di quella mano infantile sul suo ventre, di quella
lingua da bebè nella sua bocca andò crescendo fino a tramutarsi in una
ossessione. Quando abbracciava il corpo pesante di sua moglie doveva
concentrarsi su quelle visioni, invocando meticolosamente Elena, per
risvegliare l'impulso sempre più dilazionato del piacere. Ormai divenuto un
uomo maturo, andava nei negozi di abiti per bambini e comprava mutande di
cotone per godere accarezzandole e accarezzandosi. Poi si vergognava di quegli
istanti viziosi e bruciava le mutandine o le seppelliva in profondità nel patio,
in un tentativo inutile di dimenticarle. Si abituò a vagare attorno alle scuole
e ai parchi, per osservare da lontano le ragazzine impuberi, che gli
restituivano per alcuni istanti troppo brevi l'abisso di quel giovedì
indimenticabile. Elena aveva ventisette anni quando venne per la prima volta in
visita a casa di sua madre, per presentarle il fidanzato, un capitano
dell'esercito che da un secolo la pregava di sposarlo. I due giovani arrivarono
in uno di quei freschi tramonti di novembre, lui in borghese, per non sembrare
troppo arrogante in uniforme, e lei carica di regali. Bernal aveva atteso
quella visita con l'ansietà di un adolescente. Si era guardato allo specchio
instancabilmente, scrutando la propria immagine, chiedendosi se Elena avrebbe
notato i cambiamenti o se nella mente di lei l'Usignolo fosse rimasto
invulnerabile ai guasti del tempo. Si era preparato all'incontro scegliendo
ogni parola e immaginando tutte le possibili risposte. L'unica cosa che non gli
venne in mente fu che invece della creatura di fuoco per cui viveva
tormentandosi gli sarebbe comparsa dinanzi una donna insipida e timida. Bernal
si sentì tradito. A sera, quando era passata l'euforia dell'arrivo e madre e
figlia si erano raccontate le ultime novità, portarono qualche sedia nel patio
per godersi il fresco. L'aria era intrisa dell'odore dei garofani. Bernal offrì
del vino e Elena lo seguì per prendere i bicchieri. Per qualche minuto rimasero
soli, uno di fronte all'altra nella piccola cucina. E allora l'uomo, che aveva
aspettato per tanto tempo quell'occasione, prese la donna per un braccio e le
disse che era stato tutto un terribile equivoco, che quella mattina lui era
addormentato e non sapeva quel che faceva, che non voleva scagliarla a terra né
chiamarla così, che avesse pietà e lo perdonasse, per vedere se così riusciva a
ritrovare la padronanza di sé, perché in tutti quegli anni il desiderio
bruciante di lei l'aveva tormentato senza posa, ardendogli il sangue e
corrompendogli l'anima. Elena lo guardò sgomenta e non seppe cosa rispondere.
Di quale bambina perversa le stava parlando? Per lei l'infanzia era
lontanissima, e il dolore di quel primo amore respinto era chiuso in qualche
luogo sigillato della memoria. Non serbava alcun ricordo di quel remoto
giovedì.
CLARISA.
Clarisa nacque quando in città non c'era ancora la luce
elettrica, vide in televisione il primo astronauta levitare sopra la superficie
della luna e morì di sgomento quando venne il Papa in visita e gli andarono
incontro gli omosessuali travestiti da suore. Aveva passato l'infanzia tra
cespugli di felci e corridoi illuminati da lampade a olio. I giorni passavano
lenti a quei tempi. Clarisa non si adattò mai ai soprassalti dei nostri giorni,
mi parve sempre che fosse come fissata nell'aria color seppia di un ritratto
dell'altro secolo. Suppongo che una volta avesse un vitino verginale, un
portamento aggraziato e un profilo da cammeo, ma quando la conobbi io era già
un'anziana signora un po' strampalata, con le spalle rialzate come due leggere
gobbe e una testa nobile coronata da una ciste sebacea, attorno alla quale
arrotolava i suoi capelli bianchi. Aveva uno sguardo sagace e profondo, capace
di penetrare la malvagità più recondita e di tornare indietro intatto. Nei suoi
molti anni di esistenza assurse a fama di santa, e dopo la sua morte molti ne
tengono la fotografia su un altare domestico, accanto ad altre immagini
venerabili, per chiederle aiuto nelle difficoltà minori, benché il suo
prestigio di operatrice di miracoli non sia riconosciuto dal Vaticano e certamente
mai lo sarà, perché i benefici da lei concessi sono d'indole capricciosa: non
cura ciechi come santa Lucia né trova marito alle zitelle come sant'Antonino,
ma dicono che aiuti a sopportare il malessere dell'ubriachezza, le difficoltà
della coscrizione e l'agguato della solitudine. I suoi prodigi sono umili e
improbabili, ma necessari quanto le spettacolari meraviglie dei santi da
cattedrale. La conobbi durante la mia adolescenza, quando lavoravo come
domestica in casa della Signora, una dama della notte, come Clarisa chiamava
quelle del mestiere. Già allora era quasi puro spirito, sembrava sempre sul
punto di spiccare il volo e di uscire dalla finestra. Aveva mani da guaritrice,
e chi non poteva pagare un medico o era deluso dalla scienza tradizionale aspettava
il turno affinché lei gli alleviasse i dolori o lo consolasse della cattiva
sorte. La mia padrona soleva chiamarla perché le applicasse le mani sulla
schiena. All'occasione, Clarisa frugava nell'anima della Signora allo scopo di
raddrizzarle la vita e condurla sui sentieri di Dio, sentieri che l'altra non
provava nessuna urgenza di percorrere, perché questa decisione le avrebbe
rovinato gli affari. Clarisa le prodigava il calore curativo delle sue palme
per dieci o quindici minuti, secondo l'intensità del dolore, poi accettava un
succo di frutta come ricompensa per i suoi servigi. Sedute una di fronte
all'altra in cucina, le due donne chiacchieravano dell'umano e del divino, la
mia padrona più dell'umano e lei più del divino, senza tradire la tolleranza e
il rigore delle buone maniere. Poi cambiai posto e persi di vista Clarisa fino
a un paio di decenni dopo, quando tornammo a incontrarci e potemmo ristabilire
l'amicizia fino a oggi, senza badare ai vari ostacoli che vennero a interporsi,
compreso quello della sua morte, che seminò un certo disordine nelle
comunicazioni. Persino nei tempi in cui la vecchiaia le impediva di muoversi
con l'entusiasmo missionario di un tempo, Clarisa mantenne la sua costanza nel
soccorrere il prossimo, spesso anche contro la volontà dei beneficiari, come
nel caso dei ruffiani di calle Repùblica, che dovevano sopportare, sprofondati
nella massima mortificazione, le pubbliche arringhe di quella buona signora nel
suo inalterabile affanno di redimerli. Clarisa rinunciava a tutto ciò che aveva
per darlo ai bisognosi, in generale aveva solo i vestiti che si portava
addosso, e verso la fine della vita le risultava difficile trovare poveri più
poveri di lei. La carità diventò un cammino di andata e ritorno, e non si
sapeva più chi dava e chi riceveva. Viveva in un cadente palazzotto di tre
piani, con alcune stanze vuote e altre affittate come deposito a una
distilleria per cui un'acida pestilenza da ubriaco contaminava l'ambiente. Non
abbandonava quell'edificio, eredità dei suoi genitori, perché le ricordava il
suo passato nobiliare e perché da più di quarant'anni suo marito vi si era
sepolto vivo, in una stanza in fondo al patio. L'uomo era stato giudice di una
lontana provincia, incarico che aveva esercitato con dignità fino alla nascita
del suo secondo figlio, quando la delusione gli aveva strappato l'interesse ad
affrontare la propria sorte, e si era rifugiato come un topo nella tana
maleodorante della sua stanza. Usciva molto raramente, come un'ombra fuggevole,
e apriva la porta solo per metter fuori la bacinella e raccogliere il cibo che
la moglie gli lasciava ogni giorno. Comunicava con lei per mezzo di biglietti
scritti con la sua perfetta calligrafia e di colpi alla porta, due per il sì e
tre per il no. Attraverso le pareti della sua stanza si potevano sentire la sua
raucedine asmatica e qualche parolaccia da bucaniere che non si sapeva
esattamente a chi fosse diretta. “Pover'uomo, almeno Dio se lo chiami accanto
al più presto e lo metta a cantare in un coro di angeli” sospirava Clarisa
senza un'ombra di ironia; ma l'opportuno decesso di suo marito non fu una delle
grazie elargite dalla Divina Provvidenza, dato che le è sopravvissuto fino ad
ora, benché debba avere più di cento anni, a meno che non sia morto e le tossi
e le maledizioni che si sentono siano solo l'eco di ieri. Clarisa sposò lui
perché fu il primo che glielo chiese, e ai suoi genitori parve che un giudice
fosse il miglior partito possibile. Lasciò il sobrio benessere del focolare
paterno e si adattò all'avarizia e alla volgarità di suo marito senza
pretendere un destino migliore. L'unica volta che la si sentì pronunciare un
commento nostalgico per le raffinatezze del passato fu a proposito di un
pianoforte a coda con cui si dilettava da bambina. Così venimmo a sapere della
sua passione per la musica, e molto più tardi, quando era già anziana, le
regalammo, in un gruppo di amici, un modesto pianoforte. Erano già passati più
di sessant'anni da quando aveva visto una tastiera da vicino, ma si sedette
sullo sgabello e suonò a memoria e senza la minima incertezza un Notturno di
Chopin. Un paio d'anni dopo le nozze col giudice nacque una figlia albina, che
appena cominciò a camminare accompagnava sua madre in chiesa. La piccola fu
talmente esaltata dagli orpelli della liturgia che cominciò a strappare le
tende per vestirsi da vescovo, e presto l'unico gioco che la interessasse era
di imitare i gesti della messa e di intonare cantici in un latino di sua
invenzione. Era ritardata senza rimedio, pronunciava solo parole in una lingua
sconosciuta, sbavava continuamente e soffriva di incontrollabili attacchi di
malvagità, durante i quali dovevano legarla come una belva feroce per evitare
che azzannasse i mobili e attaccasse le persone. Con la pubertà si calmò e
aiutava sua madre nei mestieri di casa. Il secondo figlio venne al mondo con un
dolce viso asiatico, sprovvisto di curiosità, e l'unica abilità che riuscì ad
acquisire fu quella di stare in equilibrio su una bicicletta, ma non gli servì
a molto perché sua madre non si azzardò mai a lasciarlo uscire di casa. Passò
la vita a pedalare in cortile su una bicicletta senza ruote fissata a un
cavalletto. L'anormalità dei figli non minò il solido ottimismo di Clarisa, che
li considerava anime pure, immuni dal male, e li trattava solo con affetto La
sua maggior preoccupazione consisteva nel mantenerli incontaminati dalle
sofferenze terrene; ogni tanto si chiedeva chi avrebbe pensato a loro quando
lei fosse mancata. Il padre invece non parlava mai di loro, si afferrò al
pretesto dei figli ritardati per crogiolarsi nella vergogna, abbandonare il
lavoro, gli amici e persino l'aria fresca e seppellirsi nella propria stanza,
occupato a copiare con pazienza da monaco medievale i giornali su un registro
notarile. Intanto sua moglie spendeva fino all'ultimo centesimo della dote e
dell'eredità, e poi si mise a fare ogni genere di mestieri umili per mantenere
la famiglia. Le miserie proprie non la distolsero dalle miserie altrui, e anche
nei periodi più difficili della vita non trascurò le sue opere di misericordia.
Clarisa possedeva una comprensione illimitata per le debolezze umane. Una sera,
quando era già una vecchietta dai capelli bianchi, stava cucendo in camera sua
quando sentì rumori inconsueti in casa. Si alzò per controllare di che si trattava,
ma non riuscì a varcare la soglia perché si imbatté in un uomo che le puntò un
coltello alla gola. “Zitta, puttana, o ti faccio fuori” la minacciò. “Non è
qui, figliolo. Le dame della notte stanno dall'altra parte della strada, dove
si sente la musica.” “Non fare la scema, questa è una rapina.” “Come?” sorrise
incredula Clarisa. “E cosa credi di poter rubare, qui?” “Siediti lì, che ti
lego.” “Ma neanche per idea, figliolo, potrei essere tua madre, non mancarmi di
rispetto.” “Siediti!” “Non gridare che spaventi mio marito, è di salute
cagionevole. E intanto metti via quel coltello, che rischi di far male a
qualcuno” disse Clarisa. “Senta, signora, io sono qui per rubare...” borbottò
il rapinatore sconcertato. “No, questo non è un furto. Non ti lascerò commettere
un peccato. Ti darò un po' di soldi di mia volontà. Non me li stai portando
via, te li sto dando io, chiaro?” Prese la borsa e tirò fuori quanto aveva, che
doveva servirle per il resto della settimana. “Non ho altro. Siamo povera
gente, come vedi. Vieni in cucina, che metto su un tè.” L'uomo mise via il
coltello e la seguì con le banconote in mano. Clarisa preparò il tè per due,
servì gli ultimi biscotti che le rimanevano e lo invitò a sedersi in sala.
“Come ti è venuta la peregrina idea di derubare questa povera vecchia?” Il
ladro le raccontò che la osservava da giorni, sapeva che viveva sola e aveva
pensato che in una casa tanto grande ci sarebbe pur stato qualcosa da portar
via. Era la sua prima rapina, disse, aveva quattro figli, era senza lavoro e
non poteva tornare a casa un'altra volta a mani vuote. Lei gli dimostrò che il
rischio era troppo grande, non solo potevano arrestarlo, ma poteva addirittura
finire all'inferno, benché lei dubitasse in verità che Dio lo castigasse con
tanto rigore, al massimo sarebbe finito in purgatorio, sempre che si pentisse e
non lo facesse più, naturalmente. Gli offrì di aggiungerlo all'elenco dei suoi
protetti, e gli promise di non denunciarlo. Si salutarono con un paio di baci
sulle guance. Per i dieci anni seguenti, fino alla morte di Clarisa, l'uomo le
mandò per posta un regalino a ogni Natale. Non tutte le conoscenze di Clarisa
erano di questa risma; conosceva anche gente prestigiosa, signore d'illustre
prosapia, ricchi commercianti, banchieri e uomini politici, cui faceva visita
in cerca di aiuto per il prossimo, senza star a pensare a come sarebbe stata
accolta. Un giorno si presentò nell'ufficio del deputato Diego Cienfuegos, noto
per i suoi discorsi incendiari e per essere uno dei pochi politici incorruttibili
del paese, il che non gli impedì di ascendere a ministro e di finire sui libri
di storia come padre spirituale di un certo trattato di pace. A quei tempi
Clarisa era giovane e piuttosto timida, ma possedeva già la stessa tremenda
determinazione che la caratterizzò nella vecchiaia. Andò dal deputato a
chiedergli di usare la sua influenza per procurare una ghiacciaia moderna alle
Madri Teresiane. L'uomo la fissò sbalordito, non riuscendo a capire le ragioni
per cui avrebbe dovuto aiutare le sue nemiche ideologiche. “Perché nel
refettorio delle suore fanno colazione gratis cento bambini al giorno, e sono
quasi tutti figli di comunisti e protestanti che votano per lei” replicò
dolcemente Clarisa. Nacque così tra loro una discreta amicizia che doveva
costare molte inquietudini e favori all'uomo politico. Con la stessa logica
irrefutabile otteneva dai gesuiti borse di studio per ragazzi atei, dall'Azione
delle Dame Cattoliche abiti usati per le prostitute del suo quartiere,
dall'Istituto Germanico strumenti musicali per un coro ebraico, dai proprietari
di vigneti fondi per la lotta contro l'alcolismo. Né la sepoltura del marito
nella sua stanza mausoleo né le estenuanti ore di lavoro quotidiano poterono
evitare che Clarisa rimanesse gravida ancora una volta. La levatrice l'avvertì
che con ogni probabilità avrebbe dato alla luce un altro anormale, ma lei la
tranquillizzò con l'argomento che Dio mantiene un certo equilibrio
nell'universo, e come crea alcune cose storte così ne crea altrettante diritte,
per ciascuna virtù c'è un peccato, per ciascuna gioia una sventura, per ogni
male un bene, e così nell'eterna rivoluzione della ruota della vita tutto si
compensa attraverso i secoli. Il pendolo va e viene con precisione inesorabile,
diceva Clarisa passò senza apprensioni il periodo della gravidanza e diede alla
luce un terzo figlio. Il parto avvenne in casa, coadiuvato dalla levatrice e
rallegrato dalla compagnia dei figli ritardati, esseri inoffensivi e sorridenti
che passavano le ore occupati nei loro giochi, l'una biascicando parole
incomprensibili nella sua veste episcopale, l'altro pedalando verso nessun
luogo su una bicicletta immobile. In questa occasione la bilancia si mosse nel
senso giusto per preservare l'armonia della Creazione, e nacque un bambino
robusto, dagli occhi intelligenti e dalle mani salde, che la madre si accostò
al petto, grata. Quattordici mesi dopo Clarisa dava alla luce un altro figlio
con le caratteristiche del precedente. “Questi cresceranno sani per aiutarmi a
curare i primi due” decise lei, fedele alla sua teoria delle compensazioni, e
così fu, perché i due figli minori risultarono dritti come querce e ben dotati
quanto a bontà. In qualche maniera Clarisa se la cavò nel mantenere i quattro
bambini senza l'aiuto del marito e senza perdere il suo orgoglio di gran dama
sollecitando la carità per se stessa. Pochi si accorsero delle sue ristrettezze
finanziarie. Con la stessa tenacia con cui passava le notti sveglia fabbricando
bambole di cenci o torte nuziali da vendere, si batteva contro il deterioramento
della casa, le cui pareti cominciavano a trasudare un vapore verdastro, e
inculcava ai figli minori i suoi principi di buonumore e di generosità con
effetti talmente smaglianti che nei decenni seguenti le rimasero sempre
accanto, sopportando il peso dei fratelli maggiori, finché un giorno questi
ultimi rimasero intrappolati nel bagno e una fuga di gas li trasferì
serenamente all'altro mondo. La venuta del Papa si verificò quando Clarisa
doveva ancora compiere gli ottanta, anche se non era facile calcolare la sua
età esatta, perché se l'aumentava per civetteria, soltanto per sentirsi dire
come si conservava bene agli ottantacinque che vantava. Aveva spirito da
vendere, ma il corpo le veniva meno, le costava fatica camminare, in strada
perdeva l'orientamento, non aveva appetito e finì per cibarsi di fiori e di
miele. Lo spirito andava abbandonandola nella stessa misura in cui le
spuntavano le ali, ma i preparativi per la visita papale le restituirono
l'entusiasmo per le avventure terrene. Non accettò di vedere lo spettacolo alla
televisione, perché sentiva una profonda sfiducia per quell'apparecchio. Era
convinta che persino l'astronauta sulla luna fosse un trucco, filmato in uno
studio di Hollywood, un inganno come quelle storie in cui i protagonisti
amavano o morivano per finta e una settimana dopo si ripresentavano con le
stesse facce a soffrire altri destini. Clarisa volle vedere il Pontefice con i
propri occhi, perché non le mostrassero sullo schermo un attore in paramenti
episcopali, per cui dovetti accompagnarla ad inneggiarlo durante il suo
tragitto cittadino. Dopo un paio d'ore di lotta con una moltitudine di credenti
e di venditori di ceri, camicette stampigliate, immaginette policrome e santi
di plastica, riuscimmo a intravedere il Santo Padre, magnifico in una cassa di
vetro portatile, come un bianco delfino nel suo acquario. Clarisa cadde in
ginocchio, e rischiò di essere schiacciata dai fanatici e dagli agenti della
scorta. In quell'istante, proprio quando avevamo il Papa a un tiro di sasso,
sbucò da una via laterale una colonna di uomini vestiti da suore, con le facce
tutte truccate, inalberando cartelli a favore dell'aborto, del divorzio, della
sodomia e del diritto delle donne a esercitare il sacerdozio. Clarisa frugò
nella borsetta con mano tremante, trovò gli occhiali e se li mise per
accertarsi che non si trattasse di una allucinazione. “Andiamo via, figliola.
Ho già visto abbastanza” mi disse pallida. Era talmente sconvolta che per
distrarla le offrii di comprarle un capello del Papa, ma non volle, perché non
c'era garanzia di autenticità. Il numero di reliquie capillari offerte dai
commercianti era tale che bastava a riempire un paio di materassi, come calcolò
un giornale socialista. “Sono molto vecchia e non capisco più il mondo, figliola.
La cosa migliore è tornare a casa.” Rientrò nel suo palazzotto estenuata, col
fragore delle campane e degli applausi che continuava a rimbombarle nelle
tempie. Andai in cucina a preparare una minestra per il giudice e a scaldare
l'acqua per un'infuso di camomilla da somministrare a lei, per vedere se si
calmava un poco. Intanto Clarisa, con un'espressione di grande malinconia, mise
tutto in ordine e servì l'ultimo piatto di cibo a suo marito. Posò il vassoio
davanti alla porta chiusa e bussò per la prima volta in oltre quarant'anni.
“Quante volte ho detto che non voglio essere disturbato?”
protestò la voce decrepita del giudice. “Scusa, caro, volevo solo avvertirti
che sto per morire.” “Quando?” “Venerdì.” “Va bene” e non aprì la porta.
Clarisa chiamò i figli per informarli della sua prossima fine e poi si mise a
letto. Aveva una stanza grande, buia, dai pesanti mobili di mogano intagliato
che non riuscirono a diventare antichità, perché il deterioramento li bloccò a
metà strada. Sul comò c'era un'urna di cristallo con un Bambin Gesù di cera di
un realismo sorprendente, sembrava un neonato appena uscito dal bagno. “Mi
piacerebbe che il Bambin Gesù lo tenessi tu, così me lo curi bene, Eva.” “Non
mi dirà che pensa di morire, non mi faccia spaventare.” “Devi metterlo
all'ombra, se prende il sole si scioglie. E durato per quasi un secolo, e può
durare per un altro se lo difendi dal clima.” Le sistemai in cima alla testa i
suoi capelli da meringa, le adornai la chioma con un nastro e mi sedetti
accanto a lei, pronta a farle compagnia in quel frangente, senza sapere con
sicurezza di che si trattasse, perché la situazione mancava di ogni
sentimentalismo, come se in realtà non fosse un'agonia ma un semplice
raffreddore. “Sarebbe meglio che mi confessassi, non ti sembra, figliola?” “Ma
quali peccati può aver commesso lei, Clarisa!” “La vita è lunga e c'è tempo
d'avanzo per il male, con l'aiuto di Dio.” “Lei andrà dritta dritta in
paradiso, se il paradiso esiste.” “Certo che esiste, ma non è così sicuro che
mi ammettano. Quelli sono rigorosi” mormorò. E dopo una lunga pausa aggiunse:
“Ripassando i miei peccati, vedo che ce n'è uno abbastanza grave...” Ebbi un
brivido, temendo che quella vecchietta con l'aureola da santa mi dicesse di
aver eliminato intenzionalmente i suoi figli ritardati per facilitare la
giustizia divina, o di non credere in Dio e di essersi dedicata a fare il bene
in questo mondo solo perché nella bilancia le era toccata questa sorte, per
compensare il male d'altri, male che a sua volta era privo d'importanza, dato
che tutto fa parte dello stesso processo infinito. Ma nulla di così drammatico
mi confessò Clarisa. Si voltò verso la finestra e mi disse arrossendo che si
era rifiutata di compiere i suoi doveri coniugali. “Che cosa significa?”
chiesi. “Be'... Voglio dire che non ho soddisfatto i desideri carnali di mio
marito, capisci?” “No.” “Se io gli nego il mio corpo e lui cade nella
tentazione di cercar sollievo con un'altra donna, io ho la responsabilità
morale.” “Capisco. Il giudice fornica e il peccato è suo.” “No, no. Mi pare che
sia di entrambi, bisognerebbe chiedere.” “Il marito ha lo stesso obbligo verso
la moglie?” “Eh?” “Voglio dire, se lei avesse avuto un altro uomo, la colpa
sarebbe anche di suo marito?” “Che cosa ti viene in mente, figliola!” Mi guardò
attonita. “Non si preoccupi, se il suo peggior peccato è di aver negato il
corpo al giudice, sono sicura che Dio ci riderà sopra.” “Non credo che Dio rida
per queste cose.” “Dubitare della perfezione divina, questo sì che è un gran
peccato, Clarisa.” Sembrava talmente in salute che si faceva fatica a
immaginare la sua prossima dipartita, ma supposi che i santi, a differenza dei
comuni mortali, abbiano il potere di morire senza paura e nel pieno possesso
delle loro facoltà. Il suo prestigio era così solido che molti assicuravano di
aver visto un cerchio di luce attorno alla sua testa, e di aver sentito musica
celestiale in sua presenza, per cui non mi sorpresi, quando la svestii per
infilarle la camicia da notte, alla vista di due enfiagioni sulla schiena, come
se stesse per spuntarle un paio di ali da angioletto. La voce dell'agonia di
Clarisa si diffuse rapidamente. Io e i figli dovemmo fronteggiare una fila
inesauribile di gente che veniva a chiedere il suo intervento in cielo per
diversi favori, o semplicemente a salutarla. Molti speravano che all'ultimo
momento accadesse un prodigio significativo, come per esempio che l'odore di
unguenti rancidi che infestava l'ambiente si trasformasse in un profumo di
camelie o il suo corpo rifulgesse di raggi di consolazione. Tra loro comparve
il suo amico, il bandito, che non aveva mutato strada e si era mutato in vero
professionista. Sedette accanto al letto della moribonda e le raccontò le sue
peripezie senza un barlume di pentimento. “Mi va benissimo. Adesso faccio solo
le case dei quartieri alti. Rubo ai ricchi, e questo non è peccato. Non ho mai
dovuto usare la violenza, lavoro pulito, da signore,” spiegò con un certo
orgoglio. “Dovrò pregare molto per te, figliolo.” “Preghi, nonnina, che male
non mi può fare.” Anche la Signora si presentò compunta a dire addio alla sua
cara amica, portando una corona di fiori e qualche ciambellina di panforte per
contribuire alla veglia. La mia antica padrona non mi riconobbe, ma io non ebbi
difficoltà a identificarla, perché non era tanto cambiata, aveva un
bell'aspetto malgrado la pinguedine, la parrucca e le stravaganti scarpette di
plastica con stelline dorate. A differenza del ladro, veniva a comunicare a
Clarisa che i suoi consigli di tanto tempo prima erano caduti in terreno
fertile, e ora lei era una cristiana decente. “Lo dica a san Pietro, che mi
cancelli dal libro nero” le chiese. “Che tremenda delusione proveranno queste
brave persone se invece di andare in paradiso finirò a cuocere nelle marmitte
dell'inferno...” commentò la moribonda, quando finalmente riuscii a chiudere la
porta per lasciarla riposare un poco. “Se lassù va a finire così, quaggiù non
lo saprà nessuno, Clarisa.” “Meglio così.” Fin dalla mattina del venerdì in
strada si assiepò una folla, e a malapena i figli riuscirono a impedire lo
straripamento dei credenti pronti a impadronirsi di una reliquia qualsiasi, dai
pezzi di carta da parati agli scarsi indumenti della santa. Clarisa veniva meno
a vista d'occhio, e per la prima volta dimostrò di prendere sul serio la
propria morte. Verso le dieci si fermò davanti alla casa un'automobile blu con
le insegne del Parlamento. L'autista aiutò a scendere dal sedile posteriore un
vecchio che la folla riconobbe immediatamente. Era don Diego Cienfuegos, divenuto
un padre della patria dopo tanti decenni di servigi resi al paese. I figli di
Clarisa gli andarono incontro e lo accompagnarono nella sua penosa ascensione
al secondo piano. Quando lo vide sulla soglia Clarisa si rianimò, le tornarono
il rossore sulle guance e il luccichio negli occhi. “Per favore, fai uscire
tutti dalla stanza e lasciaci soli” mi sussurrò all'orecchio. Venti minuti dopo
la porta si aprì e don Diego Cienfuegos uscì trascinando i piedi, con gli occhi
umidi, debole e rattrappito, ma sorridente. I figli di Clarisa, che lo
aspettavano in corridoio, lo presero di nuovo sottobraccio per aiutarlo, e
allora, vedendoli insieme, ebbi la conferma di qualcosa che avevo già notato
prima. Quei tre uomini avevano lo stesso portamento, lo stesso profilo, la
stessa calma sicurezza, gli stessi occhi savi e mani ferme. Attesi che
scendessero la scala e tornai dalla mia amica. Mi avvicinai per sistemarle i
cuscini e vidi che anche lei, come il suo visitatore, piangeva con una certa
gioia. “È stato don Diego il suo peccato più grave, vero?” le mormorai. “Non è
stato un peccato, figliola, solo una mano data a Dio per equilibrare la
bilancia del destino. E vedi che è andata benissimo, perché per due figli
ritardati ne ho avuti altri due che li curassero. Quella notte Clarisa morì
senza angoscia. Di cancro, diagnosticò il medico vedendo i suoi boccioli d'ali;
di santità, proclamarono i devoti ammassati nella strada con ceri e fiori; di
sgomento, dico io, perché ero con lei quando ci fece visita il Papa.
BOCCA DI ROSPO.
Erano tempi molto duri nel sud. Non nel sud di questo
paese, nel sud del mondo, dove le stagioni sono rovesciate e l'inverno non
capita di Natale, come nelle nazioni colte, ma a metà dell'anno, come nelle
regioni barbare. Pietra, erba e ghiaccio, vaste piane che verso la Terra del
Fuoco si sgranano in un rosario di isole, picchi di cordigliera innevata a
chiudere l'orizzonte in lontananza, silenzio installato colà fin dall'inizio
dei tempi e interrotto talvolta dal sospiro sotterraneo dei ghiacciai che
scivolano lentamente verso il mare. E una natura aspra, abitata da uomini rudi.
Agli inizi del secolo lì non c'era niente che gli inglesi potessero portarsi
via, ma ottennero concessioni per allevare pecore. In pochi anni gli animali si
moltiplicarono in maniera tale che da lontano parevano nuvole impigliate
rasoterra, si mangiarono tutta la vegetazione e calpestarono gli ultimi altari
della cultura indigena. In quel luogo Hermelinda si guadagnava la vita con
giochi di fantasia. In mezzo alla piana sterile si ergeva, come una torta
abbandonata, il gran casamento della Compagnia Allevatrice, circondato da un
assurdo tappeto erboso difeso dagli abusi del clima dalla moglie
dell'amministratore, che non seppe rassegnarsi a vivere fuori dal cuore
dell'Impero Britannico e continuò a mettersi in abito da gala per cenare da
sola con suo marito, un flemmatico gentiluomo immerso nell'orgoglio di
tradizioni obsolete. I braccianti creoli vivevano nelle baracche del campo,
separati dai padroni da barriere di arbusti spinosi e rose selvatiche, che
tentavano invano di limitare l'immensità della pampa e di creare per gli
stranieri l'illusione di una dolce campagna inglese. Vigilati dalle guardie
dell'amministrazione, tormentati dal freddo e senza una minestra casalinga per mesi,
i lavoratori sopravvivevano alla sventura, abbandonati come le greggi che
curavano. A sera non mancava mai chi prendeva in mano la chitarra, e allora il
paesaggio si riempiva di canzoni sentimentali. Era tanta la penuria d'amore,
malgrado la pietra focaia che il cuoco metteva nel cibo per spegnere i desideri
del corpo e le urgenze del ricordo, che i braccianti giacevano con le pecore e
persino con qualche foca, se si avvicinava alla costa e riuscivano a
catturarla. Queste bestie hanno grandi mammelle, come seni di madre, e
togliendo loro la pelle, quando sono ancora vive, calde, palpitanti, un uomo in
gran bisogno può chiudere gli occhi e immaginare di abbracciare una sirena.
Malgrado questi inconvenienti, gli operai si divertivano più dei loro padroni,
grazie ai giochi illeciti di Hermelinda. Era l'unica donna giovane in tutta
l'estensione di quella terra, a parte la dama inglese, che varcava la cerchia
delle rose solo per ammazzare lepri a schioppettate, e in tali occasioni si
riusciva appena a intravedere il velo del suo cappello in mezzo a un polverone
d'inferno e a un clamore di bracchi. Hermelinda, invece, era una femmina vicina
e precisa, con un ardito miscuglio di sangue nelle vene e un'ottima
disposizione a godere. Aveva scelto quel mestiere di consolazione per pura e
semplice vocazione, le piacevano quasi tutti gli uomini in generale e molti in
particolare. Regnava tra loro come un'ape regina. Amava in loro l'odore del
lavoro e del desiderio, la voce rauca, la barba di due giorni, il corpo vigoroso
e insieme così vulnerabile nelle sue mani, l'indole combattiva e il cuore
ingenuo. Conosceva la forza illusoria e la debolezza estrema dei suoi clienti,
ma non approfittava di nessuna di queste condizioni, al contrario, aveva
compassione di entrambe. Nella sua natura selvatica v'erano tracce di tenerezza
materna, e a volte la notte la sorprendeva a rammendare strappi in una camicia,
a cuocere una gallina per qualche lavoratore ammalato o a scrivere lettere
d'amore per fidanzate remote. Faceva la propria fortuna su un materasso
imbottito di lana cruda, sotto una tettoia di zinco bucherellata, che produceva
musica di flauti e oboe quand'era attraversata dal vento. Aveva le carni sode e
la pelle senza macchia, rideva con gusto e conosceva ogni genere di trucchi,
molto più di quanto potessero offrire una pecora terrorizzata o una povera foca
spellata. In ogni abbraccio, per breve che fosse, si rivelava un'amica
entusiasta e viziosa. La fama delle sue solide gambe da cavallerizza e dei suoi
seni invulnerabili all'usura aveva percorso seicento chilometri di provincia
agreste, e i suoi innamorati venivano da lontano per passare un po' di tempo in
sua compagnia. Al venerdì arrivavano galoppando da estremità talmente remote
che le bestie, coperte di schiuma, cadevano svenute. I padroni inglesi
vietavano il consumo di alcolici ma Hermelinda si arrangiava a distillare
un'acquavite clandestina con cui migliorava l'umore e rovinava il fegato dei
suoi ospiti, e che serviva anche per accendere le lanterne nell'ora del divertimento.
Le scommesse cominciavano dopo il terzo giro di liquore, quando risultava
impossibile aguzzare la vista o concentrare la mente. Hermelinda aveva scoperto
la maniera di ottenere benefici sicuri senza fare imbrogli. A parte le carte e
i dadi, gli uomini avevano a disposizione vari giochi, e l'unico premio era
sempre la sua persona. I perdenti le consegnavano i loro danari, e anche i
vincenti, ma questi ottenevano il diritto di godere della sua compagnia per un
breve istante, senza sotterfugi né preliminari, non perché le mancasse la buona
volontà, ma perché non aveva tempo per prestare a tutti un'attenzione meno
fugace. I partecipanti alla mosca cieca si toglievano i pantaloni, ma serbavano
il gilè, il berretto e gli stivali foderati di pelle d'agnello, per difendersi
dal freddo antartico che sibilava fra le tavole. Lei bendava loro gli occhi e
cominciava l'inseguimento. A volte si creava un tal baccano che le risate e gli
ansimi trapassavano la notte al di là delle rose e giungevano alle orecchie degli
inglesi, i quali rimanevano impassibili, fingendo che si trattasse solo del
capriccio del vento nella pampa, mentre continuavano a bere con parsimonia la
loro ultima tazza di tè di Ceylon prima di andare a letto. Il primo che metteva
le mani su Hermelinda lanciava un chicchirichì esultante e benediva la propria
buona sorte, mentre la imprigionava tra le braccia. Un altro dei giochi era
l'altalena. La donna si sedeva su un'asse appesa al tetto mediante due funi.
Sfidando gli sguardi assillanti, piegava le gambe e tutti potevano vedere che
non portava nulla sotto la gonna gialla. I giocatori, ordinati in fila, avevano
una sola opportunità di infilarla, e chi colpiva il bersaglio si vedeva
afferrato fra le cosce della bella, in un turbinio di sottane, dondolato,
scrollato fino alle ossa e finalmente elevato al cielo. Ma pochissimi ci
riuscivano, e la maggioranza finiva a terra fra le risate degli altri. Nel
gioco del rospo un uomo poteva perdere in un quarto d'ora la paga di un mese.
Hermelinda tracciava una linea per terra con un carboncino, e a quattro passi
di distanza disegnava un ampio cerchio in cui si sdraiava, con le ginocchia
aperte, le gambe dorate dalla luce delle lanterne ad acquavite. Appariva allora
lo scuro centro del suo corpo, aperto come un frutto, come un'allegra bocca di
rospo, mentre l'aria della stanza si faceva densa e calda. I giocatori si
collocavano dietro la linea e lanciavano cercando di colpire il bersaglio.
Alcuni erano esperti tiratori, dal polso tanto sicuro che potevano bloccare un
animale impaurito in piena corsa lanciandogli fra le zampe due pietre legate
con una corda, ma Hermelinda aveva una sua maniera impercettibile di spostare
il corpo, di sgusciar via affinché all'ultimo istante la moneta perdesse la
rotta. Quelle che atterravano all'interno del cerchio appartenevano alla donna.
Se una moneta entrava in porta, dava al suo lanciatore il tesoro del sultano,
due ore dietro la tenda solo con lei, in completo godimento, per trovar
consolazione a tutte le penurie passate e sognare i piaceri del paradiso.
Dicevano, quelli che avevano vissuto quelle due ore preziose, che Hermelinda
conosceva antichi segreti amorosi ed era capace di condurre un uomo fin sulla
soglia della morte per riportarlo indietro tramutato in un saggio. Fino al
giorno in cui comparve Pablo, l'asturiano, pochissimi avevano vinto quel paio
d'ore prodigiose, benché diversi avessero goduto di qualcosa di simile, ma non
per qualche centesimo, per la metà del salario. A quei tempi lei aveva già
accumulato una piccola fortuna, ma l'idea di ritirarsi in una vita più
convenzionale non le era ancora venuta; in realtà le piaceva molto il suo
lavoro e si sentiva orgogliosa degli istanti felici che poteva offrire ai
braccianti. Pablo era un uomo asciutto, dalle ossa di pollo e dalle mani di
fanciullo, il cui aspetto fisico contraddiceva la tremenda tenacia del suo
temperamento. Accanto all'opulenta e gioviale Hermelinda pareva un fosco
corvaccio, ma quelli che vedendolo arrivare pensarono di potersi divertire un
po' alle sue spalle ebbero una sgradevole sorpresa. Il piccolo forestiero reagì
come una vipera alla prima provocazione, pronto a battersi con chiunque gli si
fosse parato dinanzi, ma il tafferuglio si placò prima di cominciare, perché la
prima regola di Hermelinda era che sotto il suo tetto non si litigava. Una
volta stabilita la propria dignità, Pablo si calmò. Aveva un'espressione decisa
e un po' funebre, parlava poco e quando lo faceva veniva fuori il suo accento
di Spagna. Aveva lasciato la patria sfuggendo alla polizia e viveva del
contrabbando attraverso le gole delle Ande. Fino allora era stato un eremita
cupo e attaccabrighe, che si faceva beffe del clima, delle pecore e degli
inglesi. Non aveva radici da nessuna parte e non riconosceva amori né doveri,
ma non era più tanto giovane e la solitudine gli andava penetrando nelle ossa.
A volte si svegliava all'alba sul terreno gelato, avvolto nella sua nera
coperta di Castiglia, la cavalcatura per cuscino, sentendosi dolere tutto il
corpo. Non era un dolore di muscoli tumefatti, ma di tristezze accumulate e di
abbandono. Era stufo di vagare come un lupo, ma non era fatto per la
mansuetudine domestica. Giunse in quelle terre perché aveva sentito dire che
alla fine del mondo c'era una donna capace di piegare la direzione del vento, e
volle vederla con i propri occhi. L'enorme distanza e i pericoli del cammino
non riuscirono a farlo desistere, e quando finalmente si trovò nella baracca ed
ebbe Hermelinda a portata di mano vide che lei era fatta del suo stesso duro
metallo e decise che dopo un viaggio così lungo non valeva la pena di
continuare a vivere senza di lei. Si installò in un angolo della stanza a
osservarla con cura e a calcolare le sue possibilità. L'asturiano aveva viscere
d'acciaio e poté ingerire diversi bicchieri dei liquore di Hermelinda senza che
gli si annacquassero gli occhi. Non accettò di svestirsi per la ronda di San
Miguel, per il mandandirun-dirun-dàn né per altre gare che gli parvero
francamente infantili, ma sul finire della nottata, quando venne il momento
culminante del rospo, si scosse via i residui dell'alcool e si unì al coro di
uomini intorno al cerchio di carboncino. Hermelinda gli sembrò bella e
selvaggia come una leonessa di montagna. Si sentì montare alla testa l'istinto
del cacciatore, e il vago dolore dell'abbandono, che gli aveva tormentato le
ossa durante tutto il viaggio, gli si trasformò in gioiosa anticipazione. Vide
i piedi calzati con stivaletti bassi, le calze tese strette con elastici sotto
le ginocchia, le ossa lunghe e i muscoli tesi di quelle gambe d'oro tra le
ampie sottane gialle e seppe di avere una sola opportunità di conquistarla.
Prese posizione, piantando i piedi a terra e bilanciando il tronco fino a
trovare l'asse stesso della propria esistenza, e con uno sguardo acuminato come
un pugnale paralizzò la donna al suo posto e la costrinse a rinunciare ai suoi
trucchi da contorsionista. O forse le cose non andarono così, ma fu lei a
sceglierlo tra gli altri per accoglierlo col regalo della sua compagnia. Pablo
aguzzò la vista, esalò tutta l'aria dal petto e dopo qualche secondo di
concentrazione assoluta lanciò la moneta. Tutti la videro tracciare un arco
perfetto ed entrare pulitamente nel punto preciso. Una salva di applausi e di
fischi invidiosi celebrò l'impresa. Impassibile, il contrabbandiere si accomodò
il cinturone, fece tre lunghi passi avanti, prese la donna per mano e la mise
in piedi, pronto a provarle in due ore esatte che neanche lei avrebbe più
potuto fare a meno di lui. Uscì quasi trascinandola, e gli altri rimasero a
guardare gli orologi e a bere, finché passò il tempo del premio, ma ne
Hermelinda né lo straniero ricomparvero. Trascorsero tre ore, quattro, tutta la
notte, albeggiò e suonarono le campane della direzione chiamando al lavoro, ma
la porta non si aprì. A mezzogiorno gli amanti uscirono dalla stanza. Pablo non
scambiò uno sguardo con nessuno, filò a sellare il suo cavallo, un altro per
Hermelinda e una mula per il bagaglio. La donna indossava pantaloni e
giacchetta da viaggio e portava una borsa di tela piena di monete legata alla
cintola. Aveva un'espressione nuova negli occhi e un dondolio soddisfatto del
suo deretano memorabile. Entrambi accomodarono con circospezione i fagotti sul
dorso degli animali, montarono a cavallo e si avviarono. Hermelinda fece un
vago cenno di saluto ai suoi desolati ammiratori e seguì Pablo, l'asturiano,
per le pianure spelacchiate, senza guardarsi indietro. Non tornò mai più. Fu
tale la costernazione provocata dalla partenza di Hermelinda che per divertire
i suoi lavoratori la Compagnia Allevatrice installò altalene, comprò dardi e
frecce per il tiro al bersaglio e fece venire da Londra un enorme rospo di
ceramica dipinta con la bocca aperta, affinché i braccianti esercitassero la
mira lanciando monete; ma di fronte all'indifferenza generale quei giochi
finirono per decorare la terrazza della direzione, dove gli inglesi li usano
ancora per combattere il tedio al calar della sera.
L'ORO DI TOMAS VARGAS.
Prima che iniziasse il madornale bordello del progresso,
chi aveva qualche risparmio lo seppelliva, era l'unica maniera nota di metter
via il denaro; ma più tardi la gente prese confidenza con le banche. Quando
fecero la strada e diventò più facile arrivare in città con l'autobus,
cambiarono le monete d'oro e d'argento con pezzi di carta colorata e li misero
in casseforti, come fossero tesori. Tomas Vargas rideva di loro, perché non
aveva mai creduto in quel sistema. Il tempo gli diede ragione, e quando finì il
governo del Benefattore, che durò una trentina d'anni, a quanto si dice, le
banconote non valevano più niente e alcune finirono appiccicate alle pareti,
come decorazione e infame ricordo del candore dei loro proprietari. Mentre
tutti gli altri scrivevano lettere al nuovo Presidente e ai giornali per
lamentarsi della truffa collettiva delle nuove monete, Tomas Vargas teneva il
suo malloppo d'oro in una sepoltura sicura, anche se questo non attenuava le
sue abitudini d'avaro e accattone. Era un uomo senza decenza, chiedeva denaro
in prestito senza l'intenzione di restituirlo, e teneva i figli affamati e la
moglie in cenci, mentre lui portava cappelli di pelo e fumava sigari da
signore. Non pagava neanche la quota della scuola, i suoi sei figli legittimi
furono educati gratis perché la Maestra Inés decise che finché lei fosse stata
sana di mente e avesse avuto la forza di lavorare nessun bambino del paese
sarebbe rimasto analfabeta. Con l'età non divenne meno litigioso, ubriacone e
donnaiolo. Considerava un grande onore l'essere stimato il più maschio della
regione, come sbraitava in piazza ogni volta che la sbornia gli faceva perdere
i sentimenti e annunciare a pieni polmoni i nomi delle ragazze che aveva
sedotto e dei bastardi che avevano il suo sangue. A credergli dovevano essere
sui trecento, perché a ogni baldoria elencava nomi diversi. La polizia lo mise
dentro diverse volte, e il Tenente in persona gli propinò più di una
manganellata sulle natiche, per vedere se gli migliorava il carattere, ma la
cosa non ebbe più risultati delle prediche del curato. In realtà rispettava soltanto
Riad Halabì, il padrone dello spaccio, perciò i vicini ricorrevano a
quest'ultimo quando sospettavano che Tomas avesse passato i limiti della
dissipazione e stesse frustando moglie e figli In tali occasioni l'arabo
abbandonava il bancone in tanta fretta che non si ricordava di chiudere
bottega, e si presentava, soffocando di disgusto giustiziere, a mettere ordine
nel casale dei Vargas. Non aveva bisogno di dire molto, al vecchio bastava
vederlo comparire per calmarsi. Riad Halabì era l'unico capace di svergognare
quel bellimbusto. Antonia Sierra, la moglie di Vargas, aveva ventisei anni meno
di lui. Giunta alla quarantina era già una rovina, non le restava quasi un
dente sano in bocca e il suo agguerrito corpo di mulatta era stato deformato
dalla fatica, dai parti e dagli aborti; tuttavia conservava ancora l'impronta
della sua passata arroganza, una maniera di camminare con la testa ben eretta e
la vita stretta, un avanzo di antica bellezza, un tremendo orgoglio che
stroncava qualsiasi tentativo di compatirla. Le bastavano appena le ore per
portare a termine i suoi compiti, perché oltre a curare i figli e a occuparsi
dell'orto e delle galline si guadagnava qualcosa cucinando per la polizia,
lavando biancheria altrui e pulendo la scuola. A volte aveva il corpo
costellato di lividi blu, e anche se nessuno chiedeva niente tutta Agua Santa
sapeva delle bastonate che le impartiva il marito. Solo Riad Halabì e la
Maestra Inés si azzardavano a farle regali discreti, cercando scuse per non
offenderla, qualche indumento, cibo, quaderni e vitamine per i bambini. Molte
umiliazioni dovette sopportare Antonia Sierra da suo marito, compreso il fatto
che le imponesse una concubina nella sua stessa casa.
Concha Dìaz giunse ad Agua Santa a bordo di un camion
della Compagnia Petrolifera, sconsolata e lamentevole come uno spettro.
L'autista si era impietosito nel vederla scalza per la strada, col suo fagotto
in spalla e la sua pancia da donna gravida. Traversando il paese, i camion si
fermavano allo spaccio, perciò Riad Halabì fu il primo a sapere la notizia. La
vide comparire sulla porta e dalla maniera in cui lasciò cadere il fagotto
davanti al bancone si rese subito conto che non era di passaggio: quella
ragazza era venuta per restare. Era giovanissima, bruna e di bassa statura, con
un viluppo compatto di capelli crespi stinti dal sole, in cui sembrava non
fosse penetrato un pettine da molto tempo. Come faceva sempre con i visitatori,
Riad Halabì offrì a Concha una sedia e un succo d'ananas e si dispose ad
ascoltare il racconto delle sue avventure o disavventure, ma la ragazza parlava
poco, si limitava a soffiarsi il naso con le dita, gli occhi fissi a terra, le
lacrime che le scorrevano senza fretta sulle guance e una litania di rimproveri
che le sgorgava fra i denti. Infine l'arabo riuscì a capire che voleva vedere
Tomas Vargas, e mandò a cercarlo alla taverna. L'aspettò sulla porta e appena
lo ebbe davanti lo prese per un braccio e lo mise di fronte alla forestiera,
senza dargli il tempo di riprendersi dalla sorpresa. “La ragazza dice che il
bambino è tuo” disse Riad Halabì con quel tono dolce che usava quando era
indignato. “Non si può provarlo, turco. Si sa sempre chi è la madre, ma del
padre non c'è certezza” replicò l'altro confuso, ma con coraggio sufficiente ad
abbozzare una strizzatina d'occhio maliziosa che nessuno apprezzò. Stavolta la
donna si mise a piangere con entusiasmo, biascicando che non sarebbe venuta da
tanto lontano se non avesse saputo chi era il padre. Riad Halabì chiese a
Vargas se non si vergognasse, poteva essere il nonno della ragazza, e se
pensava che ancora una volta il paese dovesse perdere la faccia per i suoi
peccati si era sbagliato, cosa si era immaginato, ma quando il pianto della
giovane aumentò aggiunse quello che tutti sapevano avrebbe detto. “Va bene,
bimba, calmati. Puoi restare a casa mia per un po', almeno fino a che non nasce
il bambino.” Concha Dìaz prese a singhiozzare più forte e dichiarò che non
sarebbe andata ad abitare da nessuna parte, solo con Tomas Vargas, perché per
questo era venuta. L'aria si congelò nello spaccio, si fece un silenzio
lunghissimo, si sentivano solo i ventilatori sul soffitto e il moccichio della
donna, senza che nessuno osasse dirle che il vecchio era sposato e aveva sei
figli. Finalmente Vargas prese il fagotto della viaggiatrice e l'aiutò ad
alzarsi in piedi. “Benissimo, Conchita, se è questo che vuoi, non c'è altro da
dire. Andiamo a casa mia, adesso” disse. Fu così che tornando a casa dal lavoro
Antonia Sierra trovò un'altra donna che riposava nella sua amaca e per la prima
volta l'orgoglio non le bastò a dissimulare i suoi sentimenti. I suoi insulti
corsero per la strada principale e l'eco giunse fino in piazza e si infilò in
tutte le case, annunciando che Concha Dìaz era un immondo topo di fogna e che Antonia
Sierra le avrebbe reso la vita impossibile fino a rimandarla nella tana da cui
non avrebbe mai dovuto uscire, che se credeva che i suoi figli avrebbero
vissuto sotto lo stesso tetto con una troia si sbagliava, perché lei non era
una cretina, e suo marito era meglio che stesse attento, perché lei aveva
sopportato troppe sofferenze e troppe delusioni, tutto per i figli, poveri
innocenti, ma adesso basta, adesso tutti si sarebbero accorti chi era Antonia
Sierra. La rabbia le durò una settimana, in capo alla quale le urla si
trasformarono in un continuo mormorio e perse l'ultima traccia della sua
bellezza, non le restava più neanche la maniera di cammminare, si trascinava
come una cagna bastonata. I vicini tentarono di spiegarle che tutto quel casino
non era colpa di Concha ma di Vargas, ma lei non era disposta ad ascoltare
consigli di temperanza o di giustizia. La vita nel casale di quella famiglia
non era mai stata gradevole, ma con l'arrivo della concubina si mutò in un
tormento senza tregua. Antonia passava le notti accoccolata nel letto dei
figli, sputando maledizioni, mentre accanto suo marito russava abbracciato alla
ragazza. Appena spuntava il sole Antonia doveva alzarsi, preparare il caffè e
impastare le focaccine, mandare i bambini a scuola, curare l'orto, cucinare per
i poliziotti, lavare e stirare. Si occupava di tutte queste cose come un
automa, mentre dall'anima le distillava un rosario di amarezze. Poiché si
rifiutava di dar da mangiare a suo marito, Concha si incaricò di farlo quando
l'altra usciva, per non incontrarsi con lei davanti al focolare. Era tanto
l'odio di Antonia Sierra che alcuni in paese pensarono che avrebbe finito per
uccidere la rivale, e andarono a chiedere a Riad Halabì e alla Maestra Inés di
intervenire prima che fosse troppo tardi. Ma le cose non andarono in questo
modo. In capo a due mesi la pancia di Concha sembrava una zucca, le si erano
gonfiate tanto le gambe che le vene erano sul punto di scoppiare, e piangeva
continuamente perché si sentiva sola e spaventata. Tomas Vargas si stufò di
tante lacrime e decise di andare a casa solo per dormire. Dato che non fu più
necessario che le donne facessero i turni per cucinare, Concha perse l'ultimo
incentivo a vestirsi e rimase sdraiata nell'amaca a guardare il soffitto, senza
neanche la forza di farsi un caffè. Antonia la ignorò per tutto il primo
giorno, ma la sera le mandò un piatto di minestra e un bicchiere di latte caldo
mediante uno dei bambini, affinché non dicessero che lei lasciava morire di
fame qualcuno sotto il suo tetto. La cosa si ripeté e pochi giorni dopo Concha
si alzò per mangiare con gli altri. Antonia fingeva di non vederla, ma almeno
smise di lanciare insulti all'aria ogni volta che l'altra le passava vicino. A
poco a poco fu sopraffatta dalla compassione. Quando vide che la ragazza
deperiva ogni giorno di più, un povero spaventapasseri dal ventre immenso e
dalle occhiaie profonde, cominciò ad ammazzare le sue galline a una a una per
farle il brodo, e quando finì il pollame fece ciò che fino allora non aveva mai
fatto, andò a chiedere aiuto a Riad Halabì. “Sei figli ho avuto, e diverse
nascite malriuscite, ma non ho mai visto nessuno ammalarsi tanto di gravidanza”
spiegò arrossendo. “È tutta ossa, turco, non riesce a mandar giù il boccone che
lo sta già vomitando. Non che a me importi, non ho niente a che vedere con
questa storia, ma cosa dico a sua madre se mi muore? Non voglio che dopo
vengano a chieder conto a me.” Riad Halabì portò all'ospedale la malata con la
sua camionetta, e Antonia l'accompagnò. Tornarono con una borsa di pillole di
vari colori e un vestito nuovo per Concha, perché il suo non le arrivava più
giù della cintura. La disgrazia dell'altra donna costrinse Antonia Sierra a
rivivere frammenti della propria gioventù, della sua prima gravidanza e delle
stesse violenze che lei aveva sopportato. Desiderava, suo malgrado, che il
futuro di Concha Dìaz non fosse funesto come il suo. Non provava più rabbia, ma
una tacita compassione, e cominciò a trattarla come una figlia traviata, con
una autorità brusca che riusciva appena a nascondere la tenerezza. La giovane
era terrorizzata nel vedere le perniciose trasformazioni nel proprio corpo,
quella deformità che aumentava senza controllo, quella vergogna di andare a
orinare ad ogni istante e di camminare come un papero, quella repulsione
incontrollabile e quella voglia di morire. Certi giorni si svegliava
ammalatissima e non poteva alzarsi dal letto, allora Antonia faceva fare i
turni ai bambini per curarla mentre lei partiva a compiere i suoi lavori di
gran carriera, per ritornare presto da lei; ma in altre occasioni Concha si
svegliava più in forze e quando Antonia tornava stremata trovava la cena pronta
e la casa pulita. La ragazza le serviva il caffè e rimaneva in piedi accanto a
lei, in attesa che lo bevesse, con uno sguardo liquido di animale grato. Il
bimbo nacque nell'ospedale della città, perché non volle venire al mondo e
dovettero aprire Concha Dìaz per tirarglielo fuori. Antonia rimase con lei otto
giorni, durante i quali la Maestra Inés si occupò dei suoi bambini. Le due
donne rientrarono sulla camionetta dello spaccio e tutta Agua Santa venne fuori
a dar loro il benvenuto. La madre sorrideva, mentre Antonia esibiva il neonato
con un urlo di trionfo da nonna, annunciando che sarebbe stato battezzato Riad
Vargas Dìaz, in doveroso omaggio al turco, perché senza il suo aiuto la madre
non avrebbe portato a termine la maternità e inoltre era stato lui a
incaricarsi delle spese quando il padre aveva fatto il sordo e si era finto più
ubriaco del solito per non disseppellire il suo oro. Prima di due settimane
Tomas Vargas volle esigere che Concha Dìaz tornasse nella sua amaca, benché la
donna avesse ancora una cicatrice fresca e un bendaggio da guerra attorno al
ventre, ma Antonia Sierra gli si piazzò davanti con le mani sui fianchi, decisa
per la prima volta in vita sua a impedire che il vecchio facesse secondo il suo
capriccio. Suo marito accennò a togliersi il cinturone per impartirle le
frustate abituali, ma lei non gli lasciò finire il gesto e gli si gettò addosso
con tale fierezza che l'uomo indietreggiò, sorpreso. Quel vacillamento lo
perse, perché lei seppe allora chi era il più forte. Intanto Concha Dìaz aveva
posato suo figlio in un angolo e impugnava un pesante vaso di terracotta, con
l'evidente proposito di fracassarglielo in testa. L'uomo comprese il proprio
svantaggio e uscì di casa lanciando bestemmie.. Tutta Agua Santa venne a
conoscenza dell'accaduto perché lui stesso lo raccontò alle ragazze del
postribolo, le quali dissero anche che Vargas non funzionava più e che tutte le
sue vanterie di stallone erano pure fanfaronate senza nessun fondamento. A
partire da quell'incidente le cose cambiarono. Concha Dìaz si riprese
rapidamente e mentre Antonia Sierra usciva a lavorare lei badava ai bambini e
si occupava dell'orto e della casa. Tomas Vargas inghiottì il dispiacere e
tornò umilmente alla sua amaca, dove non ebbe compagnia. Alleviava il dispetto
maltrattando i figli e dicendo alla taverna che le donne, come i muli,
capiscono solo le bastonate, ma in casa non tentò più di picchiarle. Quand'era
ubriaco strillava ai quattro venti i vantaggi della bigamia, e il curato
dovette dedicare diverse domeniche a ribattergli dal pulpito, perché l'idea non
attecchisse e gli andassero in malora tutti gli anni che aveva predicato la
virtù cristiana della monogamia.
Ad Agua Santa si poteva tollerare che un uomo maltrattasse
la sua famiglia, fosse un fannullone e un attaccabrighe, non restituisse i
soldi presi a prestito; ma i debiti di gioco erano sacri. Alla lotta dei galli
le banconote si tenevano ben piegate fra le dita, dove tutti potessero vederle,
e al domino, ai dadi o a carte si posavano sul tavolo a sinistra del giocatore.
A volte i camionisti della Compagnia Petrolifera si fermavano per qualche
partita a poker, e anche se loro i soldi non li mettevano in vista, prima di
andarsene pagavano fino all'ultimo centesimo. Il sabato arrivavano le guardie
del Penitenziario di Santa Maria per visitare il bordello e giocare alla
taverna la paga settimanale. Neanche loro, che erano molto più banditi dei
detenuti che sorvegliavano, osavano giocare se non avevano di che pagare.
Nessuno violava questa regola. Tomas Vargas non puntava, ma gli piaceva
guardare i giocatori, poteva passare ore a osservare un domino, era il primo a
installarsi nelle lotte dei galli e seguiva i numeri della lotteria che
annunciavano alla radio, anche se lui non ne comprava mai uno. Era difeso da
questa tentazione dalla potenza della sua avarizia. Tuttavia, quando la ferrea
complicità di Antonia Sierra e Concha Dìaz gli stroncò definitivamente l'impeto
virile, si diede al gioco. All'inizio scommetteva solo poste misere e solo gli
ubriachi più poveri accettavano di sedersi al tavolo con lui, ma con le carte
ebbe più fortuna che con le sue donne, e presto gli venne il tarlo del denaro
facile e cominciò ad alterarsi fino al midollo stesso della sua natura
meschina. Con la speranza di diventare ricco in un solo colpo di fortuna e di
recuperare insieme, mediante l'illusoria proiezione di quel trionfo, il suo
umiliato prestigio di maschio, cominciò ad aumentare i rischi. Presto si
misurarono con lui i giocatori più bravi, e gli altri facevano cerchio per
seguire l'alternarsi di ogni incontro. Tomas Vargas non metteva le banconote
ben stirate sul tavolo, come voleva la tradizione, ma quando perdeva pagava. In
casa la povertà aumentò e anche Concha uscì a lavorare. I bambini rimasero soli
e la Maestra Inés dovette alimentarli perché non andassero per il paese
imparando a mendicare. Le cose si complicarono per Tomas Vargas quando accettò
la sfida del Tenente e dopo sei ore di gioco gli vinse duecento pesos.
L'ufficiale confiscò lo stipendio dei subalterni per pagare la perdita. Era un
bruno ben piantato, con un paio di baffi da tricheco e la casacca sempre aperta
perché le ragazze potessero apprezzare il suo torso villoso e la sua collezione
di catenine d'oro. Nessuno lo stimava ad Agua Santa, perché era un uomo dal
carattere imprevedibile e si attribuiva l'autorità di inventare leggi a suo
capriccio e convenienza. Prima del suo arrivo, il carcere era solo un paio di
stanze per passare la notte dopo qualche rissa non ci furono mai delitti gravi
ad Agua Santa, e gli unici malfattori erano i detenuti in transito per il
penitenziario di Santa Maria, ma il Tenente si incaricò di far sì che nessuno
passasse dalla caserma senza prendersi una buona dose di bastonate. Grazie a
lui la gente contrasse la paura della legge. Era indignato per la perdita dei
duecento pesos, ma consegnò la somma senza batter ciglio e persino con una
certa elegante noncuranza, perché neanche lui, con tutto il peso del suo
potere, si sarebbe alzato dal tavolo senza pagare. Tomas Vargas passò due
giorni vantandosi del suo trionfo, finché il Tenente lo avvertì che l'aspettava
il sabato per la rivincita. Stavolta la posta sarebbe stata di mille pesos, gli
annunciò con un tono tanto perentorio che l'altro si ricordò delle manganellate
ricevute sul sedere e non si azzardò a rifiutare. Il pomeriggio del sabato la
taverna era piena di gente. Nella calca e nella calura mancava l'aria, e si
dovette trasferire il tavolo in strada perché tutti potessero essere testimoni
della partita. Non si era mai puntato tanto denaro ad Agua Santa, e per
assicurare la correttezza del procedimento designarono Riad Halabì. Questi
cominciò con l'esigere che il pubblico si tenesse a due passi di distanza, per
impedire qualsiasi trucco, e che il Tenente e gli altri poliziotti lasciassero
le armi in caserma. “Prima di iniziare i due giocatori devono mettere i soldi
sul tavolo” disse l'arbitro. “La mia parola basta, turco” replicò il Tenente.
“In questo caso anche la mia parola basta” aggiunse Tomas Vargas. “Come
pagherete se perdete?” volle sapere Riad Halabì. “Ho una casa nella capitale,
se perdo Vargas avrà i documenti domani stesso.” “Benissimo. E tu?” “Io pago
con l'oro che ho nascosto.” La partita fu la più emozionante verificatasi in
paese da molti anni. Tutta Agua Santa, perfino i vecchi e i bambini, si ammassò
in strada. Le uniche assenti erano Antonia Sierra e Concha Dìaz. Né il Tenente
né Tomas Vargas ispiravano simpatia alcuna, per cui chiunque vincesse faceva lo
stesso, il divertimento consisteva nell'indovinare le angosce dei due giocatori
e di chi aveva scommesso sull'uno o sull'altro. Tomas Vargas era favorito dal
fatto che fino allora era stato fortunato con le carte, ma il Tenente aveva il
vantaggio del suo sangue freddo e del suo prestigio di prepotente. Alle sette
di sera terminò la partita, e secondo le norme stabilite Riad Halabì proclamò
vincitore il Tenente. Nel trionfo il poliziotto mantenne la stessa calma che
aveva dimostrato la settimana precedente nella disfatta, né un sorriso
beffardo, né una Parola fuori posto, rimase semplicemente seduto dov'era
frugandosi i denti con l'unghia del mignolo. “Bene, Vargas, è venuta l'ora di
dissotterrare il tuo tesoro” disse quando si placò il vocio degli astanti. La
pelle di Tomas Vargas era diventata color cenere, aveva la camicia inzuppata di
sudore e sembrava che l'aria non volesse entrargli nel corpo, rimanesse
bloccata nella bocca. Per due volte tentò di alzarsi in piedi e gli mancarono
le ginocchia. Riad Halabì dovette sostenerlo. Finalmente trovò la forza per
avviarsi in direzione dello stradone, seguito dal Tenente, dai poliziotti,
dall'arabo, dalla Maestra Inés e più a distanza da tutto il paese in rumorosa
processione. Camminarono per un paio di miglia e poi Vargas piegò a destra,
infilandosi nel tumulto della vegetazione lussureggiante che circondava Agua
Santa. Non c'era sentiero, ma si aprì il passo senza grandi incertezze fra gli
alberi giganteschi e le felci, fino all'orlo di un burrone appena visibile,
perché la selva era un sipario impenetrabile. Lì si fermò la folla, mentre lui
scendeva con il Tenente. Faceva un caldo umido e soffocante, benché mancasse
poco al tramonto. Tomas Vargas fece segno che lo lasciassero solo, si mise a
quattro zampe e scomparve strisciando sotto alcuni filodendri dalle grandi
foglie carnose. Passò un lungo minuto prima che si sentisse il suo urlo. Il
Tenente si ficcò nel fogliame, lo prese per le caviglie e lo trascinò fuori a
strattoni. “Che succede?” “Non c'è, non c'è!” “Come non c'è!” “Lo giuro,
Tenente, non so, non so, me l'hanno rubato, mi hanno rubato il tesoro!” E
scoppiò a piangere come una vedova, talmente disperato che non si accorgeva
nemmeno dei calci che gli propinava il Tenente. “Maiale! Mi devi pagare! Mi
devi pagare, sulla testa di tua madre!” Riad Halabì si lanciò giù per il
burrone e glielo tolse dalle mani prima che ne facesse polpette. Riuscì a
convincere il Tenente a calmarsi, perché con le botte non avrebbe risolto la
faccenda, poi aiutò il vecchio a risalire. Tomas Vargas aveva le ossa in
poltiglia per lo sbigottimento, soffocava dai singhiozzi e tanti erano i suoi
tentennamenti e deliqui che l'arabo dovette quasi portarlo in braccio per tutta
la via del ritorno, fino a depositarlo finalmente nel suo casale. Sulla soglia
c'erano Antonia Sierra e Concha Dìaz, sedute su due sedie impagliate, a bere il
caffè e a guardare la notte che scendeva. Non mostrarono alcun indizio di
costernazione nell'apprendere l'accaduto e continuarono a sorbire il caffè,
impassibili. Tomas Vargas ebbe la febbre per più di una settimana, delirando di
monete d'oro e di carte segnate, ma era di complessione robusta e invece di
morire di dolore, come tutti supponevano, recuperò la salute. Quando poté
alzarsi non si azzardò a uscire per diversi giorni, ma infine il suo amore per
la gozzoviglia poté più della sua prudenza, prese il cappello, e ancora
tremolante e sbigottito si diresse alla taverna. Quella notte non rientrò e due
giorni dopo qualcuno portò la notizia che si era sfracellato nello stesso
burrone in cui aveva nascosto il suo tesoro. Lo trovarono squartato a colpi di
machete, come una bestia da macello, proprio come tutti sapevano che avrebbe
finito i suoi giorni, presto o tardi. Antonia Sierra e Concha Dìaz lo
seppellirono senza grandi mostre di sconforto e senza altro corteo che Riad
Halabì e la Maestra Inés, che andarono per accompagnare loro e non per rendere
un omaggio postumo a colui che avevano disprezzato in vita. Le due donne
continuarono a vivere insieme, pronte ad aiutarsi reciprocamente nel tirar su i
figli e nelle vicissitudini di ogni giorno. Poco dopo il funerale comprarono
galline, conigli e maiali, andarono in città con l'autobus e tornarono con
abiti nuovi per tutta la famiglia. Quell'anno sistemarono il casale con legname
nuovo, aggiunsero due stanze, lo dipinsero di azzurro e poi installarono una
cucina a gas, dando inizio a un'industria di cibo da recapitarsi a domicilio.
Ogni mezzogiorno partivano con i bambini per distribuire le vivande alla
caserma, alla scuola, alla posta, e se avanzavano porzioni le lasciavano sul
bancone dello spaccio, perché Riad Halabì le offrisse in vendita ai camionisti.
E così uscirono dalla miseria e imboccarono il cammino della prosperità.
SE MI TOCCASSI IL CUORE.
Amadeo Peralta crebbe tra i bravacci della banda del
padre, e diventò un duro come tutti gli uomini della sua famiglia. Suo padre
pensava che gli studi fossero roba da finocchi, non ci vogliono libri per
affermarsi nella vita, ci vogliono un paio di coglioni e astuzia, diceva,
perciò allevò i suoi figli nell'ignoranza. Col tempo tuttavia comprese che il
mondo stava cambiando molto rapidamente, e che i suoi affari dovevano
consolidarsi su basi più stabili. L'epoca della rapina sfacciata era stata
sostituita dalla corruzione e dalla ruberia dissimulata, era ora di
amministrare la ricchezza con criteri moderni e di migliorare la propria
immagine. Radunò i figli e impose loro il compito di stringere amicizia con
persone influenti e di imparare qualcosa sui codici, affinché continuassero a
prosperare senza il rischio di perdere l'impunità. Raccomandò anche che si
cercassero le fidanzate tra le famiglie più distinte e antiche della regione,
per vedere se riuscivano a lavare il nome dei Peralta da tante macchie di fango
e di sangue. A quel tempo Amadeo aveva compiuto i trentadue anni e si era radicato
nell'abitudine di sedurre ragazze per poi abbandonarle, per cui l'idea del
matrimonio non gli piacque affatto, ma non osò disobbedire al padre. Cominciò a
corteggiare la figlia di un possidente la cui famiglia viveva nella stessa
località da sei generazioni. Nonostante la torbida fama del pretendente lei lo
accettò, perché non era per niente carina e temeva di rimanere zitella. Diedero
inizio allora a uno di quei noiosi fidanzamenti di provincia. A disagio nel suo
abito di lino bianco e nelle sue scarpine lucide, Amadeo le faceva visita ogni
giorno sotto lo sguardo attento della futura suocera o di qualche zia, e mentre
la signorina serviva caffè e dolci di guayaba lui sbirciava l'orologio
calcolando il momento opportuno per congedarsi. Poche settimane prima delle
nozze Amadeo Peralta dovette fare un viaggio d'affari per la provincia. Giunse
così ad Agua Santa, uno di quei posti dove nessuno si ferma e il cui nome i
viaggiatori raramente ricordano. Passava per una strada stretta, nell'ora della
siesta, maledicendo il caldo e quell'odore dolciastro di marmellata di mango
che appesantivano l'aria, quando sentì un suono cristallino come d'acqua che
scivolasse fra le pietre, che proveniva da una casa modesta, con l'intonaco
scrostato dal sole e dalla pioggia, come quasi tutte da quelle parti.
Attraverso il cancello vide un androne dalle mattonelle scure e dalle pareti
imbiancate a calce, in fondo un patio, e laggiù la visione sorprendente di una
ragazza seduta a terra con le gambe incrociate, che sosteneva sulle ginocchia
un salterio di legno biondo. Rimase a guardarla per un pezzo. “Vieni, bimba” la
chiamò finalmente. Lei alzò la faccia, e malgrado la distanza Amadeo distinse
gli occhi sorpresi e il sorriso incerto su un volto ancora infantile. “Vieni
con me” ordinò, implorò, Amadeo con voce secca. Lei vacillò. Le ultime note
rimasero sospese nell'aria del patio come una domanda. Peralta la chiamò di
nuovo, lei si alzò e si avvicinò, lui infilò il braccio tra le sbarre del
cancello, fece scorrere il chiavistello, aprì e la prese per mano, mentre le
recitava tutto il suo repertorio di rubacuori, giurandole che l'aveva vista in
sogno, che l'aveva cercata per tutta la vita, che non poteva più lasciarla e
che lei era la donna che il destino gli aveva decretato, tutte cose di cui
avrebbe potuto fare a meno, perché la ragazza era semplice di mente e non capì
il senso delle sue parole, benché forse fosse sedotta dal tono della voce.
Hortensia aveva appena compiuto i quindici anni e il suo corpo era pronto per
il primo abbraccio, anche se lei non lo sapeva e non poteva dare un nome a
quelle inquietudini e trepidazioni. Per lui fu così facile portarla alla
macchina e condurla in un campo che un'ora dopo l'aveva già dimenticata
completamente. Né la ricordava quando una settimana più tardi lei comparve
improvvisamente in casa sua, a centoquaranta chilometri di distanza, vestita
con un grembiule di cotone giallo e scarpe di tela, col suo salterio
sottobraccio, accesa dalla febbre dell'amore. Quarantasette anni dopo, quando Hortensia
fu tirata fuori dalla tomba in cui era rimasta sepolta e i giornalisti vennero
da ogni parte del paese per fotografarla, lei non sapeva più neanche il suo
nome né come era arrivata lì. “Perché l'ha tenuta rinchiusa come una bestia
miserabile?” I reporter incalzarono Amedeo Peralta. “Perché mi andava così”
replicò lui tranquillamente. Allora aveva già ottant'anni ed era lucido come
sempre, ma non capiva quello scandalo tardivo per una cosa accaduta tanto tempo
prima. Non era disposto a dare spiegazioni. Era uomo dalla parola autoritaria,
patriarca e bisnonno, nessuno osava guardarlo negli occhi e persino i preti lo
salutavano chinando il capo. Nella sua lunga vita accrebbe la fortuna ereditata
dal padre, si impadronì di tutte le terre dalle rovine del forte spagnolo fino
ai confini di stato, poi si lanciò in una carriera politica che lo rese il
cacicco più potente della zona. Sposò la brutta figlia del possidente, da lei
ebbe nove discendenti legittimi e con altre donne generò un numero imprecisato
di bastardi, senza serbare il ricordo di nessuna perché aveva il cuore
definitivamente mutilato per l'amore. L'unica che non poté scartare del tutto
fu Hortensia, perché gli rimase incollata alla coscienza come un incubo
persistente. Dopo il breve incontro con lei sull'erba di un terreno abbandonato
tornò alla sua casa, al suo lavoro e alla sua insipida fidanzata di onorata
famiglia. Fu Hortensia che lo cercò fino a trovarlo, fu lei a piazzarglisi
davanti e ad afferrare la sua camicia con una spaventosa sottomissione da
schiava. Guarda che casino, pensò lui allora, sono sul punto di sposarmi con
pompa e fanfara e mi salta fuori questa bambina deficiente. Voleva disfarsene
subito, ma vedendola col suo vestitino giallo e gli occhi supplichevoli gli
parve uno spreco non approfittare dell'occasione, e decise di nasconderla
finché non gli fosse venuta in mente una soluzione. E così, quasi per
distrazione, Hortensia andò a finire nel sotterraneo del vecchio zuccherificio
dei Peralta, dove rimase sepolta per tutta la vita. Era un locale ampio, umido,
buio, asfissiante d'estate e freddo in alcune notti della stagione secca,
arredato con qualche vecchio mobile e un pagliericcio. Amadeo Peralta non si
diede cura di sistemarla meglio, benché talvolta accarezzasse la fantasia di
trasformare la ragazza in una concubina da mille e una notte, avvolta in veli
leggeri e circondata da piume di pavone, tendaggi di broccato, lampade di vetro
dipinto, mobili dorati dalle zampe contorte e tappeti folti su cui potesse
camminare scalzo. Forse l'avrebbe fatto se lei gli avesse ricordato le sue
promesse, ma Hortensia era come un uccello notturno, uno di quei guaciari
ciechi che vivono in fondo alle grotte, aveva bisogno solo di un po' di cibo e
d'acqua. Il vestito giallo le marcì addosso e rimase nuda. “Lui mi ama, mi ha
sempre amata” dichiarò quando la tirarono fuori. In tanti anni di reclusione
aveva perso l'uso della parola e la voce le veniva fuori a scossoni, come un
rantolo di moribondo. Le prima settimane Amadeo passò molto tempo nel sotterraneo
con lei, saziando un appetito che credette inesauribile. Temendo che la
scoprissero e geloso persino dei propri occhi, non volle esporla alla luce
naturale e lasciò entrare solo un tenue raggio attraverso la finestrella di
ventilazione. Nell'oscurità si sollazzarono nel massimo disordine dei sensi,
con la pelle ardente e il cuore mutato in un granchio affamato. Lì gli odori e
i sapori acquistavano una qualità estrema. Toccandosi nelle tenebre riuscivano
a penetrare nell'essenza dell'altro e a immergersi nelle intenzioni più
segrete. In quel luogo le loro voci risuonavano con un'eco ripetuta, le pareti
restituivano ampliati i mormorii e i baci. Il sotterraneo divenne un'ampolla
sigillata in cui si rivoltolavano come gemelli viziosi naviganti in acque
amniotiche, due creature turgide e stordite. Per un certo tempo si persero in
una intimità assoluta che confusero con l'amore. Quando Hortensia si
addormentava il suo amante usciva in cerca di qualcosa da mangiare, e prima che
lei si svegliasse rientrava con rinnovato brio ad abbracciarla di nuovo. Così
avrebbero dovuto amarsi fino a morire disfatti dal desiderio, avrebbero dovuto
divorarsi l'un l'altro o ardere come una duplice torcia; ma nulla di questo
accadde. Invece si verificò la cosa più prevedibile e più quotidiana, la meno
grandiosa. Prima di un mese Amadeo Peralta si stancò dei giochi, che già
cominciavano a ripetersi, sentì l'umidità rodergli le articolazioni e cominciò
a pensare a tutto ciò che c'era fuori da quell'antro. Era ora di rientrare nel
mondo dei vivi e di riprendere le redini del suo destino. “Aspettami qui,
bimba. Vado fuori a diventare ricchissimo. Ti porterò regali, vestiti e
gioielli da regina” le disse congedandosi. “Voglio figli” disse Hortensia.
“Figli no, ma avrai bambole.” Nei mesi seguenti Peralta si dimenticò dei
vestiti, dei gioielli e delle bambole. Faceva visita a Hortensia ogni volta che
se ne ricordava, non sempre per far l'amore, a volte solo per sentirla suonare
qualche melodia antica sul salterio, gli piaceva vederla china sullo strumento
a pizzicare le corde. Certe volte aveva tanta fretta che non scambiava neppure
una parola con lei, le riempiva gli orci d'acqua, le lasciava una borsa di
provviste e ripartiva. Quando si dimenticò di farlo per nove giorni e la trovò
moribonda, comprese la necessità di procurarsi qualcuno che lo aiutasse a
badare alla prigioniera, perché la famiglia, i viaggi, gli affari e gli impegni
sociali lo rendevano occupatissimo. Un'india ermetica gli servì allo scopo.
Teneva lei la chiave del lucchetto ed entrava regolarmente a pulire la cella e
a raschiare i licheni che crescevano sul corpo di Hortensia come una flora
delicata e pallida, quasi invisibile a occhio nudo, odorosa di terra smossa e
di cosa abbandonata. “Non aveva pietà di quella povera donna?” chiesero
all'india quando arrestarono anche lei, con l'accusa di complicità nel
sequestro, ma lei non rispose e si limitò a guardare nel vuoto con occhi
impavidi e a lanciare uno scaracchio nero di tabacco. No, non aveva pietà
perché credeva che l'altra avesse la vocazione della schiava e quindi fosse
felice di esserlo, o che fosse idiota di nascita, e quindi, come tanti altri
nella sua condizione, stesse meglio rinchiusa che esposta alle beffe e ai
pericoli della strada. Hortensia non contribuì a mutare l'opinione che la sua
carceriera aveva di lei, non manifestò mai alcuna curiosità per il mondo, non
tentò di uscire a respirare aria pulita né si lagnò di nulla. Neppure pareva
annoiarsi, la sua mente si era arrestata in qualche momento dell'infanzia e la
solitudine finì per turbarla del tutto. In realtà andò trasformandosi in una
creatura sotterranea. In quella tomba i suoi sensi si affinarono e apprese a
vedere l'invisibile, la circondarono allucinanti spiriti che la conducevano per
mano in altri universi. Mentre il suo corpo rimaneva rannicchiato in un angolo,
lei viaggiava per lo spazio siderale come una particella messaggera, vivendo in
un territorio oscuro al di là della ragione. Se avesse avuto uno specchio per
guardarsi si sarebbe spaventata del proprio aspetto, ma poiché non poteva
vedersi non si accorse del proprio deterioramento, non seppe delle squame che
le coprirono la pelle, dei bachi da seta che si annidarono nei suoi lunghi
capelli mutati in stoppa, delle nubi plumbee che le coprirono gli occhi ormai
morti dal tanto scrutare nella penombra. Non sentì come le crescevano le
orecchie per captare i suoni esterni, anche i più tenui e lontani, come le
risate dei bambini durante la ricreazione, la campanella del gelato, gli
uccelli in volo, il mormorio del fiume. Né si rese conto che le sue gambe prima
graziose e salde si contorsero per adattarsi alla necessità di star ferma e di
trascinarsi, né che le unghie dei piedi le crebbero come artigli da belva, le
ossa le si trasformarono in tubi di vetro, il ventre le si incavò e le spuntò
una gobba. Solo le mani conservarono la loro forma e dimensione, sempre
occupate nell'esercizio del salterio, benché le sue dita non ricordassero più
le melodie apprese e strappavano invece allo strumento il pianto che non le
usciva dal petto. Da lontano Hortensia sembrava una triste scimmia da fiera e
da vicino ispirava una pena infinita. Non aveva coscienza alcuna di queste
maligne trasformazioni, nella sua memoria serbava intatta la propria immagine,
continuava a essere la stessa ragazza che vide riflessa per l'ultima volta nel
cristallo del finestrino dell'auto di Amadeo Peralta, il giorno in cui la
condusse nella sua prigione. Si credeva bella come sempre e continuò ad agire
come se lo fosse, in tal modo il ricordo della sua bellezza rimase rannicchiato
nel suo intimo, e chiunque le si avvicinasse abbastanza poteva scorgerlo sotto
il suo aspetto esterno di nano preistorico. Intanto Amadeo Peralta, ricco e
temuto, estendeva per tutta la regione la rete del suo potere. La domenica
sedeva in capo a una lunga tavola, con figli e nipoti maschi, con seguaci e
complici, e con alcuni invitati di riguardo, politici e militari che trattava
con cordialità rumorosa, non priva dell'altezzosità necessaria perché
ricordassero chi era il padrone. Alle sue spalle si vociferava delle sue
vittime, di quanti aveva lasciato in rovina o fatto scomparire, della
corruzione delle autorità, del fatto che la metà della sua fortuna proveniva
dal contrabbando; ma nessuno era disposto ad andare in cerca di prove. Dicevano
anche che Peralta teneva una donna prigioniera in un sotterraneo. Questa parte
della sua leggenda nera veniva ripetuta con maggior sicurezza di quella dei
suoi traffici illegali; in realtà molti lo sapevano, e col tempo divenne un
segreto di pulcinella. Un pomeriggio di gran calura tre bambini scapparono
dalla scuola per andare a fare il bagno nel fiume. Passarono un paio d'ore a
sguazzare nel fango della riva e poi andarono a vagabondare attorno allo
zuccherificio abbandonato dei Peralta, chiuso da due generazioni, da quando la
canna aveva smesso di rendere. Quel luogo aveva fama di essere stregato, si
diceva che vi si sentivano rumori demoniaci e molti avevano visto aggirarvisi
una strega scarmigliata che invocava le anime degli schiavi morti. Esaltati
dall'avventura, i ragazzini entrarono nel recinto e si avvicinarono
all'edificio della fabbrica. Presto si azzardarono a penetrare fra le rovine,
percorsero le vaste stanze dalle grandi pareti di mattoni crudi, dalle travi rose
dai tarli, si destreggiarono tra i rovi cresciuti sul pavimento, i cumuli di
spazzatura e merda di cane, le tegole marce e i nidi di serpi. Incoraggiandosi
a forza di scherzi, spingendosi, giunsero fino alla sala della macinatura,
un'enorme stanza a cielo aperto, con resti di macchinari in frantumi, dove la
pioggia e il sole avevano creato un giardino impossibile e dove credettero
percepire una traccia penetrante di zucchero e sudore. Quando cominciava a
passargli la paura, sentirono chiaramente un canto mostruoso. Tremando
tentarono di retrocedere, ma l'attrazione dell'orrore poté più della paura e
rimasero paralizzati finché l'ultima nota si inchiodò in fronte. A poco a poco
riuscirono a vincere l'immobilità, si scossero via lo spavento e cominciarono a
cercare l'origine di quegli strani suoni, tanto diversi da qualsiasi musica
conosciuta, e così si imbatterono in una piccola botola nel pavimento, chiusa
con un lucchetto che non riuscirono ad aprire. Scossero la tavola di legno che
chiudeva l'ingresso e un indescrivibile odore di belva in gabbia li colpì in
faccia. Chiamarono, ma nessuno rispose, sentirono solo dall'altra parte un
sordo ansimare. Allora partirono di corsa ad avvertire urlando che avevano
scoperto la porta dell'inferno. Il tumulto provocato dai bambini non poté
essere tacitato e così i paesani accertarono finalmente ciò che avevano
sospettato da decenni. Prima arrivarono le madri dietro i figli a sbirciare
dalle fessure della botola, e anche loro sentirono le note terribili del
salterio, molto diverse dalla melodia banale che indusse Amadeo Peralta a
fermarsi in un vicolo di Agua Santa per asciugarsi il sudore della fronte.
Dietro di esse accorse un drappello di curiosi e infine, quando già si era
radunata una folla, apparvero poliziotti e pompieri, che fracassarono la botola
a colpi d'ascia e si infilarono nel buco con lanterne e arnesi da incendio. Nel
sotterraneo trovarono una creatura nuda, con la pelle flaccida che pendeva in
pallide pieghe, che trascinava per terra lunghissime ciocche grigie e gemeva
terrorizzata dal rumore e dalla luce. Era Hortensia, che brillava con una
fosforescenza da madreperla sotto le lanterne implacabili dei pompieri, quasi
cieca, con i denti guasti e le gambe tanto deboli che quasi non poteva reggersi
in piedi. L'unico segno della sua origine umana era un vecchio salterio stretto
contro il grembo. La notizia provocò indignazione in tutto il paese. Sugli
schermi televisivi e sui giornali apparve la donna riscattata dal buco in cui
aveva passato la vita, seminascosta da una coperta che qualcuno le aveva messo
sulle spalle. L'indifferenza che per quasi mezzo secolo aveva circondato la
prigioniera si mutò in poche ore nell'ansia di vendicarla e soccorrerla. I
compaesani improvvisarono picchetti per linciare Amadeo Peralta, attaccarono la
sua casa, lo trascinarono fuori, e se la guardia non fosse arrivata in tempo a
strapparglielo dalle mani lo avrebbero fatto a pezzi in piazza. Per soffocare
la colpa di averla ignorata durante tanto tempo, tutti vollero occuparsi di Hortensia.
Si raccolse denaro per darle una pensione, si accumularono tonnellate di abiti
e medicine di cui non aveva bisogno, e diverse organizzazioni di beneficenza si
dedicarono al compito di raschiarle via il sudiciume, tagliarle i capelli e
vestirla da capo a piedi, fino a trasformarla in una vecchia qualsiasi. Le
suore le prestarono un letto nell'asilo dei poveri e per mesi la tennero legata
perché non scappasse di nuovo nel sotterraneo, finché si abituò alla luce del
giorno e si rassegnò a vivere con altri esseri umani. Approfittando del
pubblico furore attizzato dalla stampa, i numerosi nemici di Amadeo Peralta
trovarono finalmente il coraggio di lanciarsi in picchiata contro di lui. Le
autorità, che per anni avevano coperto i suoi abusi, gli piombarono addosso con
le grinfie della legge. La notizia occupò l'attenzione di tutti per il tempo
sufficiente a condurre il vecchio caudillo in carcere, poi andò sfumando fino a
svanire del tutto. Respinto da familiari e amici, tramutato in simbolo di tutto
quanto è abominevole e abietto, sottoposto all'ostilità dei carcerieri e dei
suoi compagni di sventura, rimase in prigione finché non sopraggiunse la morte.
Restava nella sua cella senza mai uscire in cortile con gli altri reclusi. Da
lì poteva sentire i rumori della strada. Ogni giorno, alle dieci del mattino,
Hortensìa camminava col suo vacillante passo da folle fino al penitenziario e
consegnava all'agente di servizio alla porta una pentola calda per il detenuto.
“Lui non mi ha lasciato soffrire la fame, quasi mai” diceva all'agente in tono
di scusa. Poi si sedeva in strada a suonare il salterio, strappandogli gemiti
d'agonia impossibili a sopportarsi. Nella speranza di distrarla e di farla
smettere, alcuni passanti le davano una moneta. Rannicchiato dall'altra parte
delle pareti, Amadeo Peralta ascoltava quel suono che sembrava provenire dal
fondo della terra e che gli trafiggeva i nervi. Quel rimprovero quotidiano
doveva significare qualcosa, ma non riusciva a ricordare. A volte sentiva
qualche fitta di colpa, ma subito gli veniva meno la memoria e le immagini del
passato sparivano in una densa nebbia. Non sapeva perché si trovava in quella
tomba, e a poco a poco dimenticò anche il mondo della luce, abbandonandosi alla
sventura.
REGALO PER UNA FIDANZATA.
Horaçio Fortunato aveva toccato i quarantasei anni quando
entrò nella sua vita la pallida ebrea che fu sul punto di mutare le sue
abitudini da gaudente e di stroncargli la spavalderia. Era della razza della
gente del circo, di quelli che nascono con le ossa di gomma e una naturale
predisposizione a far salti mortali, e all'età in cui gli altri bambini
strisciano come vermi si appendono al trapezio a testa in giù e puliscono la
dentatura al leone. Prima che suo padre lo trasformasse in un'impresa seria,
invece della stravaganza che era stato fino allora, il Circo Fortunato passò
più pene che glorie. In tempi di catastrofe o di disordine, la compagnia si
riduceva a due o tre membri del clan che vagavano per le strade su un carretto
sconquassato, con una tenda cenciosa che drizzavano in paesucoli miserevoli. Il
nonno di Horaçio portò da solo il peso di tutto lo spettacolo per anni;
camminava sulla corda, faceva il giocoliere con le torce accese, inghiottiva
lame di Toledo, estraeva tanto arance quanto serpenti da un cappello a cilindro
e ballava un grazioso minuetto con la sua unica compagna, una scimmia vestita
con una crinolina e un cappello piumato. Ma il nonno riuscì a sconfiggere la
sfortuna, e mentre molti altri circhi soccombettero vittime di altri divertimenti
moderni, lui salvò il suo. e alla fine della vita poté ritirarsi nel sud del
continente a coltivare un orto di asparagi e fragole, lasciando un'impresa
senza debiti a suo figlio Fortunato II. Quest'uomo non aveva l'umiltà del padre
e non era incline agli equilibrismi su una corda o alle piroette con uno
scimpanzé, ma in cambio era dotato di una salda prudenza da commerciante. Sotto
la sua direzione il circo crebbe in dimensioni e prestigio, fino a diventare il
più grande del paese. Tre tendoni monumentali dipinti a strisce sostituivano la
modesta tenda dei tempi duri, gabbie diverse albergavano uno zoo ambulante di
fiere ammaestrate, e altri veicoli di fantasia trasportavano gli artisti,
incluso l'unico nano ermafrodita e ventriloquo della storia. Una replica esatta
della caravella di Cristoforo Colombo munita di ruote completava il Gran Circo
Internazionale Fortunato. Questa enorme carovana non navigava più alla deriva,
come faceva prima con il nonno, ma marciava in linea retta lungo le strade
principali dal Rio Grande allo Stretto di Magellano, arrestandosi solo nelle
città principali, dove entrava con un tale scandalo di tamburi, elefanti e
pagliacci, la caravella in testa come un prodigioso ricordo della Conquista,
che nessuno poteva ignorare che il circo era arrivato. Fortunato II sposò una
trapezista, e da lei ebbe un figlio che chiamarono Horaçio. La donna rimase in
una località di passaggio, decisa a rendersi indipendente dal marito e a
mantenersi mediante il suo incerto mestiere, lasciando il bambino con suo
padre. Di lei prevalse un ricordo diffuso nella mente del figlio, che non
riusciva a separare l'immagine della madre dalle numerose acrobate che conobbe
in vita. Quando aveva dieci anni suo padre sposò un'altra artista del circo,
stavolta una cavallerizza capace di stare in equilibrio sulla testa sopra un
animale lanciato al galoppo o di saltare da una groppa all'altra con gli occhi
bendati. Era molto bella. Per quanta acqua, sapone e profumi usasse, non
riusciva a togliersi di dosso una traccia di odore equino, un secco aroma di
sudore e di sforzo. Nel suo grembo magnifico il piccolo Horaçio, avvolto in
quell'odore unico, trovava consolazione per l'assenza della madre. Ma col tempo
anche la cavallerizza partì senza salutare. Nella maturità Fortunato II sposò
in terze nozze una svizzera che andava esplorando l'America su un torpedone di
turisti. Era stanco della sua esistenza da beduino e si sentiva vecchio per
nuovi soprassalti, per cui quando lei glielo chiese non ebbe la minima
obiezione ad abbandonare il circo per un destino sedentario, e finì per
installarsi in una baita delle Alpi, tra monti e boschi bucolici. Suo figlio
Horaçio, che aveva già vent'anni e rotti, si fece carico dell'azienda. Horaçio
era stato cresciuto nell'incertezza di mutare località ogni giorno, dormire
sempre sulle ruote e vivere sotto una tenda, ma gli piaceva molto la propria
sorte. Non invidiava assolutamente gli altri bambini che andavano a scuola in
uniforme grigia e avevano il loro destino tracciato ancor prima di nascere. Per
contrasto, lui si sentiva potente e libero. Conosceva tutti i segreti del
circo, e con lo stesso atteggiamento disinvolto puliva gli escrementi delle
belve o si dondolava a cinquanta metri d'altezza vestito da ussaro, seducendo
il pubblico con il suo sorriso da delfino. Se qualche volta anelò un poco di
stabilità, non lo ammise neppure in sogno. L'esperienza di essere stato
abbandonato, prima dalla madre e poi dalla matrigna, lo rese diffidente,
soprattutto nei riguardi delle donne, ma non giunse a diventare un cinico
perché dal nonno aveva ereditato un cuore sentimentale. Aveva un immenso
talento circense, ma più dell'arte lo interessava l'aspetto commerciale del
mestiere. Fin da piccolo si propose di diventare ricco, con l'ingenua
intenzione di procurarsi col denaro la sicurezza che non aveva avuto in
famiglia. Moltiplicò i tentacoli dell'impresa acquistando una catena di arene
da pugilato in diverse capitali. Dal pugilato passò naturalmente alla lotta
libera, e poiché era uomo di fertile fantasia trasformò quello sport grossolano
in uno spettacolo drammatico. Furono sue iniziative la Mummia, che si
presentava sul ring in un sarcofago egizio; Tarzan, che si copriva le pudende
con una pelle di tigre talmente minuscola che ad ogni balzo del lottatore il
pubblico tratteneva il fiato in attesa di qualche rivelazione; l'Angelo, che
metteva in palio la propria chioma d'oro e ogni sera la perdeva sotto le
forbici del feroce Kuramoto un indio mapuche travestito da samurai, per
ricomparire il giorno seguente con i riccioli intatti, prova irrefutabile della
sua condizione divina. Queste e altre avventure commerciali, come anche le sue
apparizioni pubbliche con un paio di guardaspalle, il cui ruolo consisteva
nell'intimidire i concorrenti e stuzzicare la curiosità delle donne, gli
fornirono un prestigio da cattivo di cui godeva enormemente. Faceva una bella
vita, viaggiava per il mondo concludendo affari e cercando mostri, frequentava
club e casinò, possedeva una villa di cristallo in California e una fattoria nello
Yucatan, ma passava la maggior parte dell'anno in alberghi di lusso. Godeva
della compagnia di bionde mercenarie. Le sceglieva dolci e dai seni opulenti,
in omaggio al ricordo della matrigna, ma non si affliggeva troppo per gli
affari di cuore e quando suo nonno insisteva affinché si sposasse e mettesse al
mondo figli per evitare che il nome dei Fortunato si perdesse senza eredi,
replicava che neanche se fosse impazzito avrebbe salito il patibolo
matrimoniale. Era un omaccione bruno con una gran chioma che si pettinava a
manate, gli occhi obliqui e una voce autoritaria che accentuava la sua allegra
volgarità. Si preoccupava dell'eleganza e si comprava abiti principeschi, ma i
suoi vestiti risultavano troppo pomposi, le cravatte troppo audaci, il rubino del
suo anello troppo vistoso, la sua fragranza troppo penetrante. Aveva il cuore
di un domatore di leoni e nessun sarto inglese riusciva a dissimularlo.
Quest'uomo, che aveva passato gran parte della propria esistenza a metter
sottosopra il mondo con le sue prodigalità, si imbatté un martedì di marzo con
Patricia Zimmermann, e si vide privato di colpo della leggerezza di spirito e
della chiarezza di pensiero. Si trovava nell'unico ristorante di questa città
in cui non lasciano ancora entrare i negri, con quattro gorilla e una diva che
pensava di portarsi per una settimana alle Bahamas, quando Patricia entrò nel
salone al braccio del marito, vestita di seta e adorna di alcuni di quei
diamanti che resero celebre la ditta Zimmermann & C. Nulla di più diverso
dalla sua indimenticabile matrigna odorosa di sudore equino e dalle bionde
compiacenti. La vide avanzare, piccola, sottile, le ossa della scollatura in
vista e i capelli castani raccolti in una crocchia severa, e sentì le ginocchia
pesanti e un bruciore insopportabile nel petto. Lui preferiva le donne semplici
e ben disposte al piacere, e quella donna bisognava guardarla da vicino per
apprezzarne le virtù, e anche in tal caso sarebbero state visibili solo a un
occhio allenato ad apprezzare sottigliezze, il che non era il caso di Horaçio
Fortunato. Se la veggente del suo circo avesse consultato la sfera di cristallo
per profetizzargli che si sarebbe innamorato a prima vista di un'aristocratica
quarantenne e altezzosa, sarebbe scoppiato a ridere, ma proprio questo gli
accadde quando la vide venire avanti verso di lui come l'ombra di un'antica
imperatrice vedova, nel suo abito scuro e con il luccichio di tutti quei
diamanti che le brillavano al collo. Patricia gli passò accanto e per un
istante si trattenne davanti a quel gigante con il tovagliolo infilato nel gilè
e una traccia di salsa alla commessura delle labbra. Horaçio Fortunato riuscì a
percepire il suo profumo e ad apprezzare il suo profilo aquilino, e si
dimenticò completamente della diva, dei guardaspalle, degli affari e di tutti i
propositi della sua vita, e decise in assoluta serietà di strappare quella
donna al gioielliere per amarla nella migliore maniera possibile. Spostò
obliquamente la sedia e dimenticando i suoi convitati si dedicò a misurare la distanza
che lo separava da lei, mentre Patricia Zimmermann si chiedeva se quello
sconosciuto stesse esaminando i suoi gioielli con qualche mira perversa. Quella
sera stessa arrivò alla residenza degli Zimmermann un immenso mazzo di
orchidee. Patricia guardò il biglietto, un rettangolo color seppia con un nome
da romanzo scritto in arabeschi dorati. Di pessimo gusto, disse tra i denti,
indovinando all'istante che si trattava del tipo imbrillantinato del
ristorante, e ordinò di buttare il dono in strada, nella speranza che il
mittente si aggirasse attorno alla casa e prendesse visione del destino dei
suoi fiori. Il giorno seguente portarono una scatola di cristallo con una sola
rosa perfetta, senza biglietto. Il maggiordomo gettò anche quella nella
spazzatura. Per il resto della settimana consegnarono mazzi diversi: un cesto
con fiori di campo su un letto di lavanda, una piramide di garofani bianchi in
una coppa d'argento, una dozzina di tulipani neri importati dall'Olanda e altre
varietà impossibili a trovarsi in questo paese torrido. Subirono tutti lo
stesso destino del primo, ma questo non scoraggiò lo spasimante, il cui agguato
divenne così insopportabile che Patricia Zimmermann non osava rispondere al
telefono, per paura di sentire la sua voce sussurrarle indecenze, come le
accadde quello stesso martedì alle due del mattino. Rimandava indietro le sue
lettere chiuse. Smise di uscire perché incontrava Fortunato nei posti più
inattesi: fissandola dal palco più vicino all'opera, in strada pronto ad
aprirle la portiera dell'auto prima che il suo autista riuscisse ad accennare
il gesto, materializzandosi come un'illusione in un ascensore o su una scala.
Era prigioniera in casa propria, spaventata. Gli passerà, gli passerà, si
ripeteva, ma Fortunato non si dissipò come un brutto sogno, era sempre lì,
dall'altra parte delle pareti, ansimante. La donna pensò di chiamare la polizia
o di ricorrere al marito, ma il suo orrore degli scandali glielo impedì. Una
mattina stava sbrigando la corrispondenza quando il maggiordomo le annunziò la
visita del presidente dell'impresa Fortunato & Figli. “In casa mia, come
osa?” mormorò Patricia con il cuore al galoppo. Dovette ricorrere
all'implacabile disciplina acquisita in tanti anni di salotti per dissimulare
il tremore delle mani e della voce. Per un istante ebbe la tentazione di
affrontare quel demente una volta per sempre, ma capì che le sarebbero mancate
le forze, si sentiva sconfitta prima di vederlo. “Gli dica che non ci sono. Gli
mostri la porta e avverta il personale di servizio che quel signore non è
benvenuto in questa casa” ordinò. Il giorno seguente non ci furono fiori
esotici a colazione e Patricia pensò, con un sospiro di sollievo o di dispetto
che l'uomo aveva capito finalmente il suo messaggio. Quella mattina si sentì libera
per la prima volta nella settimana, e andò a giocare a tennis e all'istituto di
bellezza. Rientrò alle due del pomeriggio con una nuova pettinatura e un gran
mal di testa. Entrando vide sul tavolo del vestibolo un astuccio di velluto
viola con il marchio degli Zimmermann impresso in lettere d'oro. Lo aprì
distrattamente, immaginando che il marito l'avesse dimenticato lì, e vi trovò
una collana di smeraldi accompagnata da uno di quei biglietti color seppia che
aveva imparato a conoscere e a detestare. Il mal di testa le si trasformò in
panico. Quell'avventuriero sembrava deciso a rovinarle l'esistenza, non solo
comprava dal suo stesso marito un gioiello impossibile a dissimularsi, ma per
di più glielo mandava con assoluta disinvoltura a casa. Stavolta non era
possibile gettare il regalo nella spazzatura come i mazzi di fiori ricevuti
fino allora. Con l'astuccio stretto al petto si chiuse nel suo studio. Mezz'ora
più tardi chiamò l'autista e lo mandò a consegnare un pacchetto allo stesso
indirizzo cui aveva restituito diverse lettere. Liberandosi del gioiello non
sentì alcun sollievo, al contrario, aveva l'impressione di sprofondare in una
palude. Ma in quel mentre anche Horaçio Fortunato sguazzava in un pantano,
senza avanzare di un passo, muovendosi a tentoni. Non aveva mai avuto bisogno
di tanto tempo e di tanto denaro per corteggiare una donna, benché fosse vero
ammetteva, che fino ad ora erano state tutte molto diverse da questa. Si
sentiva ridicolo per la prima volta nella sua vita di saltimbanco, non poteva
andare avanti così per troppo tempo, la sua salute da toro cominciava a
risentirne, dormiva a sbalzi, gli mancava il respiro, il cuore gli si smarriva
sentiva il fuoco nello stomaco e le campane nelle tempie Anche i suoi affari
soffrivano l'impatto del suo mal d'amore, prendeva decisioni precipitose e
perdeva denaro. Cazzo, non so più chi sono né dove sono, maledetta quella
donna, imprecava sudando, ma neppure per un istante considerò la possibilità di
abbandonare la caccia. Con l'astuccio viola nuovamente nelle sue mani,
sprofondato in una poltrona dell'albergo in cui dimorava, Fortunato si ricordò
del nonno. Pensava raramente a suo padre, ma di tanto in tanto gli tornava in
mente quel nonno formidabile che a novant'anni coltivava ancora i suoi ortaggi.
Prese il telefono e chiese la comunicazione. Il vecchio Fortunato era quasi
sordo e non era ancora riuscito ad assimilare il meccanismo di quell'aggeggio
indemoniato che gli portava voci dall'altra estremità del pianeta, ma la
vecchiaia non gli aveva scemato la lucidità. Ascoltò meglio che poté il triste
racconto del nipote, senza interromperlo, fino alla fine. “Dunque questa
puttanella si permette di prendere in giro il mio ragazzone, eh?” “Non mi
guarda neanche, nonno. È ricca, bella, nobile, ha tutto.” “Ahà... e ha anche un
marito.” “Anche, ma questo è il meno. Se almeno mi permettesse di parlarle!”
“Parlarle? E perché? Non c'è niente da dire a una donna come quella, figliolo.”
“Le ho regalato una collana da regina e me l'ha rimandata senza una parola.”
“Dalle qualcosa che non ha.” “Cosa, per esempio?” “Un buon motivo per ridere, è
una cosa che non fallisce mai con le donne” e il vecchio si addormentò con la
cornetta in mano, sognando le fanciulle che l'avevano amato quando eseguiva
acrobazie mortali sul trapezio e ballava con la sua scimmia. Il giorno seguente
il gioielliere Zimmermann ricevette nel suo studio una stupenda ragazza,
manicure di professione, come spiegò, che veniva a offrirgli per la metà del
valore la stessa collana di smeraldi che lui aveva venduto quarantotto ore
prima. Il gioielliere ricordava perfettamente l'acquirente, impossibile
dimenticarlo, un villan rifatto. “Ho bisogno di un gioiello che faccia crollare
le difese di una signora altera” aveva detto. Zimmermann lo esaminò in un secondo
e decise che doveva essere uno di quei nuovi ricchi del petrolio o della
cocaina. Non apprezzava la volgarità, era abituato a un altro genere di
persone. Raramente serviva di persona i clienti, ma quell'uomo aveva insistito
per parlare con lui e sembrava disposto a spendere senza battere ciglio. “Che
cosa mi consiglia?” aveva chiesto dinanzi al vassoio in cui brillavano i suoi
esemplari più preziosi. “Dipende dalla signora. Rubini e perle stanno bene
sulla pelle scura, gli smeraldi sulla pelle più chiara, i diamanti sono
perfetti sempre.” “Ha già troppi diamanti. Suo marito gliene regala come
fossero caramelle.” Zimmermann tossì. Quel genere di confidenze gli ripugnava.
L'uomo prese in mano la collana, la sollevò verso la luce senza alcun rispetto,
l'agitò come un sonaglio e l'aria si riempì di tintinnii e di barbagli verdi,
mentre l'ulcera del gioielliere dava un sussulto. “Crede che gli smeraldi
portino fortuna?” “Suppongo che tutte le pietre preziose possiedano questo
requisito, signore, ma non sono superstizioso.” “Questa è una donna molto
particolare. Non posso sbagliare regalo, capisce?” “Perfettamente.” Ma a quanto
pare aveva proprio sbagliato, si disse Zimmermann senza poter evitare un
sorriso sarcastico quando quella ragazza gli portò indietro la collana. No, lo
sbaglio non era nel gioiello, era lei a costituire un errore. Si era immaginato
una donna più fine, in nessun caso comunque una manicure con quella borsa di
plastica e quella camicetta ordinaria, ma la ragazza lo intrigava, c'era in lei
qualcosa di vulnerabile e di patetico, poveretta, farà una brutta fine in mano
a quel farabutto, pensò. “Meglio che mi dica tutto, figliola” disse Zimmermann
finalmente. La giovane gli rifilò la storia che aveva imparato e un'ora dopo
uscì dall'ufficio con passo leggero. Come aveva progettato fin dall'inizio, non
solo il gioielliere aveva ricomprato la collana, ma inoltre l'aveva invitata a
cena. Si rese conto facilmente che Zimmermann era uno di quegli uomini astuti e
diffidenti negli affari ma ingenui in tutto il resto, e che sarebbe stato
facile mantenerlo distratto per tutto il tempo che a Horaçio Fortunato fosse
servito e fosse disposto a pagare. Fu quella una serata memorabile per
Zimmermann, che aveva contato su una cena e si trovò a vivere una passione
inaspettata. Il giorno seguente rivide la sua nuova amica e verso la fine della
settimana annunciò balbettando a Patricia che si recava a New York per qualche
giorno, a un'asta di gioielli russi salvati dal massacro di Ekaterinenburg. Sua
moglie non gli badò neanche.
Sola in casa, senza il coraggio di uscire e con quel mal
di testa che andava e veniva senza darle tregua, Patricia decise di dedicare il
sabato a recuperare le forze. Si installò in terrazza a sfogliare riviste di
moda. Non aveva piovuto per tutta la settimana, e l'aria era secca e densa.
Lesse per un po' finché il sole cominciò a insonnolirla, il corpo le pesava, le
si chiudevano gli occhi e la rivista le cadde di mano. In quella le giunse un
rumore dal fondo del giardino, e pensò al giardiniere, un tipo caparbio, che in
meno di un anno aveva trasformato la proprietà in una giungla tropicale,
sradicando i suoi cespugli di crisantemi per lasciare il passo a una
vegetazione esuberante. Aprì gli occhi, guardò distrattamente contro sole e notò
che qualcosa di dimensioni inusitate si muoveva nella chioma dell'avocado. Si
tolse gli occhiali scuri e si alzò. Non c'era dubbio, un'ombra si agitava
lassù, e non faceva parte del fogliame. Patricia Zimmermann lasciò la poltrona
e fece un paio di passi avanti; allora poté vedere nitidamente un fantasma
vestito di azzurro con una mantellina dorata, che passò volando a diversi metri
d'altezza, fece una giravolta in aria e per un istante parve arrestarsi nel
gesto di salutarla dal cielo. Soffocò un grido, certa che l'apparizione sarebbe
caduta come una pietra e si sarebbe disintegrata toccando terra ma la
mantellina si gonfiò e quel coleottero raggiante tese le braccia e si afferrò a
un nespolo vicino. Sorse immediatamente un'altra figura azzurra appesa per le
gambe alla chioma dell'altro albero, dondolando per i polsi una bimba coronata
di fiori. Il primo trapezista fece un segnale e il secondo gli lanciò la
creatura, che riuscì a diffondere una pioggia di farfalle di carta prima di
vedersi afferrata per le caviglie. Patricia non osò muoversi mentre lassù
volavano quei silenziosi uccelli dai mantelli d'oro. Improvvisamente un urlo
riempì il giardino, un grido lungo e barbaro che distrasse Patricia dai
trapezisti. Vide cadere una grossa fune da un muro perimetrale della proprietà,
e lungo di essa scese Tarzan in persona, lo stesso delle matinée al cinema e
dei fumetti della sua infanzia, con il suo perizoma di pelle di tigre e una
scimmia autentica seduta sul suo fianco e aggrappata alla sua vita: Il Re della
Giungla atterrò con grazia, si batté il petto con i pugni e ripeté il bramito
viscerale, attirando tutto il personale della casa, che si precipitò in
terrazza. Patricia ordinò loro con un gesto di stare fermi e zitti, mentre la
voce di Tarzan si spegneva per lasciar campo a un lugubre rullo di tamburi
annunciante una comitiva di quattro egizie che avanzavano obliquamente, testa e
piedi rovesciati, seguite da un gobbo con un cappuccio a righe che trascinava
una pantera nera all'estremità di una catena. Poi apparvero due monaci che
portavano un sarcofago e dietro di loro un angelo dai lunghi capelli dorati;
chiudeva il corteo un indio travestito da giapponese, in vestaglia, inerpicato
su pattini di legno. Tutti si fermarono dietro la piscina. I monaci deposero la
bara sul prato; mentre le vestali salmodiavano in qualche lingua morta e
l'Angelo e Kuramoto esibivano le loro prodigiose muscolature, si sollevò il
coperchio del sarcofago e un essere da incubo emerse dall'interno. Quando fu in
piedi, con tutti i suoi bendaggi in vista, fu evidente che si trattava di una
mummia in perfetta salute. In quel momento Tarzan lanciò un altro ululato e
senza che fosse intervenuta provocazione alcuna si mise a saltellare attorno
agli egizi e a scuotere la scimmia. La Mummia perse la sua pazienza millenaria,
sollevò un braccio e lo lasciò cadere come una randellata sulla nuca del
selvaggio, lasciandolo inerte con la faccia sepolta nell'erba. La scimmia si
arrampicò strillando su un albero. Prima che il faraone imbalsamato liquidasse
Tarzan con un secondo colpo, questi si rimise in piedi e gli balzò addosso
ruggendo. Rotolarono annodati in una posizione inverosimile, finché la pantera
si sciolse e allora tutti corsero a cercare rifugio tra le piante e i domestici
della casa volarono a nascondersi in cucina. Patricia stava per lanciarsi nella
fontana quando apparve per incanto un individuo in frac e cilindro, che con una
sonora frustata arrestò di botto il felino e lo lasciò a terra a fare le fusa
come un gatto con le quattro zampe in aria, il che permise al gobbo di
recuperare la catena, mentre l'altro si toglieva il cappello e ne estraeva una
torta alla crema che portò fino alla terrazza, depositandola ai piedi della
padrona di casa. Dal fondo del giardino apparve il resto della compagnia: i
musicisti della banda che suonava marce militari, i pagliacci che si
scambiavano schiaffoni, i nani delle Corti Medievali, la cavallerizza in piedi
sul suo cavallo, la donna barbuta, i cani in bicicletta, lo struzzo vestito da
Colombina e infine una fila di pugili con i calzoncini di satin e i guantoni
regolamentari, spingendo una piattaforma a ruote coronata da un arco di cartone
dipinto. E lì, su quel podio da imperatore del trovarobato, c'era Horaçio
Fortunato con la sua chioma schiacciata dalla brillantina, l'irrevocabile
sorriso da bellimbusto, gonfio d'orgoglio sotto il suo portico trionfale,
circondato dal suo circo inaudito, acclamato dalle trombe e dai piatti della
propria orchestra, l'uomo più superbo, più innamorato e più divertente del mondo.
Patricia scoppiò in una risata e gli andò incontro.
TOSCA.
Suo padre la mise al pianoforte a cinque anni, e a dieci
Maurizia Rugieri si esibì nel suo primo concerto al Club Garibaldi, vestita di
organza rosa e scarpine di vernice, dinanzi a un pubblico benevolo composto in
maggioranza da membri della colonia italiana. Al termine le depositarono ai
piedi diversi mazzi di fiori, e il presidente del club le consegnò una targa
commemorativa e una bambola di porcellana adorna di nastri e di pizzi. “Ti salutiamo,
Maurizia Rugieri, come un genio precoce, un novello Mozart. I grandi
palcoscenici del mondo ti attendono” declamò. La bimba attese che si spegnesse
l'applauso, e al di sopra del pianto orgoglioso di sua madre fece udire la
propria voce con alterigia inattesa. “Questa è l'ultima volta che suono il
piano. Io voglio diventare una cantante” annunciò, e uscì dalla sala
trascinando la bambola per un piede. Quando si fu ripreso dalla vergogna, suo
padre le fece studiare canto con un severo maestro che per ogni nota stonata le
impartiva una bacchettata sulle dita, cosa che non riuscì a soffocare
l'entusiasmo della bambina per l'opera. Tuttavia, al termine dell'adolescenza
si vide che aveva una voce da uccellino, appena sufficiente a ninnare un
infante nella culla, per cui dovette deporre le sue pretese da soprano per un
destino più banale. A diciannove anni sposò Ezio Longo, immigrante della prima
generazione, architetto senza laurea e costruttore di mestiere, il quale si era
proposto di fondare un impero sul cemento e sull'acciaio, e a trentacinque anni
già c'era quasi riuscito. Ezio Longo si innamorò di Maurizia Rugieri con la
stessa determinazione messa nel disseminare la capitale dei suoi edifici. Era
di bassa statura, ossatura solida, un collo da animale da tiro e un viso
energico e un tantino brutale, labbra grosse e occhi neri. Il suo lavoro lo
obbligava a vestirsi con panni rozzi, e stando sempre al sole aveva la pelle
scura e decorata da solchi, come cuoio conciato. Era di carattere bonario e
generoso, rideva facilmente, gli piacevano la musica popolare e i pranzi
abbondanti e senza cerimonie. Sotto questa apparenza piuttosto volgare aveva
un'anima raffinata e una delicatezza che non sapeva tradurre in gesti o parole.
Quando guardava Maurizia, a volte gli si riempivano gli occhi di lacrime e il
petto di una opprimente tenerezza, che dissimulava con una manata, soffocando
di vergogna. Gli risultava impossibile esprimere i propri sentimenti, e credeva
che coprendola di regali e sopportando con stoica pazienza i suoi stravaganti
mutamenti d'umore e i suoi malesseri immaginari avrebbe compensato le carenze
del proprio repertorio d'amante. Ella provocava in lui un desiderio perentorio,
rinnovato ogni giorno con l'ardore dei primi incontri; l'abbracciava esacerbato,
tentando di colmare l'abisso tra loro, ma tutta la sua passione si infrangeva
contro le leziosaggini di Maurizia, la cui immaginazione permaneva infervorata
dalle letture romantiche e dai dischi di Verdi e Puccini. Ezio si addormentava
vinto dalle fatiche della giornata, tormentato da incubi di pareti contorte e
scale a chiocciola, e si svegliava all'alba per sedersi sul letto a osservare
la moglie addormentata, con tale attenzione che apprese a indovinarne i sogni.
Avrebbe dato la vita perché lei corrispondesse ai suoi sentimenti con pari
intensità. Le costruì una smisurata magione sostenuta da colonne, in cui la
mescolanza di stili e la profusione d'ornamenti confondevano il senso
dell'orientamento, e in cui quattro domestiche lavoravano senza posa solo per
pulire bronzi, far luccicare pavimenti, lustrare le gocce di cristallo dei
lampadari, spolverare i mobili dalle zampe dorate e scuotere i falsi tappeti
persiani importati dalla Spagna. La dimora aveva un piccolo anfiteatro in
giardino, dove Maurizia Rugieri soleva cantare per i suoi invitati. Ezio non
avrebbe ammesso nemmeno in punto di morte di essere incapace di apprezzare quei
vacillanti trilli da passerotto, non solo per non svelare le lacune della
propria cultura, ma soprattutto per rispetto alle inclinazioni artistiche della
moglie. Era un uomo ottimista e sicuro di sé, ma quando Maurizia annunciò
piangendo di essere incinta, gli sopravvenne all'istante una incontrollabile
apprensione, sentì il cuore spaccarsi in due come un melone, ché non era
ammissibile tanta felicità in questa valle di lacrime. Pensò che qualche
catastrofe fulminante avrebbe mandato in frantumi il suo precario paradiso, e
si dispose a difenderlo contro qualsiasi interferenza. La catastrofe fu uno
studente di medicina in cui Maurizia si imbatté sul tram. Il bambino era già
nato, allora, una creatura vitale come il padre, che sembrava immune da ogni
danno, compreso il malocchio, e la madre aveva recuperato la propria linea. Lo
studente sedette accanto a Maurizia nel tragitto per il centro della città, un
giovane esile e pallido, con un profilo da statua romana. Stava leggendo la
partitura della Tosca e fischiettando tra i denti un'aria dell'ultimo atto.
Ella sentì che tutto il sole del mezzogiorno le si eternizzava nelle guance, e
che un sudore di anticipazione le imbeveva il corpetto. Senza riuscire a
evìtarlo canterellò le parole dello sventurato Mario che salutava l'alba prima
che il plotone d'esecuzione mettesse fine ai suoi giorni. Così, tra due righe
della partitura, ebbe inizio il romanzo. Il giovane si chiamava Leonardo Gomez
ed era entusiasta del bel canto quanto Maurizia. Durante i mesi seguenti lo
studente conseguì la sua laurea in medicina, ed ella visse una per una tutte le
tragedie dell'opera e alcune della letteratura universale. La uccisero
successivamente don José, la tubercolosi, una tomba egizia, una daga e il
veleno, amò cantando in italiano, francese e tedesco, fu Aida, Carmen e Lucia
di Lammermoor, e in ciascuna occasione Leonardo Gomez era l'oggetto della sua
passione immortale. Nella vita reale condividevano un amore casto, che lei
anelava consumare senza osare di prender l'iniziativa, che lui combatteva in
cuor suo per rispetto alla condizione di sposata di Maurizia. Si videro in
luoghi pubblici e talvolta intrecciarono le mani nella zona ombrosa di un
parco, si scambiarono biglietti firmati da Tosca e Mario e naturalmente
chiamarono Scarpia Ezio Longo, il quale era talmente felice per il figlio, per
la sua bella moglie e per i beni concessigli dal cielo, e talmente occupato a
lavorare per offrire alla sua famiglia tutta la sicurezza possibile, che se non
fosse stato per un conoscente che andò a raccontargli che la sua consorte
viaggiava troppo in tram, forse non si sarebbe mai accorto di ciò che accadeva
alle sue spalle. Ezio Longo si era preparato ad affrontare l'eventualità di una
crisi nei suoi affari, di una malattia e persino di un incidente al figlio,
come immaginava nei suoi peggiori momenti di terrore superstizioso, ma non gli
era mai passato per la testa che un mellifluo studente potesse soffiargli la
moglie sotto il naso. Quando lo seppe fu sul punto di scoppiare a ridere,
perché di tutte le disgrazie questa gli sembrava la più facile da risolvere, ma
dopo quel primo impulso, una rabbia cieca gli sconvolse il fegato. Seguì
Maurizia fino a una discreta pasticceria, dove la sorprese a bere cioccolata
con il suo innamorato. Non chiese spiegazioni. Afferrò il rivale per la giacca,
lo sollevò in aria e lo lanciò contro la parete in uno strepito di stoviglie
rotte e di strilli della clientela. Poi prese la moglie per un braccio e la
condusse alla macchina, una delle ultime Mercedes Benz importate nel paese
prima che la seconda guerra mondiale rovinasse i rapporti commerciali con la
Germania. La chiuse in casa e piazzò due muratori della sua impresa a guardia
delle porte. Maurizia passò due giorni a piangere stesa sul letto, senza
parlare né mangiare. Nel frattempo Ezio Longo aveva avuto il tempo di meditare
e l'ira gli si era trasformata in una sorda frustrazione che gli riportò alla
mente l'abbandono della sua infanzia, la povertà della sua giovinezza, la
solitudine della sua esistenza e tutta quell'inesauribile fame di affetto che
l'aveva accompagnato finché conobbe Maurizia Rugieri e credette di aver conquistato
una dea. Il terzo giorno non ce la fece più ed entrò nella camera della moglie.
“Per nostro figlio, Maurizia, devi toglierti dalla testa queste fantasie. So di
non essere molto romantico, ma se mi aiuti posso cambiare. Non sono uomo da
sopportare corna e ti amo troppo per lasciarti andar via. Se me ne dai
l'occasione, ti farò felice, te lo giuro.” Per tutta risposta lei si voltò
verso la parete e prolungò il digiuno per altri due giorni. Suo marito ritornò
“Mi piacerebbe sapere cosa cazzo ti manca al mondo, per vedere se posso
dartelo” le disse, distrutto “Mi manca Leonardo. Senza di lui morirò. “Va bene.
Puoi andare con quel cialtrone se vuoi, ma non rivedrai mai più nostro figlio.”
Lei fece le valigie, si vestì di mussolina, si mise un cappellino con la
veletta e chiamò un taxi. Prima di partire baciò il bambino singhiozzando e gli
sussurrò all'orecchio che molto presto sarebbe tornata a trovarlo. Ezio Longo,
che in una settimana aveva perso sei chili e la metà dei capelli le tolse la
creatura dalle braccia. Maurizia Rugieri giunse alla pensione dove viveva il
suo innamorato e scoprì che questi era partito due giorni prima per andare a
lavorare come medico in un campo petrolifero, in una di quelle province calde
il cui nome evocava indios e serpenti velenosi. Le costò convincersi che se
n'era andato senza salutarla, ma attribuì la cosa alle botte ricevute nella
pasticceria, concluse che Leonardo era un poeta e che la brutalità di suo
marito l'aveva sconcertato. Si installò in un albergo e nei giorni seguenti
spedì telegrammi in tutti i punti immaginabili. Finalmente riuscì a localizzare
Leonardo Gomez e ad annunciargli che per lui aveva rinunciato al suo unico
figlio, sfidato suo marito, la società e Dio stesso, e che la decisione di
seguirlo nel suo destino, finché la morte non li separasse, era assolutamente
irrevocabile. Il viaggio fu una pesante esperienza: in treno, in camion e in
alcuni tratti per via fluviale. Maurizia non era mai uscita sola da un raggio
di trecento metri attorno a casa sua, ma né la grandiosità del paesaggio né le
incalcolabili distanze riuscirono a intimorirla. Lungo il tragitto perse un
paio di valigie e il suo vestito di mussolina si trasformò in un cencio giallo
di polvere, ma finalmente giunse alla confluenza del fiume dove doveva
aspettarla Leonardo. Scesa dal veicolo vide una piroga sulla riva e verso di
essa corse con i brandelli del velo che le svolazzavano dietro le spalle e i
suoi lunghi capelli che sfuggivano in riccioli da sotto il cappellino. Ma
invece del suo Mario trovò un negro con il casco da esploratore e due indios
malinconici con i remi in mano. Era tardi per retrocedere. Accettò la
spiegazione che il dottor Gomez aveva avuto un'emergenza e salì
sull'imbarcazione con il resto del suo malconcio bagaglio, pregando che quegli
uomini non fossero banditi o cannibali. Non lo erano, per fortuna, e la
condussero sana e salva per via d'acqua attraverso un vasto territorio scosceso
e selvaggio fino al luogo in cui l'aspettava il suo innamorato. Erano due
villaggi, uno di lunghi dormitori comuni in cui abitavano i lavoratori; e
l'altro, dove vivevano gli impiegati, che consisteva degli uffici della
compagnia, venticinque case prefabbricate portate in aereo dagli Stati Uniti,
un assurdo campo di golf e un fosso d'acqua verde che ogni mattina si riempiva
di enormi rospi, il tutto circondato da un recinto metallico con un cancello
custodito da due sentinelle. Era un accampamento d'uomini di passaggio,
l'esistenza girava attorno a quella melma scura che emergeva dal fondo della terra
come un inesauribile vomito di drago. In quelle solitudini non c'erano altre
donne che alcune sofferte compagne dei lavoratori; i gringos e i capisquadra
andavano in città ogni tre mesi a far visita alle famiglie. L'arrivo della
sposa del dottor Gomez, come la chiamarono, turbò la routine per qualche
giorno, finché si abituarono a vederla passeggiare con i suoi veli, il suo
ombrellino e le sue scarpette da ballo, come un personaggio scappato da
un'altra storia. Maurizia Rugieri non permise che la rozzezza di quegli uomini
o la calura di ogni giorno la sconfiggessero, si propose di vivere il proprio
destino con grandezza e quasi ci riuscì. Mutò Leonardo Gomez nell'eroe del
proprio melodramma, adornandolo con virtù utopiche ed esaltando fino alla
demenza la qualità del suo amore, senza fermarsi a misurare la risposta del suo
amante per sapere se lui la seguisse con lo stesso passo in quella sfrenata
corsa passionale. Se Leonardo Gomez dava mostra di rimanere molto indietro, lei
lo attribuiva al suo carattere timido e alla sua salute cagionevole, peggiorata
da quel clima maledetto. In realtà sembrava così fragile che lei si guarì
definitivamente dei suoi antichi malesseri per dedicarsi a curarlo. Lo
accompagnava nel primitivo ospedale e apprese i rudimenti dell'infermieristica
per aiutarlo. Badare alle vittime della malaria o curare orrende ferite di
incidenti nei pozzi le sembrava meglio che restare chiusa in casa, seduta sotto
un ventilatore, a leggere per la centesima volta le stesse riviste stagionate e
romanzi romantici. Tra siringhe e bendaggi poteva immaginare se stessa come
un'eroina della guerra, una di quelle coraggiose donne dei film che spesso
vedevano al club dell'accampamento. Rifiutò con determinazione suicida di
percepire il deterioramento della realtà, impegnata nell'abbellire ogni istante
con le parole, nell'impossibilità di farlo in un altro modo. Parlava di
Leonardo Gomez, che continuò a chiamare Mario, come di un santo dedito al
servizio dell'umanità, e si impose il compito di dimostrare al mondo che loro
due erano i protagonisti di un amore eccezionale, il che finì per scoraggiare
qualsiasi impiegato della Compagnia che avrebbe potuto sentirsi eccitato
dall'unica donna bianca del posto. Maurizia chiamò contatto con la natura la
barbarie dell'accampamento, e ignorò le zanzare, gli animali velenosi, le
iguane, l'inferno del giorno, il soffoco della notte e il fatto che non poteva
avventurarsi da sola al di là del cancello. Si riferiva alla sua solitudine,
alla noia, e al desiderio naturale di andare in città, di vestirsi alla moda,
di far visita alle amiche e di andare a teatro come a una leggera nostalgia.
L'unica cosa cui non poté cambiare nome fu quel dolore animalesco che la
spezzava in due quando ricordava suo figlio, per cui decise di non menzionarlo
mai. Leonardo Gomez lavorò come medico dell'accampamento per più di dieci anni,
finché le febbri e il clima non gli stroncarono la salute. Si trovava da tanto
tempo all'interno della cerchia protettiva della Compagnia Petrolifera che non
aveva il coraggio di iniziarsi a un ambiente più aggressivo, e d'altro canto
ricordava ancora la furia di Ezio Longo quando l'aveva scagliato contro il
muro, cosìcché non prese neppure in considerazione l'eventualità di tornare
alla capitale. Cercò un altro posto in qualche angolo sperduto dove potesse
continuare a vivere in pace, e così arrivò un giorno ad Agua Santa con sua
moglie, i suoi strumenti chirurgici e i suoi dischi d'opera. Erano gli anni
cinquanta, e Maurizia Rugieri scese dalla corriera vestita alla moda, con un
abito aderente a pallini e un enorme cappello di paglia nera che aveva ordinato
per corrispondenza a New York, una cosa che da quelle parti non si era mai
vista. Comunque li accolsero con l'ospitalità dei piccoli paesi, e in meno di
ventiquattr'ore tutti conoscevano la leggenda d'amore dei nuovi venuti. Li
chiamarono Tosca e Mario, senza avere la minima idea di chi fossero quei
personaggi, ma Maurizia si incaricò di farglielo sapere. Abbandonò le sue
pratiche infermieristiche accanto a Leonardo, formò un coro liturgico per la
parrocchia e offrì al paese le prime esibizioni canore. Muti dalla sorpresa,
gli abitanti di Agua Santa la videro trasformata in Madame Butterfly su un
palcoscenico improvvisato nella scuola, acconciata con una stramba vestaglia,
qualche ago da calza infilato nella chioma, due fiori di plastica alle orecchie
e la faccia dipinta col gesso bianco, trillando con la sua voce da uccellino.
Nessuno capì una sola parola del canto, ma quando si mise in ginocchio ed
estrasse un coltello da cucina minacciando di piantarselo nella pancia, il
pubblico lanciò un grido d'orrore e uno spettatore corse a dissuaderla, le
strappò l'arma dalle mani e la costrinse a rimettersi in piedi. Subito si
intavolò una lunga discussione sulle ragioni della tragica decisione della dama
giapponese, e tutti concordarono che il marinaio americano che l'aveva
abbandonata era un senza cuore, ma non valeva la pena di morire per lui, dato
che la vita è lunga e ci sono tanti uomini al mondo. La rappresentazione terminò
in gloria quando si improvvisò una banda che interpretò alcune canzoni popolari
e la gente si mise a ballare. A quella serata memorabile altre ne seguirono,
simili: canto, morte, spiegazione da parte del soprano dell'argomento
dell'opera, dibattito pubblico e festa finale. Il dottor Mario e la signora
Tosca erano due membri scelti della comunità, lui si occupava della salute di
tutti e lei della vita culturale e dell'informazione sui capricci della moda.
Vivevano in una casa fresca e gradevole, metà della quale era occupata
dall'ambulatorio. Nel patio avevano un pappagallo giallo e blu che volava sopra
le loro teste quando uscivano a passeggiare in piazza. Si sapeva dove andavano
il dottore o sua moglie perché il volatile li accompagnava sempre a due metri
d'altezza, planando silenziosamente con le sue grandi ali da animale dipinto.
Ad Agua Santa vissero molti anni, rispettati dalla gente, che li indicava come
un esempio di amore perfetto. In uno dei suoi attacchi il dottore si perse per
le vie della febbre e non riuscì più a tornare. La sua morte commosse il paese.
Temettero che la moglie commettesse un gesto insano, come i tanti che aveva
rappresentato cantando, per cui organizzarono i turni per farle compagnia
giorno e notte durante le settimane seguenti. Maurizia Rugieri si vestì a lutto
dalla testa ai piedi, dipinse di nero tutti i mobili di casa e trascinò il
proprio dolore come un'ombra tenace che le segnò il volto con due profondi
solchi accanto alla bocca, ma non tentò di mettere fine alla propria vita.
Forse nell'intimità della sua stanza, quando era sola a letto, sentiva un
profondo sollievo perché non doveva più continuare a tirare il pesante carro
dei suoi sogni, non era più necessario tenere in vita il personaggio inventato
per rappresentare se stessa, né continuare a eseguire giochi di prestigio per
dissimulare le debolezze di un amante che non fu mai all'altezza delle sue
illusioni. Ma l'abitudine al teatro era troppo radicata. Con la stessa pazienza
infinita con cui prima si era creata un'immagine di eroina romantica, nella
vedovanza costruì la leggenda della sua inconsolabilità. Rimase ad Agua Santa,
sempre vestita di nero, benché il lutto non si usasse più da molto tempo, e si
rifiutò di cantare di nuovo, malgrado le suppliche dei suoi amici, i quali
pensavano che l'opera potesse darle consolazione. Il paese si strinse attorno a
lei, come un forte abbraccio, per renderle la vita tollerabile e aiutarla nei
suoi ricordi. Con la complicità di tutti l'immagine del dottor Gomez crebbe
nell'immaginazione popolare. Due anni dopo fecero una colletta per fabbricare
un busto in bronzo che collocarono sopra una colonna in piazza, di fronte alla
statua di pietra del liberatore. In quello stesso anno aprirono l'autostrada
che passò davanti ad Agua Santa, alterando per sempre l'aspetto e l'anima del
paese. All'inizio la gente si oppose al progetto, credendo che avrebbero tirato
fuori i poveri reclusi del Penitenziario di Santa Maria per metterli,
incatenati, a tagliare alberi e a spaccare pietre, come i nonni dicevano che
era stata costruita la rotabile ai tempi della dittatura del Benefattore, ma
presto arrivarono gli ingegneri dalla città con la notizia che il lavoro
sarebbe stato fatto dalle macchine moderne e non dai detenuti. Dietro di loro
vennero i topografi e poi le squadre di operai con elmetti arancione e strisce
che brillavano nel buio. Le macchine risultarono dei monumenti di ferro grandi
come un dinosauro (secondo i calcoli della maestra elementare) sui cui fianchi
era dipinto il nome dell'impresa, Ezio Longo & Figlio. Quello stesso
venerdì il padre e il figlio vennero ad Agua Santa per ispezionare i lavori e
pagare gli operai. Vedendo le insegne e i macchinari del suo ex marito,
Maurizia Rugieri si nascose in casa con porte e finestre sbarrate, con
l'insensata speranza di mantenersi fuori por tata del suo passato. Ma per
ventotto anni aveva sopportato il ricordo del figlio assente come un dolore
inchiodato nel centro del corpo, e quando seppe che i proprietari dell'impresa
costruttrice si trovavano ad Agua Santa a pranzare nella locanda, non poté
continuare a lottare contro il proprio istinto. Si guardò allo specchio. Era
una donna di cinquantun anni, invecchiata dal sole del tropico e dallo sforzo
di fingere una felicità chimerica, ma i suoi tratti serbavano ancora la nobiltà
dell'orgoglio. Si spazzolò i capelli e li raccolse in una crocchia alta, senza
tentare di dissimulare la canizie, si mise il suo miglior vestito nero e la
collana di perle delle sue nozze, salvata da tante avventure, e con un gesto di
timida civetteria si diede un tocco di matita nera agli occhi e di rossetto
alle guance e sulle labbra. Uscì di casa proteggendosi dal sole con l'ombrello
di Leonardo Gomez. Il sudore le scorreva lungo la schiena, ma non tremava più.
A quell'ora le persiane della locanda erano chiuse per evitare il caldo del
mezzogiorno, per cui Maurizia Rugieri ebbe bisogno di diverso tempo per
assuefare gli occhi alla penombra e distinguere a uno dei tavoli in fondo Ezio
Longo e il giovane uomo che doveva essere suo figlio. Suo marito era cambiato
molto meno di lei, forse perché era sempre stato una persona senza età. Lo
stesso collo da leone, la stessa ossatura solida, le stesse fattezze rozze e
gli occhi infossati, ma ora addolciti da un ventaglio di rughe allegre prodotte
dal buonumore. Chino sul suo piatto, masticava con entusiasmo, ascoltando le
parole del figlio. Maurizia li osservò da lontano. Suo figlio doveva avere
quasi trent'anni. Benché avesse le ossa lunghe e la pelle delicata di lei, i
gesti erano quelli di suo padre, mangiava con lo stesso piacere, picchiava sul
tavolo per dare enfasi alle sue parole, rideva volentieri, era un uomo vitale
ed energico, con un senso categorico della propria forza, ben disposto a
lottare. Maurizia guardò Ezio Longo con occhi nuovi e vide per la prima volta
le sue massicce virtù maschili. Fece un paio di passi avanti, commossa, col
respiro mozzo, vedendo se stessa da un'altra dimensione, come se fosse stata su
un palcoscenico a rappresentare il momento più drammatico del lungo teatro che
era stata la sua esistenza, con i nomi del marito e del figlio sulle labbra e
la miglior disposizione ad essere perdonata per tanti anni di abbandono. In
quel paio di minuti vide i minuziosi ingranaggi della trappola in cui si era
ficcata per tre decenni di allucinazioni. Comprese che il vero eroe del romanzo
era Ezio Longo, e volle credere che lui avesse continuato a desiderarla e ad
aspettarla per tutti quegli anni con l'amore tenace e appassionato che Leonardo
Gomez non poté mai darle perché non era nella sua natura. In quell'istante,
quando un solo passo in più l'avrebbe fatta uscire dalla zona d'ombra e messa
in evidenza, il giovane si chinò, afferrò il polso del padre e gli disse
qualcosa con un ghigno simpatico. Scoppiarono entrambi a ridere, battendosi
sulle braccia, scompigliandosi reciprocamente i capelli, con una tenerezza
virile e una salda complicità dalla quale Maurizia Rugieri e il resto del mondo
erano esclusi. Ella vacillò per un istante infinito sulla frontiera tra la realtà
e il sogno, poi indietreggiò, uscì dalla locanda, aprì il suo ombrello nero e
tornò a casa con il pappagallo che le svolazzava sopra la testa, come un
bizzarro arcangelo da calendario.
WALIMAI.
Il nome che mi diede mio padre è Walimai, che nella lingua
dei nostri fratelli del nord vuol dire vento. Posso raccontartelo perché ora
sei come mia figlia e hai il mio permesso di nominarmi, anche se solo quando
siamo in famiglia. Si deve stare molto attenti con i nomi delle persone e degli
esseri viventi, perché nel pronunciarli si tocca il loro cuore ed entriamo
dentro la loro forza vitale. Così ci salutiamo come parenti di sangue. Non
capisco la facilità degli stranieri che si chiamano l'un l'altro senza ombra di
timore, il che non è solo una mancanza di rispetto, ma può causare anche gravi
pericoli. Ho notato che quelle persone parlano con la massima leggerezza, senza
tener presente che parlare è anche essere. Il gesto e la parola sono il
pensiero dell'uomo. Non si deve parlare invano, questo ho insegnato ai miei
figli, ma i miei consigli non sempre sono ascoltati. Anticamente i tabù e le
tradizioni erano rispettati. I miei nonni i nonni dei miei nonni ricevettero
dai loro nonni le conoscenze necessarie. Nulla cambiava per loro. Un uomo con
un buon insegnamento poteva ricordare ciascuno degli insegnamenti ricevuti e
così sapeva come agire in ogni circostanza. Ma poi vennero gli stranieri
parlando contro la sapienza degli anziani e spingendoci fuori dalla nostra
terra. Ci inoltrammo sempre più nella selva, ma loro ci raggiungono sempre, a
volte ci mettono anni, ma alla fine arrivano di nuovo, e allora noi dobbiamo
distruggere i seminati, metterci i bambini in spalla, legare gli animali e
partire. Così è stato da quando mi ricordo: lasciare tutto e metterci a correre
come topi e non come i grandi guerrieri e gli dèi che popolarono questo
territorio nell'antichità. Alcuni giovani provano curiosità per i bianchi, e
mentre noi andiamo verso il profondo della foresta per continuare a vivere come
i nostri antenati, altri intraprendono il cammino opposto. Consideriamo coloro
che se ne vanno come se fossero morti, perché pochissimi ritornano, e chi lo fa
è tanto cambiato che non possiamo riconoscerlo come parente. Dicono che negli
anni precedenti la mia nascita non erano venute al mondo abbastanza femmine nel
nostro villaggio, e per questo mio padre dovette percorrere lunghi cammini per
cercare una sposa in un'altra tribù. Viaggiò per le foreste, seguendo le
indicazioni di altri che avevano camminato per quei sentieri prima di lui per
la stessa ragione, e che tornarono con mogli forestiere. Dopo molto tempo,
quando mio padre già cominciava a perdere la speranza di trovare una compagna,
vide una giovane ai piedi di una cascata alta, un fiume che cadeva dal cielo.
Senza avvicinarsi troppo, per non spaventarla, le parlò nel tono che usano i
cacciatori per tranquillizzare la preda, e le spiegò la sua necessità di
sposarsi. Lei gli fece segno di avvicinarsi, lo osservò apertamente e l'aspetto
del viaggiatore deve esserle piaciuto, perché decise che l'idea del matrimonio
non era del tutto scriteriata. Mio padre dovette lavorare per il suocero fino a
pagargli il valore della moglie. Dopo aver compiuto i riti nuziali, fecero il
viaggio di ritorno al nostro villaggio. Io crebbi con i miei fratelli sotto gli
alberi, senza mai vedere il sole. A volte cadeva un albero ferito e rimaneva un
vuoto nella cupola profonda della foresta, allora vedevamo l'occhio azzurro del
cielo. I miei genitori mi raccontarono storie, mi cantarono canzoni e mi insegnarono
ciò che devono sapere gli uomini per sopravvivere senza aiuto, solo con l'arco
e le frecce. In questo modo fui libero. Noi, i Figli della Luna, non possiamo
vivere senza libertà. Quando ci rinchiudono tra le pareti o tra le sbarre ci
volgiamo dentro noi stessi, diventiamo ciechi e sordi e in pochi giorni lo
spirito ci si stacca dalle ossa del petto e ci abbandona. A volte diventiamo
come animali miserabili, ma quasi sempre preferiamo morire. Perciò le nostre
case non hanno pareti, solo un tetto inclinato per fermare il vento e deviare
la pioggia, sotto il quale appendiamo le nostre amache molto vicine, perché ci
piace ascoltare i sogni delle donne e dei bambini e sentire il respiro delle
scimmie, dei cani e delle lapas, che dormono sotto la stessa tettoia. Nei primi
tempi sono vissuto nella selva senza sapere che esisteva un mondo al di là
delle rocce e dei fiumi. Qualche volta vennero amici visitatori di altre tribù
e ci raccontarono cose sentite di Boa Vista e di El Platanal, degli stranieri e
dei loro costumi, ma credevamo che fossero solo storielle per far ridere. Mi
feci uomo e venne il mio turno di trovare una sposa, ma decisi di aspettare
perché preferivo andare con gli scapoli, eravamo allegri e ci divertivamo. Però
io non potevo dedicarmi al gioco e al riposo come altri, perché la mia famiglia
è numerosa: fratelli, cugini, nipoti, tante bocche da sfamare, molto lavoro per
un cacciatore. Un giorno al nostro villaggio arrivò un gruppo di uomini
pallidi. Cacciavano con la polvere, da lontano, senza destrezza né coraggio,
erano incapaci di arrampicarsi su un albero o di infilzare un pesce con una
lancia nell'acqua, potevano appena muoversi nella selva, sempre imprigionati
nei loro zaini, nelle loro armi e persino nei loro piedi. Non si vestivano d'aria
come noi, ma avevano vesti inzuppate e fetide, erano sporchi e non conoscevano
le regole della decenza. Ma si impegnavano a parlarci delle loro conoscenze e
dei loro dèi. Li paragonammo con quello che ci avevano raccontato sui bianchi e
comprovammo la verità di quelle favole. Presto ci accorgemmo che questi non
erano missionari, soldati o raccoglitori di caucciù, erano pazzi, volevano la
terra e portarsi via il legname, cercavano anche pietre. Spiegammo loro che la
selva non si può mettersela in spalla e portarsela via come un uccello morto,
ma non vollero sentire ragioni. Si installarono vicino al nostro villaggio.
Ognuno di loro era come un vento di catastrofe, distruggeva al suo passaggio
tutto ciò che toccava, lasciava come una traccia di sperpero, molestava gli
animali e le persone. All'inizio rispettammo le regole della cortesia e li
compiacemmo, perché erano nostri ospiti, ma loro non erano contenti di niente,
volevano sempre di più, finché, stanchi di quei giochi, iniziammo la guerra con
tutte le cerimonie usuali. Non sono buoni guerrieri, si spaventano facilmente e
hanno le ossa molli. Non resistettero alle mazzate che davamo loro sulla testa.
Dopodiché abbandonammo il villaggio e ce ne andammo a oriente, dove la foresta
è impenetrabile, facendo lunghi tratti sulle chiome degli alberi perché ì loro
compagni non ci raggiungessero. Ci era giunta la notizia che sono vendicativi e
che per ciascuno di loro che muore, anche se in una battaglia pulita, sono
capaci di eliminare tutta una tribù compresi i bambini. Scoprimmo un luogo dove
situare un altro villaggio. Non era altrettanto buono, le donne dovevano
camminare ore per trovare acqua chiara, ma restammo lì perché credevamo che
nessuno ci avrebbe cercati così lontano. In capo a un anno, una volta che
dovetti allontanarmi molto seguendo la pista di un puma, mi avvicinai troppo a
un accampamento di soldati. Ero stanco e non avevo mangiato da diversi giorni,
perciò la mia mente era stordita. Invece di tornare indietro quando percepii la
presenza dei soldati stranieri, mi fermai a riposare. I soldati mi presero.
Però non parlarono delle mazzate date agli altri, in realtà non mi chiesero
niente, forse non conoscevano quelle persone o non sapevano che io sono
Walimai. Mi portarono a lavorare con i raccoglitori di caucciù, dove c'erano
molti uomini di altre tribù, li avevano vestiti con i pantaloni e li
costringevano a lavorare, senza prendere in considerazione la loro volontà. Il
caucciù richiede molta cura e non c'era abbastanza gente da quelle parti, perciò
dovevano prenderci con la forza. Quello fu un periodo senza libertà e non
desidero parlarne. Rimasi solo per vedere se imparavo qualcosa, ma fin
dall'inizio sapevo che sarei ritornato dai miei. Nessuno può trattenere per
molto tempo un guerriero contro la sua volontà. Si lavorava da sole a sole,
alcuni incidendo gli alberi per togliergli la vita goccia a goccia, altri
cuocendo il liquido raccolto per ispessirlo e farne grandi palle. L'aria libera
era malata dell'odore della gomma bruciata e l'aria dei dormitori comuni lo era
per il sudore degli uomini. In quel luogo non potei mai respirare a fondo. Ci
davano da mangiare mais, banane e lo strano contenuto di lattine che non
assaggiai mai perché nulla di buono per gli uomini può crescere in un
barattolo. A un'estremità dell'accampamento avevano costruito una grande
capanna dove tenevano le donne. Dopo due settimane che lavoravo con il caucciù,
il caposquadra mi diede un pezzo di carta e mi mandò da loro. Mi diede anche
una tazza di liquore che io versai per terra, perché ho visto come quell'acqua
distrugge la prudenza. Feci la fila, con tutti gli altri. Io ero l'ultimo, e
quando mi toccò entrare nella capanna il sole era tramontato e cominciava la
notte, col suo strepito di rospi e pappagalli. Lei era della tribù degli Ila,
quelli dal cuore dolce, da cui vengono le giovani più delicate. Alcuni uomini
viaggiano per mesi per avvicinarsi agli Ila, portano loro regali e cacciano per
loro, nella speranza di ottenere una delle loro donne. Io la riconobbi malgrado
il suo aspetto da ramarro, perché anche mia madre era una Ila. Era nuda su una
stuoia, legata per la caviglia con una catena fissata al suolo, in letargo,
come se avesse aspirato dal naso lo “yopo” dell'acacia, aveva l'odore dei cani
bagnati ed era sporca degli spruzzi di tutti gli uomini che erano stati sopra
di lei prima di me. Era grande come un bambino di pochi anni, le sue ossa
risuonavano come pietrisco nel fiume. Le donne Ila si tolgono tutti i peli del
corpo, persino le ciglia, si adornano le orecchie con piume e fiori, si
infilano bastoncini levigati nelle guance e nel naso, si dipingono disegni su
tutto il corpo con i colori rosso dell'onoto, viola della palma e nero del
carbone. Ma lei non aveva più nulla di tutto questo. Lasciai il mio machete per
terra e la salutai come sorella, imitando alcuni canti di uccelli e il rumore
dei fiumi. Lei non rispose. Le colpii con forza il petto, per vedere se il suo
spirito risuonava tra le costole, ma non ci fu eco, la sua anima era molto
debole e non poteva rispondermi. In ginocchio accanto a lei le diedi da bere un
po' d'acqua e le parlai nella lingua di mia madre. Aprì gli occhi e mi guardò a
lungo. Capii. Prima di tutto mi lavai senza sprecare l'acqua pulita. Me ne
versai un gran sorso in bocca e lo proiettai in sottili schizzi contro le mie
mani, che sfregai bene e poi inzuppai per pulirmi la faccia. Feci lo stesso con
lei, per toglierle gli spruzzi degli uomini. Mi tolsi i pantaloni che mi aveva
dato il caposquadra. Dalla corda che mi cingeva la vita pendevano i miei
legnetti per accendere il fuoco, alcune punte di freccia, il mio rotolo di
tabacco, il mio coltello di legno con un dente di topo in punta e una borsa di
cuoio ben chiusa, dove tenevo un poco di curaro. Misi un po' di quella pasta
sulla punta del mio coltello, mi chinai sulla donna e con lo strumento
avvelenato le feci un taglio sul collo. La vita è un dono degli dèi. Il
cacciatore uccide per alimentare la sua famiglia, lui fa in modo di non
assaggiare la carne della sua preda e preferisce quella che un altro cacciatore
gli offre. A volte, per disgrazia, un uomo ne uccide un altro in guerra, ma non
può mai fare del. male a una donna o a un bambino. Lei mi guardò con grandi
occhi, gialli come il miele, e mi parve che tentasse di sorridere, grata. Per lei
io avevo violato il primo tabù dei Figli della Luna e avrei dovuto pagare la
mia vergogna con molte pene di espiazione. Avvicinai il mio orecchio alla sua
bocca e lei mormorò il suo nome. Lo ripetei per due volte nella mia mente per
essere ben sicuro, ma senza pronunciarlo ad alta voce, perché non si devono
menzionare i morti per non turbarne la pace, e lei già lo era, anche se il suo
cuore palpitava ancora. Presto vidi che le si paralizzavano i muscoli del
ventre, del petto e delle membra, perse il fiato, cambiò colore, le sfuggì un
sospiro e il suo corpo morì senza lottare, come muoiono i bambini piccoli.
Subito sentii che lo spirito le usciva dalle narici e si introduceva in me,
afferrandosi al mio sterno. Tutto il peso di lei cadde su di me e dovetti fare
uno sforzo per alzarmi in piedi, mi muovevo goffamente, come fossi stato
sott'acqua. Piegai il suo corpo nella posizione dell'ultimo riposo, con le
ginocchia che toccavano il mento, le legai con le corde della stuoia, feci un
mucchietto con i resti della paglia e usai i miei legni per accendere il fuoco.
Quando vidi che la fiamma ardeva sicura uscii lentamente dalla capanna, scalai
il recinto dell'accampamento con molta difficoltà, perché lei mi trascinava
verso il basso, e mi diressi verso la selva. Avevo raggiunto i primi alberi
quando sentii le campane dell'allarme. Per tutto il primo giorno camminai senza
fermarmi un istante. Il secondo giorno fabbricai arco e frecce e con questo
potei cacciare per lei e anche per me. Il guerriero che porta il peso di
un'altra vita umana deve digiunare per dieci giorni, così si debilita lo
spirito del defunto, che finalmente si stacca e se ne va nel territorio delle
anime. Se non lo fa, lo spirito ingrassa con gli alimenti e cresce dentro
l'uomo fino a soffocarlo. Ho visto alcuni incauti morire così. Ma prima di
adempiere a queste regole io dovevo condurre lo spirito della donna Ila verso
la vegetazione più oscura, dove non potesse mai essere ritrovato. Mangiai
pochissimo, appena il necessario per non ucciderla una seconda volta. Ogni
boccone sapeva di carne marcia e ogni sorso d'acqua era amaro, ma mi costrinsi
a inghiottirli per nutrirci entrambi. Durante un percorso completo della luna
mi addentrai nella selva portando l'anima della donna, che ogni giorno pesava di
più. Parlammo molto. La lingua degli Ila è sciolta e risuona sotto gli alberi
con una lunga eco. Comunicavamo cantando, con tutto il corpo, con gli occhi,
con la vita, con i piedi. Le ripetei le leggende che avevo imparato da mia
madre e da mio padre, le narrai il mio passato e lei mi narrò la prima parte
del suo, quando era una giovane allegra che giocava con i fratelli a
rivoltolarsi nel fango e a dondolarsi sui rami più alti. Per cortesia non parlò
del suo ultimo periodo di sventure e umiliazioni. Cacciai un uccello bianco,
gli strappai le penne migliori e le feci degli ornamenti per le orecchie. Di
notte tenevo acceso un fuocherello, perché non avesse freddo e i giaguari e i
serpenti non disturbassero il suo sonno. Nel fiume la lavai con cura, sfregandola
con cenere e fiori pestati per toglierle i brutti ricordi. Un giorno finalmente
raggiungemmo il posto giusto, e non avevamo più pretesti per proseguire. Lì la
selva era così folta che in alcuni punti dovetti aprirmi il passo spezzando la
vegetazione con il mio machete e persino con i denti, e dovevamo parlare a
bassa voce per non alterare il silenzio del tempo. Scelsi un punto accanto a un
filo d'acqua, costruii una tettoia di foglie e feci un'amaca per lei con tre
lunghe strisce di corteccia. Con il coltello mi rasai la testa e cominciai il
mio digiuno. Durante tutto il tempo che camminammo insieme, la donna e io ci
amammo tanto che non volevamo più separarci, ma l'uomo non è padrone della
vita, neppure della propria, per cui dovetti compiere il mio dovere. Per molti
giorni non misi in bocca nulla, solo qualche sorso d'acqua. Man mano che le
forze si debilitavano lei si andava sciogliendo dal mio abbraccio, e il suo
spirito, sempre più etereo, non mi pesava più come prima. Dopo cinque giorni
mosse i suoi primi passi lì attorno, mentre io sonnecchiavo, ma non era pronta
per continuare il suo viaggio da sola e tornò con me. Ripete queste escursioni
diverse volte, allontanandosi ogni volta un poco di più. Il dolore della sua
partenza era per me terribile come un'ustione, e dovetti ricorrere a tutto il
coraggio imparato da mio padre per non chiamarla con il suo nome ad alta voce,
attirandola così di nuovo a me per sempre. Dopo dodici giorni sognai che volava
come un tucano sopra le chiome degli alberi e mi svegliai con il corpo più
leggero e la voglia di piangere. Se n'era andata definitivamente. Raccolsi le
mie armi e camminai per molte ore fino a raggiungere un braccio del fiume. Mi
immersi nell'acqua fino alla cintola, trafissi un piccolo pesce con un bastone
appuntito e lo inghiottii intero, con squame e coda. Subito lo vomitai con un
po' di sangue, come deve essere. Non mi sentii più triste. Imparai allora che a
volte la morte è più potente dell'amore. Poi mi misi a cacciare per non tornare
al mio villaggio a mani vuote.
ESTER LUCERO.
Gli portarono Ester Lucero stesa su una barella
improvvisata, che perdeva sangue come un bue, con i suoi occhi scuri sbarrati
dal terrore. Vedendola il dottor Angel Sanchez perse per la prima volta la sua
calma proverbiale, e così doveva essere, perché era innamorato di lei dal
giorno in cui l'aveva vista, quando era ancora una bambina. A quei tempi lei
era ancora attaccata alle bambole, mentre lui tornava invecchiato di mille anni
dalla sua ultima Gloriosa Campagna. Entrò in paese alla testa della sua
colonna, seduto sul tetto di una camionetta, con un fucile sulle ginocchia, una
barba di mesi e una pallottola piantata per sempre nell'inguine, ma felice come
non lo fu mai né prima né dopo. Vide la ragazzina che sventolava una bandiera
di carta rossa, in mezzo alla folla che inneggiava ai liberatori. In quel
momento lui aveva trent'anni e lei andava per i dodici, ma Angel Sanchez
indovinò, dalla soda carnagione d'alabastro e dalla profondità dello sguardo
della bambina, la bellezza che in segreto si andava germinando. L'osservò
dall'alto del suo veicolo, convinto che fosse una visione provocata dalla
febbre delle paludi e dall'entusiasmo della vittoria, ma poiché quella notte
non trovò consolazione tra le braccia della fidanzata fugace che gli toccò in
sorte, capì che doveva andare in cerca di quella bambina, almeno per comprovare
la sua condizione di miraggio. Il giorno seguente, quando si calmarono i
tumulti della celebrazione ed ebbe inizio il compito di riordinare il mondo e di
spazzare via i detriti della dittatura, Sanchez uscì a fare un giro per il
paese. La sua prima idea fu di ispezionare le scuole, ma venne a sapere che
erano chiuse dai tempi dell'ultima battaglia, per cui dovette bussare ad ogni
porta. In capo a diversi giorni di paziente pellegrinaggio, e quando già
pensava che la fanciulla fosse stata un inganno del suo cuore estenuato, giunse
a una minuscola casa dipinta d'azzurro e con la facciata traforata dalle
pallottole, la cui unica finestra si apriva sulla strada senza altra protezione
che un paio di tendine a fiori. Bussò diverse volte senza ottenere risposta, e
allora si decise a entrare. L'interno era un unico locale poveramente arredato,
fresco e in penombra. Attraversò la stanza, aprì la porta e si trovò in un
ampio cortile disseminato di ciarpame e vecchiume, con un'amaca appesa sotto un
mango, un lavatoio, un pollaio in fondo e una profusione di barattoli e vasi di
terracotta in cui crescevano erbe, verdure e fiori. Lì incontrò finalmente
colei che credeva di aver sognato. Ester Lucero era scalza, con un vestito di
tela ordinario, la chioma legata dietro la nuca con una stringa da scarpe, e
stava aiutando la nonna a stendere la biancheria al sole. Vedendolo, entrambe
indietreggiarono in un gesto istintivo, perché avevano imparato a diffidare di
coloro che calzavano stivali. “Non abbiate paura, sono un compagno” si presentò
con il basco unto in mano. A partire da quel giorno Angel Sanchez si limitò a
desiderare Ester Lucero in silenzio, vergognandosi di quella inconfessabile
passione per una bambina impubere. Per lei rifiutò di trasferirsi nella
capitale quando si spartì il bottino del potere, e preferì rimanere a dirigere
l'unico ospedale di quel paese dimenticato. Non aspirava a consumare l'amore
oltre l'ambito della propria immaginazione. Viveva d'infime soddisfazioni:
vederla passare quando andava a scuola, curarla quando prese il morbillo,
procurarle vitamine durante gli anni in cui il latte, le uova e la carne
bastavano solo per i più piccini e gli altri dovevano arrangiarsi con banane e
mais, andare a trovarla nel suo cortile, dove si piazzava su una sedia a
insegnarle la tavola pitagorica sotto l'occhio vigile della nonna. Ester Lucero
finì per chiamarlo zio in mancanza di un nome più appropriato, e la vecchia
finì per accettare la sua presenza come un altro degli inesplicabili misteri
della Rivoluzione. “Che interesse può trovare un uomo istruito, dottore,
direttore dell'ospedale, eroe della patria, nelle chiacchiere di una vecchia e
nei silenzi di sua nipote?” si chiedevano le comari del paese. Negli anni
seguenti la fanciulla fiorì come accade quasi sempre, ma Angel Sanchez credette
che nel suo caso fosse una specie di prodigio, e che lui solo potesse vedere la
beltà che maturava nascosta sotto i vestiti innocenti confezionati dalla nonna
con la sua macchina da cucire. Era certo che al suo passaggio i sensi di chi la
vedeva ne venissero sconvolti, come accadeva ai suoi, perciò si stupiva di non
trovare un vortice di pretendenti attorno a Ester Lucero. Viveva tormentato da
sentimenti travolgenti: gelosia categorica di tutti gli uomini, una perenne
malinconia, frutto della disperazione, e la febbre infernale che l'assaliva
nell'ora della siesta, quando immaginava la bimba nuda e umida, che lo chiamava
con gesti osceni tra le ombre della stanza. Nessuno seppe mai dei suoi
tormentosi stati d'animo. Il controllo che esercitava su se stesso si trasformò
in una seconda natura, e acquistò così fama di uomo buono. Alla fine le matrone
del paese si stancarono di cercargli una fidanzata e finirono per accettare
l'idea che il medico fosse un po' strano. “Non sembra un finocchio” conclusero,
“ma forse la malaria o la pallottola che ha tra le cosce gli hanno tolto per
sempre il gusto per le donne.” Angel Sanchez malediceva sua madre, che l'aveva
messo al mondo vent'anni troppo presto, e il suo destino, che gli aveva
disseminato il corpo e l'anima di tante cicatrici. Pregava che qualche
capriccio della natura distorcesse l'armonia e offuscasse lo splendore di Ester
Lucero, affinché nessuno sospettasse che era la donna più bella di questo mondo
e di qualsiasi altro. Perciò quel fatidico giovedì, quando gliela portarono
all'ospedale su una barella, con la nonna che marciava in testa e una
processione di curiosi dietro, il dottore proruppe in un grido viscerale.
Scostando il lenzuolo e vedendo la giovane perforata da una ferita orrenda
credette di aver provocato quella catastrofe dal tanto desiderare che lei non
appartenesse mai a un altro uomo “Si è arrampicata sul mango del cortile, è
scivolata e si e infilzata sul paletto dove leghiamo l'oca” spiegò la nonna.
“Poverina, è rimasta impalata come un vampiro. Non è stato facile liberarla”
chiarì un vicino che aiutava a trasportare la barella. Ester Lucero chiuse gli
occhi e si lamentò lievemente. A partire da quell'istante Angel Sanchez si
batté in un duello personale con la morte. Tentò tutto per salvare la giovane.
La operò, le fece iniezioni, trasfusioni col proprio sangue e la riempì di
antibiotici, ma dopo due giorni era evidente che la vita sfuggiva dalla ferita
come un torrente incontenibile. Seduto su una sedia accanto alla moribonda
sfinito dalla tensione e dalla tristezza; appoggiò la testa ai piedi del letto
e per qualche minuto si addormentò come un neonato. Mentre lui sognava di
mosche gigantesche lei era persa tra gli incubi dell'agonia, e così si
incontrarono in una terra di nessuno, e nel sogno condiviso lei afferrò la mano
di lui e lo pregò di non lasciarsi vincere dalla morte e di non abbandonarla.
Angel Sanchez si svegliò di soprassalto per il ricordo nitido del Negro Rivas e
dell'assurdo miracolo che gli aveva restituito la vita. Uscì di corsa e nel
corridoio si imbatté nella nonna, immersa in un mormorio di interminabili
preghiere. “Continui a pregare, che torno fra un quarto d'ora!” le gridò
passando.
Dieci anni prima, quando Angel Sanchez marciava con i suoi
compagni per la selva, con la vegetazione alle ginocchia e la tortura
inconsolabile degli insetti e del caldo, incalzati, attraversando il paese in
tutte le direzioni per tendere imboscate ai soldati della dittatura, quando non
erano altro che un pugno di pazzi visionari con il cinturone zeppo di
pallottole, lo zaino di poesie e la testa di ideali, quando duravano mesi senza
sentire il profumo di una donna o insaponarsi il corpo, quando la fame e la
paura erano una seconda pelle e l'unica cosa che li teneva in movimento era la
disperazione, quando vedevano nemici da ogni parte e diffidavano persino delle
loro ombre, allora il Negro Rivas precipitò in un burrone e rotolò per otto
metri verso l'abisso, sfracellandosi senza rumore, come un sacco di stracci. Ai
suoi compagni ci vollero venti minuti per scendere con le corde tra le pietre
affilate e i tronchi contorti, e trovarlo affondato negli sterpi, e quasi due ore
per issarlo, inzuppato di sangue. Il Negro Rivas, un omaccione coraggioso e
allegro, sempre con una canzone sulle labbra e sempre pronto a caricarsi in
spalla un altro combattente più debole, era aperto come una melagrana, con le
costole all'aria e un taglio profondo che iniziava dalla schiena per finire al
centro del petto. Sanchez aveva la sua cassetta del pronto soccorso, ma
quell'evento sfuggiva completamente alle sue modeste risorse. Senza la minima
speranza suturò la ferita, lo bendò con strisce di tela e gli somministrò i
medicinali disponibili. Collocarono l'uomo su un telone teso tra due pali, e
così lo trasportarono, avvicendandosi, finché fu evidente che ogni scossa era
un minuto di vita in meno, perché il Negro Rivas suppurava come una fontana e
delirava di iguana, di seni femminili e di uragani di sale. Stavano per
decidere di accamparsi per lasciarlo morire in pace, quando qualcuno vide
sull'orlo di una pozza d'acqua nera due indios che si spidocchiavano
amichevolmente. Un poco oltre, immerso nel denso vapore della selva, c'era il
loro villaggio. Era una tribù immobilizzata in un'età remota, senza altro
contatto con questo secolo che qualche missionario temerario che era andato a
predicarle senza successo le leggi di Dio, e cosa ancor più grave senza aver
mai sentito parlare dell'Insurrezione e aver mai udito il grido Patria o Morte.
Malgrado queste differenze e la barriera del linguaggio, gli indios capirono
che quegli uomini esausti non rappresentavano un pericolo, e diedero loro un
timido benvenuto. I ribelli indicarono il moribondo. Colui che sembrava il capo
li condusse in una capanna in eterna penombra, dove fluttuava una pestilenza di
orina e di melma. Stesero il Negro Rivas su una stuoia, circondato dai suoi
compagni e da tutta la tribù. Poco dopo si presentò lo stregone in acconciatura
da cerimonia. Il comandante si spaventò nel vedere le sue collane di peonie, i
suoi occhi da fanatico e lo strato di sudiciume sul suo corpo, ma Angel Sanchez
spiegò che ormai si poteva fare ben poco per il ferito, e che qualunque cosa
avesse ottenuto lo stregone, anche se l'avesse solo aiutato a morire, era
meglio di niente. Il comandante ordinò ai suoi uomini di abbassare le armi e
stare zitti, affinché quello strano sapiente seminudo potesse esercitare il suo
mestiere senza distrazioni. Due ore più tardi la febbre era scomparsa e il
Negro Rivas poteva inghiottire qualche sorso d'acqua. Il giorno seguente lo
stregone tornò e ripeté il trattamento. Al tramonto l'infermo era seduto a
mangiare una spessa pappa di mais, e due giorni dopo muoveva i suoi primi
passi, con la ferita in pieno processo di guarigione. Mentre gli altri
guerriglieri assistevano ai progressi del convalescente, Angel Sanchez
rastrellava la zona con lo stregone, raccogliendo piante nella sua bisaccia.
Molti anni dopo il Negro Rivas era diventato il Capo della Polizia della
capitale, e si ricordava di essere stato in punto di morte solo quando si
toglieva la camicia per abbracciare una nuova donna, la quale gli chiedeva
invariabilmente di quella lunga cicatrice che lo divideva in due.
“Se il Negro Rivas l'ha salvato un indio seminudo, Ester
Lucero la salverò io, a costo di fare un patto col diavolo” concluse Angel
Sanchez mentre tornava a casa sua in cerca delle erbe che aveva conservato per
tutti quegli anni, e che fino a quell'istante aveva dimenticato completamente.
Le trovò avvolte in pagine di giornale, secche e friabili, in fondo a un baule
tarlato, accanto al suo quaderno di versi al suo basco e ad altri ricordi della
guerra. Il medico tornò all'ospedale correndo come un perseguitato, sotto la
calura di piombo che esalava dall'asfalto Salì le scale a balzi e irruppe nella
stanza di Ester Lucero fradicio di sudore. La nonna e l'infermiera di turno lo
videro passare al galoppo e si avvicinarono allo spioncino della porta. Lo
videro togliersi il camice bianco, la camicia di cotone, i pantaloni scuri, i
calzini comprati di contrabbando e le scarpe con la suola di gomma che portava
sempre. Terrorizzate, lo videro spogliarsi anche delle mutande e rimanere nudo
come una recluta. “Santa Maria Madre di Dio!” esclamò la nonna. Attraverso la
finestrella poterono intravedere il dottore che spostava il letto verso il
centro della stanza, e dopo aver posato ambo le mani sulla testa di Ester
Lucero per alcuni secondi, iniziava un frenetico ballo attorno alla malata
Sollevava le ginocchia fino a toccarsi il petto, eseguiva profondi inchini,
agitava le braccia e faceva grottesche smorfie, senza perdere neppure per un
istante il ritmo interiore che gli metteva le ali ai piedi. E per mezz'ora non
smise di danzare come un forsennato, schivando le bombole d'ossigeno e i
flaconi di siero. Poi estrasse qualche foglia secca dalla tasca del camice, le
mise in una catinella, le frantumò col pugno fino a ridurle in polvere, vi
sputò sopra abbondantemente, mescolò il tutto per formare un impasto e si
avvicinò alla moribonda. Le donne lo videro togliere i bendaggi, e come
notificò l'infermiera nel suo rapporto, ungere la ferita con quella schifosa
mistura, senza la minima considerazione per le leggi dell'asetticità né per il
fatto che esibiva a nudo le sue vergogne. Terminata la cura l'uomo cadde seduto
a terra, completamente esausto ma illuminato da un sorriso da santo. Se il
dottor Angel Sanchez non fosse stato il direttore dell'ospedale e un eroe
indiscutibile della Rivoluzione, gli avrebbero infilato una camicia di forza
per spedirlo senza indugio al manicomio. Ma nessuno si azzardò a buttar giù la
porta che lui aveva chiuso con il chiavistello, e quando il sindaco prese la
decisione di farlo con l'aiuto dei pompieri erano già passate quattordici ore
ed Ester Lucero stava seduta sul letto a occhi aperti, contemplando divertita
suo zio Angel che si era spogliato di nuovo e dava inizio alla seconda fase del
trattamento con nuove danze rituali. Due giorni dopo, quando arrivò la
commissione del Ministero della Sanità inviata apposta dalla capitale,
l'inferma passeggiava per il corridoio al braccio della nonna, tutto il paese
sfilava per il terzo piano a vedere la ragazza resuscitata, e il direttore
dell'ospedale, vestito con impeccabile correttezza, riceveva i colleghi seduto
alla sua scrivania. La commissione si astenne dal chiedere dettagli sulle
inusitate danze del medico, e dedicò la propria attenzione alle indagini sulle
meravigliose piante dello stregone. Sono passati diversi anni da quando Ester
Lucero cadde dal mango. La giovane si sposò con un ispettore dell'ambiente e
andò ad abitare nella capitale, dove diede alla luce una bambina dalla
carnagione d'alabastro e dagli occhi neri. A suo zio Angel manda di tanto in
tanto nostalgiche cartoline disseminate di errori d'ortografia. Il Ministero
della Sanità ha organizzato quattro spedizioni per cercare le erbe portentose
nella selva, senza alcun risultato. La vegetazione ingoiò il villaggio indigeno
e con esso la speranza di un medicamento scientifico contro gli incidenti
irrimediabili. Il dottor Angel Sanchez è rimasto solo, senza altra compagnia
che l'immagine di Ester Lucero a fargli visita nella sua stanza all'ora della
siesta, incendiandogli l'anima in un baccanale perpetuo. Il prestigio del
medico si è molto accresciuto in tutta la regione, perché lo sentono parlare
con gli astri in lingue indigene.
MARIA "LA SCIOCCA".
Maria, la sciocca, credeva nell'amore. Il che fece di lei
una leggenda vivente. Al suo funerale accorsero tutti i compaesani, persino i
poliziotti e il cieco dell'edicola che raramente abbandonava il suo posto. La
calle Repùblica rimase vuota, e in segno di lutto appesero nastri neri ai
balconi e spensero le lanterne rosse dei bordelli. Ogni persona ha la sua
storia e in quel quartiere sono quasi sempre tristi, storie di miserie e
ingiustizie accumulate, di violenze patite, di figli morti prima di nascere e
di amanti che se ne vanno, ma quella di Maria era diversa, aveva un tocco
elegante che faceva scattare la fantasia altrui. Si diede da fare per
esercitare il suo mestiere da sola, amministrandosi senza baccano,
discretamente. Non provò mai la minima curiosità per l'alcool né per le droghe,
né le interessavano le consolazioni da cinque pesos che vendevano le indovine e
i profeti del circondario. Sembrava immune dai tormenti della speranza protetta
dalla qualità del suo amore inventato. Era una donnina dall'aria inoffensiva,
di bassa statura, tratti e gesti fini, tutta mansuetudine e dolcezza, ma quelle
volte che qualche tipo tentò di metterle le mani addosso si trovò di fronte una
belva scatenata, tutta zanne e artigli, pronta a restituire colpo su colpo a costo
della vita. Impararono a lasciarla in pace. Mentre le altre donne passavano la
vita a nascondere lividi sotto spessi strati di cosmetici da quattro soldi, lei
invecchiava rispettata, con una certa aria da regina in cenci. Non aveva
coscienza alcuna del prestigio del proprio nome né della leggenda che le
avevano ricamato addosso. Era una vecchia prostituta con un'anima da donzella.
Nei suoi ricordi figuravano con insistenza un baule assassino e un uomo bruno
dall'odor di mare, e così le sue amiche scoprirono ad uno ad uno i frammenti
della sua vita e li unirono pazientemente, aggiungendo ciò che mancava con il
ricorso alla fantasia, fino a ricostruirle un passato. Non era, naturalmente,
come le altre donne di quel posto. Veniva da un mondo remoto, dove la pelle è
più pallida e il castigliano ha un accento rotondo, dalle consonanti dure. Era
nata per essere gran dama, questo deducevano le altre donne dal suo modo
ricercato di parlare e dalle sue maniere strane, e se rimaneva qualche dubbio
lo dissipò morendo. Se ne andò con la dignità intatta. Non soffriva di nessuna
malattia conosciuta, non era spaventata né respirava dalle orecchie come i
moribondi comuni, annunciò semplicemente che non sopportava più il tedio di
esser viva, si mise l'abito della festa, si dipinse le labbra di rosso e aprì
le tende di tela cerata che davano accesso alla sua stanza, affinché tutti
potessero farle compagnia. “Adesso è venuto il momento di morire” fu la sua
unica spiegazione. Si sdraiò nel letto, con le spalle appoggiate a tre grandi
cuscini dalle federe inamidate per l'occasione, e bevve senza tirare il fiato
una grossa tazza di cioccolata densa. Le altre donne risero, ma quando quattro
ore dopo non ci fu verso di svegliarla capirono che la sua decisione era
assoluta e fecero correre la voce per il quartiere. Alcuni accorsero solo per
curiosità, ma la maggioranza si presentò con vero dolore, restando lì per farle
compagnia. Le sue amiche fecero il caffè per offrirlo ai visitatori, stimando
di cattivo gusto servire liquori, che non sembrasse una festa. Verso le sei di
sera Maria ebbe un brivido, aprì le palpebre, si guardò intorno senza
distinguere i volti e subito dopo abbandonò questo mondo. Questo fu tutto.
Alcuni suggerirono che forse aveva inghiottito un veleno con la cioccolata, nel
qual caso sarebbero stati tutti colpevoli per non averla portata in tempo
all'ospedale, ma nessuno badò a siffatte maldicenze. “Se Maria ha deciso di
andarsene era nel suo diritto, perché non aveva figli né genitori cui pensare”
sentenziò la madama della casa. Non vollero vegliarla in un obitorio, perché la
quiete premeditata della sua morte era stata un evento solenne in calle
Repùblica, ed era giusto che le sue ultime ore prima di scendere sottoterra
trascorressero nell'ambiente in cui aveva vissuto e non come un'estranea del
cui lutto nessuno vuole incaricarsi. Ci furono pareri diversi sul fatto che una
veglia funebre in quella casa avrebbe potuto attirare la malasorte sull'anima
della defunta o su quella dei clienti, e per ogni buon conto ruppero uno
specchio per circondarne la bara coi frammenti e portarono dell'acqua benedetta
dalla cappella del Seminario per spruzzare i muri. Quella notte non si lavorò,
non ci furono musica né risate, ma nemmeno pianti. Piazzarono la cassa su un
tavolo della sala, i vicini prestarono sedie e lì si accomodarono i visitatori
a bere il caffè e a conversare sottovoce. Al centro c'era Maria con la testa
posata su un cuscino di raso, le mani incrociate e la foto del suo bambino
morto sul petto. Nel corso della notte il colorito della sua pelle mutò fino a
diventare scuro come la cioccolata. Venni a sapere la storia di Maria durante
quelle lunghe ore in cui vegliammo la sua bara. Le sue compagne raccontarono
che era nata ai tempi della Prima Guerra, in una provincia nel sud del
continente, dove gli alberi perdono le foglie a metà anno e il freddo trafigge
le ossa. Era figlia di una superba famiglia di emigranti spagnoli. Rovistando
nella sua stanza trovarono in una scatola di biscotti dei documenti friabili e
ingialliti, tra cui un certificato di nascita, fotografie e lettere. Suo padre
era stato un proprietario terriero, e secondo un ritaglio di stampa stinto dal
tempo sua madre era pianista prima di sposarsi. Quando Maria aveva dodici anni
attraversò distrattamente un passaggio a livello e un treno merci la travolse.
La tirarono fuori dalle rotaie senza alcun danno apparente, aveva solo qualche
graffio e aveva perso il cappello. Tuttavia, poco tempo dopo, tutti si
accorsero che l'impatto aveva spinto la bambina in uno stato di innocenza dal
quale non sarebbe più uscita. Dimenticò anche le nozionì scolastiche apprese
prima dell'incidente, ricordava appena qualche lezione di piano e l'uso
dell'ago da cucito, e quando le parlavano rimaneva come assente. Ciò che non
dimenticò, invece, furono le norme della buona educazione, che mantenne intatte
fino al suo ultimo giorno. Il colpo della locomotiva lasciò Maria incapace di
ragionamento, di attenzione o di rancore. Era pertanto ben adatta alla
felicità, ma questa non fu la sua sorte. Quando compì i sedici anni i suoi
genitori, desiderosi di passare ad altri il peso di quella figlia un po'
ritardata, decisero di sposarla prima che perdesse la bellezza, e scelsero un
certo dottor Guevara, uomo dalla vita ritirata e maldisposto verso il
matrimonio, ma che doveva loro una certa somma e non poté rifiutare quando gli
suggerirono le nozze. Che furono celebrate quell'anno stesso in privato,
com'era opportuno per una fidanzata lunatica e un fidanzato più anziano di
diversi decenni. Maria giunse al letto matrimoniale con la mente di una
bambina, anche se il suo corpo era maturato ed era già quello di una donna. Il
treno aveva spazzato via la sua curiosità naturale, ma non poté distruggere
l'impazienza dei suoi sensi. Sapeva solo ciò che aveva imparato osservando gli
animali della fattoria, sapeva che l'acqua fredda è buona per separare i cani
che rimangono incastrati durante il coito e che il gallo arruffa le penne e
canta quando vuol coprire la gallina, ma non trovò un uso adeguato per questi
dati. Nella sua notte di nozze vide avanzare alla propria volta un vecchietto
tremulo con una vestaglia di flanella aperta, e qualcosa di imprevisto sotto
l'ombelico. La sorpresa le produsse una stitichezza di cui non osò parlare, e
quando cominciò a gonfiarsi come un pallone si bevve una bottiglia di Acqua
della Perla, rimedio antiscrofoloso e ricostituente che in dosi massicce
serviva da purga, a causa della quale passò ventidue giorni seduta sul
gabinetto, talmente scombussolata che quasi perse alcuni organi vitali, ma
questo non ebbe il potere di sgonfiarla. Presto non riuscì più ad abbottonarsi
i vestiti e a tempo debito diede alla luce un bambino biondo. Dopo due mesi di
letto, alimentandosi con brodo di pollo e due litri di latte al giorno, si alzò
più forte e lucida di quanto fosse mai stata in vita sua. Sembrava guarita dal
suo stato di sonnambulismo perenne ed ebbe persino il coraggio di comprarsi
vestiti eleganti; tuttavia non riuscì a sfoggiare il suo nuovo guardaroba,
perché il signor Guevara ebbe un attacco fulminante e morì seduto al tavolo da
pranzo, con il cucchiaio da minestra in mano. Maria si rassegnò a indossare
vesti da lutto e cappellini col velo, sepolta in una tomba di indumenti. Così
passò due anni neri, facendo maglioni per i poveri, divertendosi con i suoi
cagnolini e suo figlio, che pettinava con i riccioli e vestiva da bambina, come
appare in uno dei ritratti trovati nella scatola di biscotti, dove lo si può
vedere seduto su una pelle d orso e illuminato da una luce soprannaturale. Per
la vedova il tempo si fermò in un istante perpetuo l'aria delle stanze rimase
immutabile, con lo stesso odore vetusto lasciato dal marito. Continuò a vivere
nella stessa casa, servita da domestiche leali e vigilata da vicino da genitori
e fratelli, che si organizzarono per farle visita ogni giorno, supervisionare
le sue spese e prendere le decisioni più insignificanti. Passavano le stagioni,
cadevano le foglie degli alberi in giardino e ricomparivano i colibrì
dell'estate, senza mutamenti nella sua routine. A volte si chiedeva la ragione
dei suoi abiti neri, perché aveva dimenticato il decrepito sposo che in un paio
d'occasioni l'aveva abbracciata debolmente tra le lenzuola di lino per poi,
pentito della propria lussuria, gettarsi ai piedi della Madonna e fustigarsi
con un frustino da cavallo. Di tanto in tanto apriva gli armadi per dare aria
ai vestiti e non resisteva alla tentazione di spogliarsi dei suoi indumenti
scuri e di provarsi di nascosto gli abiti ricamati di perline, le stole di
pelliccia, le scarpine di raso e i guanti di capretto. Si guardava nel triplice
specchio e salutava quella donna acconciata per un ballo nella quale le costava
molto riconoscersi. Dopo due anni di solitudine il ronzio del sangue che le
ribolliva in corpo le divenne intollerabile. La domenica, sulla porta della
chiesa, si attardava per veder passare gli uomini, attratta dal suono rauco
delle loro voci, dalle loro guance rasate e dall'aroma di tabacco. Di
soppiatto, sollevava il velo del cappellino e gli sorrideva. Suo padre e i suoi
fratelli non tardarono ad accorgersene, e convinti che quella terra americana
corrompesse fin la decenza delle vedove, decisero in consiglio di famiglia di
mandarla da certi zii in Spagna, dove senza dubbio sarebbe stata in salvo da
tentazioni frivole, protetta dalle solide tradizioni e dal potere della Chiesa.
Così iniziò il viaggio che avrebbe cambiato il destino di Maria, la sciocca. I
genitori la imbarcarono su un transatlantico accompagnata dal figlio, da una
domestica e dai cagnolini. Il complicato bagaglio includeva, oltre ai mobili
della stanza di Maria e al suo pianoforte, una vacca che dimorava nella sentina
della nave, per fornire il latte fresco al bambino. Oltre a molte valigie e
cappelliere portava anche un enorme baule con angoli e borchie di bronzo, che
conteneva gli abiti di lusso riscattati dalla naftalina. La famiglia non
pensava che in casa degli zii Maria avesse qualche occasione di indossarli, ma
non vollero contrariarla. Per i primi tre giorni la passeggera non poté abbandonare
la cuccetta, vittima del mal di mare, ma finalmente si abituò al rollio della
nave e riuscì ad alzarsi. Allora chiamò la cameriera perché l'aiutasse a tirar
fuori gli abiti per la lunga traversata. L'esistenza di Maria fu segnata da
disgrazie improvvise, come quel treno che le tolse il bene dell'intelletto e la
scagliò di nuovo in un'infanzia irreversibile. Stava mettendo in ordine i
vestiti nell'armadio della sua cabina, quando il figlio si chinò nel baule
aperto. In quell'istante un'impennata della nave chiuse di colpo il pesante
coperchio e il taglio metallico calò sul collo del bambino decapitandolo. Ci
vollero tre marinai per strappare la madre dal baule maledetto, e una dose di
laudano capace di mettere fuori combattimento un atleta per impedire che si
strappasse i capelli a ciuffi e si lacerasse la faccia con le unghie. Passò ore
a urlare e poi entrò in uno stato catatonico, dondolandosi continuamente, come
ai tempi in cui si era fatta la fama di idiota. Il capitano della nave annunciò
l'infausta nuova per altoparlante, lesse un breve servizio funebre e poi ordinò
di avvolgere il piccolo cadavere in una bandiera e di gettarlo fuori bordo,
perché erano ormai in mezzo all'oceano e non era possibile conservarlo fino al
prossimo porto. Diversi giorni dopo la tragedia, Maria uscì con passo incerto a
prendere aria in coperta per la prima volta. Era una serata tiepida, e dal
fondo del mare saliva un odore inquietante di alghe, di mitili, di navi
affondate, che le penetrò attraverso le narici e le percorse le vene con
l'effetto di una scossa tellurica. Stava guardando l'orizzonte, con la mente
vuota e la pelle accapponata dai talloni alla nuca, quando sentì un fischio
insistente e voltandosi scoprì due ponti più sotto una figura illuminata dalla
luna che le faceva dei cenni. Scese le scalette in trance, si accostò all'uomo
bruno che la chiamava, sottomessa si lasciò togliere i veli e i pesanti vestiti
del lutto e lo accompagnò dietro un rotolo di cordame. Frustata da un impatto
simile a quello del treno, apprese in meno di tre minuti la differenza fra un
marito anziano, oppresso dal timor di Dio, e un insaziabile marinaio greco
ardente per la penuria di varie settimane di castità oceanica. Abbacinata, la
donna scoprì le proprie possibilità, si asciugò il pianto e gli chiese di più.
Passarono parte della notte a conoscersi e si separarono solo quando udirono la
sirena d'allarme, un terribile bramito di naufragio che alterò il silenzio dei
pesci. Pensando che la madre inconsolabile si fosse gettata in mare, la
domestica aveva scatenato la caccia e tutto l'equipaggio, tranne il greco, la
stava cercando. Maria si ritrovò con l'amante dietro i cordami ogni notte,
finché la nave si avvicinò alle coste dei Caraibi e il profumo dolciastro di
fiori e frutti trascinato dalla brezza finì di sconvolgerle i sensi. Accettò
allora la proposta del suo compagno di abbandonare la nave, dove pesava il
fantasma del bimbo morto e dove c'erano tanti occhi a spiarli, si mise il
denaro del viaggio nella sottoveste e diede addio al suo passato di signora
rispettabile. Calarono in mare una scialuppa e scomparvero all'alba, lasciando
a bordo la domestica, i cagnolini, la vacca e il baule assassino. L'uomo remò
con le sue grosse braccia da navigante verso un porto stupendo, che sorse ai loro
occhi alla luce dell'aurora come un'apparizione d'altro mondo, con i suoi
bungalow, le sue palme e i suoi uccelli variopinti. Lì si installarono i due
fuggitivi finché durò la riserva di denaro. Il marinaio risultò attaccabrighe e
bevitore. Parlava un gergo incomprensibile per Maria e per gli abitanti di
quella località, ma riusciva a comunicare con smorfie e sorrisi. Lei si animava
solo quando lui compariva per mettere in pratica i trucchi appresi in tutti i
lupanari da Singapore a Valparaiso, e per il resto del tempo rimaneva
istupidita da un languore mortale. Bagnata dai sudori del clima, la donna
inventò l'amore senza compagno, avventurandosi sola in territori allucinanti,
con l'audacia di chi non conosce i rischi. Il greco mancava d'intuito per indovinare
di aver aperto una paratia stagna, di non essere altro che lo strumento di una
rivelazione, e fu incapace di valutare il dono offerto da quella donna. Aveva
accanto a sé una creatura preservata nel limbo di un'innocenza invulnerabile,
decisa a esplorare i propri sensi con la giocosa disponibilità di un cucciolo,
ma lui non seppe seguirla. Fino allora lei non aveva conosciuto la disinvoltura
del piacere, neppure se l'era immaginata, anche se era sempre stata nel suo
sangue come il germe di una febbre calcinante. Scoprendolo suppose si trattasse
della felicità celeste che le suore del collegio promettevano alle bimbe buone
nell'Aldilà. Sapeva pochissimo del mondo ed era incapace di guardare una mappa
per ubicarsi nel pianeta, ma vedendo gli ibischi e i pappagalli credette di
trovarsi in paradiso e si accinse a goderselo. Lì nessuno la conosceva, era a
suo agio per la prima volta, lontano da casa sua, dalla tutela inesorabile di
genitori e fratelli, dalle pressioni sociali e dai veli da messa, libera finalmente
di assaporare il torrente di emozioni che nasceva nella sua pelle e penetrava
per ogni filamento fino alle sue caverne più profonde, dove s'arrovesciava in
cateratte lasciandola esausta e felice. La mancanza di malizia di Maria, la sua
impermeabilità al peccato o all'umiliazione, finirono per terrorizzare il
marinaio. Le pause tra un abbraccio e l'altro si fecero più lunghe, le assenze
dell'uomo più frequenti, crebbe il silenzio tra i due. Il greco tentò di
sfuggire a quella donna dal volto di bambina che lo chiamava senza posa, umida,
turgida, rovente, convinto che la vedova che aveva sedotto in alto mare si
fosse trasformata in un perverso ragno pronto a divorarlo come una mosca nel
tumulto del letto. Invano cercò sollievo alla sua virilità confusa divertendosi
con le prostitute, battendosi a coltellate e pugni con i ruffiani e
scommettendo sui galli il denaro avanzato dalle baldorie. Quando si ritrovò con
le tasche vuote, si afferrò a questa scusa per svanire del tutto. Maria lo
attese pazientemente per diverse settimane. Dalla radio veniva a sapere
talvolta che qualche marinaio francese, disertore di una nave britannica, o un
olandese fuggito da un piroscafo portoghese, era stato assassinato a coltellate
nei bassifondi del porto, ma ascoltava la notizia senza alterarsi, perché
aspettava un greco scappato da un transatlantico italiano. Quando non poté più
continuare a sopportare il bollore della carne e l'ansietà dell'anima, uscì a
chiedere consolazione al primo uomo che passava. Lo prese per mano e gli chiese
nella maniera più gentile ed educata di farle il favore di spogliarsi nudo per
lei. Lo sconosciuto vacillò un poco dinanzi a quella giovane per nulla simile
alle professioniste dei paraggi, ma la cui proposta era molto chiara malgrado
il linguaggio inconsueto. Calcolò che poteva spendere dieci minuti del suo
tempo con lei e la seguì, senza sospettare che si sarebbe visto sprofondare nel
vortice di una passione sincera. Sorpreso e commosso, andò a raccontarlo a
tutti, lasciando a Maria una banconota sul tavolo. Presto ne vennero altri,
attirati dalla voce che c'era una donna capace di vendere per un momento
l'illusione dell'amore. Tutti i clienti se ne andarono soddisfatti. Così Maria
diventò la prostituta più celebre del porto, il cui nome i marinai si portarono
via tatuato sulle braccia per farlo conoscere in altri mari, finché la leggenda
fece il giro del pianeta. Il tempo, la povertà e lo sforzo di beffare il
disincanto distrussero la freschezza di Maria. La pelle le divenne grigiastra,
dimagrì fino alle ossa e per maggior comodità si tagliò i capelli come un
detenuto, ma conservò le sue maniere eleganti e lo stesso entusiasmo per ogni
incontro con un uomo, perché non vedeva in loro tipi anonimi, ma il riflesso di
se stessa fra le braccia del suo amante immaginario. Confrontata alla realtà,
non era capace di percepire la sordida urgenza del compagno di turno, perché
ogni volta si dava con lo stesso irrevocabile amore, anticipando come una sposa
audace i desideri dell'altro. Con l'età perse la memoria, diceva cose insensate
e all'epoca in cui si trasferì nella capitale e si installò in calle Repùblica
non ricordava più che un tempo era stata la musa ispiratrice di tanti versi
improvvisati da naviganti di tutte le razze, e rimaneva perplessa quando qualcuno
veniva dal porto fino alla città solo per accertare se esisteva ancora quella
donna di cui aveva sentito parlare da qualche parte in Asia. Trovandosi di
fronte a quella misera cavalletta, a quel mucchietto di ossa patetiche, a
quella donnina da niente, e vedendo la leggenda ridotta in cenere, molti
voltavano le spalle e se ne andavano sconcertati, ma altri rimanevano per
compassione. Costoro ricevevano un premio inatteso. Maria chiudeva una tenda di
tela cerata e subito cambiava l'aria nella stanza. Più tardi l'uomo se ne
andava meravigliato, portando con sé l'immagine di una fanciulla mitologica e
non della penosa vecchia che aveva creduto di vedere all'inizio. A Maria si
andò pian piano cancellando il passato, il suo unico ricordo nitido era il terrore
dei treni e dei bauli e se non fosse stato per la tenacia delle sue compagne di
mestiere, nessuno avrebbe conosciuto la sua storia. Visse aspettando l'istante
in cui si sarebbe aperta la tenda della sua stanza per lasciare il passo al
marinaio greco o a qualsiasi altro fantasma nato dalla sua fantasia, che
l'avrebbe stretta nel cerchio preciso delle sue braccia per restituirle il
piacere condiviso sulla coperta di una nave in alto mare, cercando sempre
l'antica illusione in ogni uomo di passaggio, illuminata da un amore
immaginario, ingannando le ombre con abbracci fugaci, con faville che si
consumavano prima di ardere, e quando si stancò di aspettare invano e sentì che
anche l'anima le si copriva di squame decise che era meglio lasciare questo
mondo. E con la stessa delicatezza e considerazione di tutti i suoi gesti,
ricorse allora alla tazza di cioccolata.
NEL PROFONDO DELL'OBLIO.
Lei si lasciò accarezzare, silenziosa, gocce di sudore
alla vita, odore di zucchero tostato sul suo corpo quieto, come se indovinasse
che un unico suono poteva frugare nei ricordi e rovinare tutto, polverizzando
quell'istante in cui lui era una persona come tutte le altre, un amante casuale
che aveva conosciuto la mattina, un altro uomo senza storia attratto dai suoi capelli
di spiga, dalla sua pelle lentigginosa o dalla sonagliera profonda dei suoi
braccialetti da gitana, un altro che l'aveva abbordata in strada e si era messo
ad accompagnarla senza una meta precisa, parlando del tempo o del traffico e
osservando la gente, con quella confidenza un po' forzata dei compatrioti in
terra straniera; un uomo senza tristezza né rancori né colpe, pulito come il
ghiaccio, che desiderava semplicemente passare la giornata con lei vagando per
librerie e parchi, bevendo caffè, celebrando il caso di essersi conosciuti,
parlando di nostalgie antiche, di com'era la vita quando entrambi crescevano
nella stessa città, nello stesso quartiere, quando si aveva quattordici anni,
ti ricordi, gli inverni di scarpe bagnate dalla brina e di stufe alla
paraffina, le estati di pesche, là nel paese proibito. Forse si sentiva un po'
sola, e le parve che fosse un'occasione per far l'amore senza domande, e
perciò, sul finire del pomeriggio, quando ormai non c'erano più pretesti per
continuare a camminare, lo prese per mano e lo condusse a casa sua. Condivideva
con altri esiliati un appartamento sordido, in un edificio giallo in fondo a un
vicolo pieno di bidoni di spazzatura. La sua stanza era angusta, un materasso
steso a terra con una coperta a righe, qualche mensola fatta di assi appoggiate
su due file di mattoni, libri, manifesti, abiti su una sedia, una valigia in un
angolo. Lì si spogliò senza preamboli con un atteggiamento da bambina
compiacente. Lui tentò di amarla. La percorse con pazienza, scivolando sulle
sue colline e sui suoi avvallamenti, abbordando senza fretta le sue vie,
impastandola, morbida argilla sulle lenzuola, finché lei si diede, aperta.
Allora egli indietreggiò con muto riserbo. Lei si volse per cercarlo,
raggomitolata sul ventre dell'uomo, nascondendo il viso, come impegnata nel
pudore, mentre lo palpava, lo lambiva, lo fustigava. Lui volle abbandonarsi con
gli occhi chiusi e la lasciò fare per un poco, finché lo vinse la tristezza o
la vergogna e dovette scostarla. Accesero un'altra sigaretta, non c'era più
complicità, si era persa l'anticipata urgenza che li aveva uniti durante quel
giorno, e rimanevano sul letto soltanto due creature derelitte, con la memoria
assente, fluttuando nel vuoto terribile di tante parole taciute. Conoscendosi
quella mattina non avevano ambito a nulla di straordinario, non avevano preteso
molto, solo un minimo di compagnia e un po' di piacere, nient'altro, ma nel
momento dell'incontro lo sconforto li vinse. Siamo stanchi, sorrise lei,
chiedendo scusa per quell'incubo installatosi tra loro. In un ultimo tentativo
di guadagnare tempo, lui prese la faccia della donna tra le mani e le baciò le
palpebre. Si stesero l'uno accanto all'altra, tenendosi per mano, e parlarono
delle loro vite in quel paese dove si trovavano per caso, un luogo verde e
generoso dove tuttavia sarebbero sempre stati forestieri. Lui pensò di
rivestirsi e dirle addio, prima che la tarantola dei loro incubi avvelenasse
l'atmosfera, ma la vide giovane e vulnerabile e volle esserle amico. Amico,
pensò, non amante, amico per condividere qualche momento di serenità, senza
esigenze né impegni, amico per non essere solo e per combattere la paura. Non
si decise a partire né a lasciarle la mano. Un sentimento caldo e tenero, una
tremenda compassione per sé e per lei gli fece ardere gli occhi. La tenda si
gonfiò come una vela e lei si alzò per chiudere la finestra, immaginando che il
buio potesse aiutarli a recuperare la voglia di stare insieme e il desiderio di
abbracciarsi. Ma non fu così, lui aveva bisogno di quel rettangolo di luce
della strada, perché altrimenti si sentiva intrappolato di nuovo nell'abisso
dei novanta centimetri senza tempo della cella, fermentando nei propri
escrementi, demente. Lascia aperta la tenda, voglio guardarti, mentì, perché
non osò confidarle il suo terrore della notte, quando l'opprimevano di nuovo la
sete, la benda stretta attorno alla testa come una corona di chiodi, le visioni
di caverne e l'assalto di tanti fantasmi. Non poteva parlarle di questo, perché
una cosa conduce all'altra e si finisce per dire ciò che non si è mai detto.
Lei tornò a letto, lo accarezzò senza entusiasmo, gli passò le dita sui piccoli
segni, esplorandoli. Non preoccuparti, non è nulla di contagioso, sono solo
cicatrici, rise lui quasi con un singhiozzo. La ragazza colse il suo tono
angosciato e si trattenne, il gesto sospeso, all'erta. In quel momento lui
avrebbe dovuto dirle che quello non era l'inizio di un nuovo amore, neppure di
una passione fugace, era solo un istante di tregua, un breve minuto di
innocenza, e che tra poco, quando lei si fosse addormentata, lui se ne sarebbe
andato; avrebbe dovuto dirle che non ci sarebbero stati progetti per loro, né
telefonate furtive, non avrebbero vagato ancora mano nella mano per le strade,
non avrebbero condiviso giochi da amanti, ma non poté parlare, la voce gli
rimase piantata nel ventre come un artiglio. Si sentì affondare. Tentò di
trattenere la realtà che gli sfuggiva, di ancorare la mente a una cosa
qualsiasi, agli abiti gettati in disordine sulla sedia, ai libri ammucchiati a
terra, al manifesto del Cile appeso al muro, alla fessura di quella notte
caraibica, al rumore sordo della strada; tentò di concentrarsi su quel corpo
offerto e di pensare solo ai capelli straripanti della giovane, al suo odore
dolce. La supplicò senza voce che per favore lo aiutasse a salvare quei
secondi, mentre lei lo osservava dall'angolo più lontano del letto, seduta come
un fachiro, i capezzoli chiari e l'occhio del suo ombelico che lo fissavano
anch'essi, registrando il suo tremore, il battito dei denti, il gemito. L'uomo
sentì crescere il silenzio dentro di sé, si sentì spezzare l'anima, come tante
volte gli era accaduto, e smise di lottare, abbandonando l'ultimo appiglio col
presente, rotolando giù per una china interminabile. Sentì le cinghie strette
alle caviglie e ai polsi, la scarica brutale, i tendini spezzati, le voci che
insultavano, che esigevano nomi, le urla indimenticabili di Ana suppliziata
accanto a lui e agli altri, appesi per le braccia nel cortile. Che cosa hai,
Dio mio, che cosa hai?!, gli giunse da lontano la voce di Ana. No, Ana era
rimasta impantanata nelle paludi del Sud. Credette di intravedere una
sconosciuta nuda che lo scuoteva e lo chiamava, ma non riuscì a sciogliersi
dalle ombre in cui si agitavano fruste e bandiere. Rattrappendosi, tentò di
controllare la nausea. Cominciò a piangere per Ana e per gli altri. Che cosa
hai?, ancora la ragazza che lo chiamava da qualche parte. Niente,
abbracciami!... pregò, e lei si avvicinò timida e lo avvolse fra le braccia, lo
ninnò come un bambino, lo baciò sulla fronte, gli disse piangi, piangi, lo
stese di spalle sul letto e si sdraiò crocifissa su di lui. Rimasero mille anni
così abbracciati, finché lentamente le allucinazioni si allontanarono e lui
tornò nella stanza per scoprirsi vivo malgrado tutto, respirando, palpitando,
con il peso di lei sul suo corpo, la testa di lei sul petto, le braccia e le
gambe di lei sulle sue, due orfani spaventati. E in quell'istante, come se
sapesse tutto, lei gli disse che la paura è più forte del desiderio,
dell'amore, dell'odio, della colpa, della rabbia, più forte della lealtà. La
paura è una cosa totale, concluse con le lacrime che le scorrevano sul collo.
Tutto si fermò per l'uomo, toccato nella ferita più nascosta. Presentì che
quella non era solo una ragazza disposta a far l'amore per commiserazione, che
lei conosceva ciò che si trovava rannicchiato al di là del silenzio, della
completa solitudine, al di là della bara sigillata in cui lui si era nascosto
dal Colonnello e dal proprio tradimento, al di là del ricordo di Ana Dìaz e
degli altri compagni denunciati, che furono condotti ad uno ad uno con gli
occhi bendati. Come può sapere tutto questo? La donna si alzò in piedi. Il suo
braccio esile si stagliò contro la bruma chiara della finestra, cercando a
tentoni l'interruttore. Accese la luce e si tolse uno per volta i braccialetti
di metallo, che caddero senza rumore sul letto. I capelli le coprivano per metà
il viso quando gli tese le mani. Anche i suoi polsi erano solcati da cicatrici
bianche. Per un momento interminabile lui le osservò immobile fino a
comprendere tutto, l'amore, e a vederla legata con le cinghie sul cavalletto
elettrico, e allora poterono abbracciarsi e piangere, affamati di patti e di
confidenze, di parole proibite, di promesse di domani, condividendo finalmente
il più recondito segreto.
LA PICCOLA HEIDELBERG.
Per tanti anni ballarono insieme il Capitano e la Bimba
Eloisa, che raggiunsero la perfezione. Ciascuno sapeva intuire il movimento
susseguente dell'altro, indovinare l'istante esatto della prossima giravolta,
interpretare la più impercettibile pressione della mano o deviazione di un
piede. Non avevano perso il passo una sola volta in quarant'anni, si muovevano
con la precisione di una coppia abituata a far l'amore e a dormire abbracciati
stretti, perciò risultava così difficile immaginare che non si erano mai
scambiati nemmeno una parola. La Piccola Heidelberg è una sala da ballo a una
certa distanza dalla capitale, situata su un monte circondato da piantagioni di
banane, dove oltre alla buona musica e a un'aria meno soffocante vi offrono un
insolito intingolo afrodisiaco aromatizzato con ogni sorta di spezie, troppo
contundente per il clima torrido di questa regione, ma in perfetto accordo con
le tradizioni che ispirarono il proprietario, don Rupert. Prima della crisi del
petrolio, quando si viveva ancora nell'illusione dell'abbondanza e si
importavano frutti da altre latitudini, la specialità della casa era lo strudel
di mele, ma da quando del petrolio è rimasto solo una montagna di rifiuti
indistruttibili e il ricordo di tempi migliori, fanno lo strudel con la guayaba
o il mango. I tavoli, disposti in un ampio cerchio che lascia al centro uno
spazio libero per il ballo, sono coperti da tovaglie a quadretti verdi e
bianchi, e le pareti esibiscono scene bucoliche della vita campestre delle
Alpi: pastorelle dalle trecce gialle, robusti giovanottoni e vacche immacolate.
I musicisti, vestiti con pantaloni corti, calzettoni di lana, bretelle tirolesi
e cappelli di feltro che col sudore hanno perso ogni prestanza e da lontano
paiono parrucche verdastre, si piazzano su una piattaforma coronata da
un'aquila imbalsamata, alla quale, a quanto dice don Rupert, ogni tanto
spuntano penne nuove. Uno suona la fisarmonica, un altro il sassofono, e il
terzo si arrangia con mani e piedi per suonare simultaneamente batteria e
piatti. Quello della fisarmonica è un maestro del suo strumento, e canta anche
con calda voce da tenore e un vago accento d'Andalusia. Malgrado il suo
bizzarro costume da taverniere svizzero è il favorito delle signore assidue
della sala, diverse delle quali accarezzano la segreta fantasia di rimanere
intrappolate con lui in qualche avventura mortale, per esempio un crollo o un
bombardamento, dove potrebbero esalare contente il loro ultimo respiro strette
fra quelle braccia possenti capaci di strappare lamenti tanto struggenti alla
fisarmonica. Il fatto che l'età media di quelle dame si aggiri sui settant'anni
non inibisce la sensualità evocata dal cantante, vi aggiunge piuttosto il dolce
soffio della morte. L'orchestra comincia a operare dopo il tramonto del sole e
finisce a mezzanotte, salvo il sabato e la domenica, quando il locale si
riempie di turisti e deve continuare finché non si è ritirato l'ultimo cliente,
all'alba. Interpretano solo polche, mazurche, valzer e danze regionali
d'Europa, come se invece di essere incastonata nei Caraibi la Piccola
Heidelberg si trovasse sulla riva del Reno. In cucina regna donna Burgel, la
moglie di don Rupert, una matrona formidabile che pochi conoscono, perché la
sua esistenza scivola via tra pentole e mucchi di verdure, impegnata a
preparare piatti stranieri con ingredienti creoli. E stata lei a inventare lo
strudel di frutti tropicali e quell'intingolo afrodisiaco capace di ridar
vigore al più stremato. Ai tavoli servono le figlie dei padroni, un paio di
solide donnone profumate di cannella, chiodo di garofano, vaniglia e limone, e
qualche altra cameriera locale, tutte dalle guance rubiconde. La clientela abituale
si compone di emigranti europei giunti colà in fuga da qualche guerra o dalla
povertà, commercianti, agricoltori, artigiani, gente cortese e semplice, che
forse non è stata sempre tale, ma che il passar degli anni ha livellato nella
benevola gentilezza dei vecchi sani. Gli uomini portano cravatte a farfalla e
giacca, ma man mano che gli scuotimenti del ballo e l'abbondanza di birra gli
scalda l'anima vanno spogliandosi del superfluo fino a rimanere in camicia. Le
donne si vestono con colori allegri e in stile antiquato, come se i loro abiti
fossero stati tirati fuori dal baule del corredo che si portarono dietro
immigrando. Di tanto in tanto fa la sua comparsa un gruppo di adolescenti
aggressivi, la cui presenza è preceduta dal fracasso assordante delle moto e
dalla sonagliera di stivali, chiavi e catene, e che vengono con il solo intento
di farsi beffe dei vecchi, ma l'incidente non va oltre la scaramuccia perché il
batterista e il sassofonista sono sempre pronti a rimboccarsi le maniche e a
imporre l'ordine. Il sabato, verso le nove di sera, quando già tutti hanno
assaporato la loro razione di intingolo afrodisiaco e si sono abbandonati al
piacere del ballo, compare la Messicana e si siede da sola. È una cinquantenne
provocante, una donna dal corpo galeonesco, chiglia alta, panciuta, ampia di
poppa, volto da polena, che sfoggia un busto maturo ma ancora turgido e un
fiore all'orecchio. Non è l'unica vestita da ballerina flamenca, naturalmente,
ma in lei risulta più naturale che nelle altre signore dai capelli bianchi e
dalla cintola triste che neppure parlano uno spagnolo decente. La Messicana
ballando la polca è una nave alla deriva su un mare in tempesta, ma al ritmo
del valzer sembra scivolare sull'olio. Così la intravedeva a volte in sogno il
Capitano e si svegliava con l'inquietudine quasi dimenticata della sua
adolescenza. Dicono che il Capitano provenisse da una flotta nordica il cui
nome nessuno riuscì a decifrare. Era esperto in navi antiche e rotte marine, ma
tutte quelle conoscenze giacevano sepolte nelle profondità della sua mente,
senza la minima possibilità di essere utili nel caldo paesaggio di quella
regione, dove il mare è un placido acquario d'acque verdi e cristalline,
inadatto alla navigazione degli intrepidi piroscafi del mare del Nord. Era un
uomo alto e magro, un albero senza foglie, la schiena dritta e i muscoli del
collo ancora saldi, vestito con la sua giacca dai bottoni dorati e avvolto in
quell'aura tragica dei marinai in pensione. Non lo si sentì mai dire una parola
in spagnolo o in qualche altra lingua nota. Trent'anni prima don Rupert disse
che il Capitano era sicuramente finlandese, per il colore di ghiaccio delle sue
pupille e la giustizia irrinunciabile del suo sguardo, e poiché nessuno poté
contraddirlo finirono per accettarlo. Del resto alla Piccola Heidelberg la
lingua non ha importanza, perché nessuno ci va per conversare. Alcune regole di
comportamento sono state modificate, per comodità e convenienza di tutti.
Chiunque può scendere in pista solo o invitare qualcuno di un altro tavolo, e
anche le donne prendono l'iniziativa di avvicinarsi all'uomo se lo desiderano.
È una soluzione opportuna per le vedove senza compagnia. Nessuno invita a
ballare la Messicana perché s'intende che lei lo considererebbe offensivo, e i
cavalieri devono apettare, tremando d'ansia, che lo faccia lei La donna depone
il sigaro nel posacenere, disincrocia le feroci colonne delle sue gambe, si
accomoda il corpetto, avanza fino al prescelto e gli si pianta di fronte senza
uno sguardo. Cambia compagno ad ogni ballo, ma prima riservava almeno quattro
brani al Capitano. Questi la prendeva per la vita con la sua salda mano da
timoniere e la guidava per la pista senza permettere che i suoi molti anni gli
mozzassero il respiro. La più anziana frequentatrice della sala, che in mezzo
secolo non mancò neppure un sabato alla Piccola Heidelberg, era la Bimba
Eloisa, una signora minuta, molle e soave, con una pelle di carta di riso e una
corona di capelli trasparenti. Per tanto tempo si era guadagnata da vivere fabbricando
confetti nella sua cucina che l'aroma di cioccolato l'aveva impregnata
totalmente, e olezzava di festa di compleanno. Malgrado la sua età serbava
ancora qualche gesto della prima gioventù, ed era capace di passare tutta la
notte volteggiando sulla pista da ballo senza scompigliarsi i riccioli della
crocchia né perdere il ritmo del cuore. Era venuta nel paese agli inizi del
secolo, proveniente da un villaggio della Russia meridionale, con sua madre,
che allora era di una bellezza abbagliante. Vissero insieme fabbricando
cioccolatini, completamente aliene ai rigori del clima, del secolo e della
solitudine, senza mariti, senza famiglia, senza grandi soprassalti e senza
altro divertimento che la Piccola Heidelberg ogni fine settimana. Da quando
morì sua madre, la Bimba Eloisa veniva sola. Don Rupert l'accoglieva sulla
soglia con grande deferenza e l'accompagnava fino al suo tavolo, mentre
l'orchestra le dava il benvenuto con i primi accordi del suo valzer favorito.
Ad alcuni tavoli si alzavano i boccali di birra per salutarla, perché era la
persona più anziana e senza dubbio la più amata. Era timida, non si azzardò mai
a invitare un uomo a ballare, ma in tutti quegli anni non ebbe bisogno di
farlo, perché per chiunque costituiva un privilegio prenderle la mano,
allacciarle la vita con delicatezza per non infrangerle qualche ossicino di
cristallo e condurla alla pista. Era una ballerina graziosa e aveva quella
fragranza dolce capace di restituire a chiunque la fiutasse i migliori ricordi
dell'infanzia. Il Capitano sedeva solo, sempre allo stesso tavolo, beveva con
moderazione e non dimostrò mai alcun entusiasmo per l'intingolo afrodisiaco di
donna Burgel. Seguiva il ritmo della musica con un piede, e quando la Bimba
Eloisa era libera la invitava, mettendosi sull'attenti di fronte a lei con un
discreto batter di tacchi e un leggero inchino. Non parlavano mai, soltanto si
guardavano e sorridevano tra i galop, le fughe e le diagonali di qualche danza
stagionata. Un sabato di dicembre meno umido degli altri arrivarono alla
Piccola Heidelberg un paio di turisti. Stavolta non erano i disciplinati
giapponesi degli ultimi tempi, ma degli scandinavi alti, dalla pelle abbronzata
e dai capelli pallidi, che si installarono a un tavolo a osservare affascinati
i ballerini. Erano allegri e rumorosi, urtavano i boccali di birra, ridevano di
gusto e chiacchieravano a voce alta. Le parole degli stranieri raggiunsero il
Capitano al suo tavolo e da lontanissimo, da un altro tempo e da un altro
paesaggio, gli giunse il suono della sua lingua, intero e fresco, come appena
inventato, parole che non aveva udito da vari decenni, ma che rimanevano
intatte nella sua memoria. Un'espressione addolcì il suo volto di vecchio
navigante, facendolo vacillare per qualche minuto tra il riserbo assoluto in
cui si sentiva comodo e il piacere quasi dimenticato di abbandonarsi a una
conversazione. Infine si alzò e si avvicinò agli sconosciuti. Dietro il
bancone, don Rupert osservò il Capitano che stava dicendo qualcosa ai nuovi
venuti, leggermente chino, con le mani dietro la schiena. Presto gli altri
clienti, le cameriere e i musicisti si resero conto che quell'uomo parlava per
la prima volta da quando lo conoscevano e si zittirono per ascoltarlo meglio.
Aveva una voce da bisnonno, fessa e lenta, ma metteva una grande determinazione
in ogni frase. Quando finì di metter fuori tutto il contenuto del suo petto si
fece un tale silenzio nella sala che donna Burgel uscì dalla cucina per vedere
se fosse morto qualcuno. Finalmente, dopo una lunga pausa, uno dei turisti si
scosse via la sorpresa e chiamò don Rupert per dirgli in un inglese primitivo
che lo aiutasse a tradurre il discorso del Capitano. I nordici seguirono il
vecchio marinaio fino al tavolo dove la Bimba Eloisa aspettava, e anche don
Rupert si avvicinò, togliendosi nel frattempo il grembiule con l'intuizione di
un evento solenne. Il Capitano disse alcune parole nella sua lingua, uno degli
stranieri le tradusse in inglese e don Rupert, con le orecchie rosse e i baffi
tremanti, le ripeté nel suo spagnolo contorto. “Bimba Eloisa, il Capitano
chiede se lo vuole sposare.” La fragile vecchina rimase seduta con gli occhi
arrotondati dalla sorpresa e la bocca nascosta dietro il fazzoletto di batista,
e tutti attesero trattenendo il respiro, finché lei riuscì a farsi venir fuori
la voce. “Non le sembra un po' precipitoso?” sussurrò. Le sue parole passarono
dal taverniere ai turisti e la risposta fece lo stesso percorso in senso
inverso. “Il Capitano dice che ha aspettato quarant'anni per dirglielo, e che
non potrebbe aspettare ancora che si presenti qualcuno che parla la sua lingua.
Dice che per favore gli risponda adesso.” “Va bene” fiatò appena la Bimba
Eloisa, e non fu necessario tradurre la risposta perché tutti la capirono. Don
Rupert, euforico, alzò entrambe le braccia al cielo e annunciò il fidanzamento,
il Capitano baciò le guance della promessa sposa, i turisti strinsero le mani
di tutti quanti, i musicisti si scatenarono sugli strumenti in un putiferio di
marcia trionfale e gli astanti fecero cerchio attorno alla coppia. Le donne si
asciugavano le lacrime, gli uomini brindavano emozionati, don Rupert sedette
davanti al bancone e nascose la testa fra le braccia, sconvolto dalla
commozione, mentre donna Burgel e le due figlie stappavano bottiglie del miglior
rum. Poi i musicisti suonarono il valzer del Danubio Blu e tutti sgombrarono la
pista. Il Capitano prese per mano quella donna soave che aveva amato senza
parole per tanto tempo e la condusse al centro della sala, dove ballarono con
la grazia di due aironi nella loro danza nuziale. Il Capitano la sosteneva con
la stessa amorosa cura con cui in gioventù afferrava il vento con le vele di
qualche nave eterea, guidandola per la pista come se si cullassero nell'acqua
tranquilla di una baia, mentre le diceva nel suo idioma di tormente e foreste
tutto ciò che il suo cuore aveva taciuto fino a quel momento. Ballando e
ballando il Capitano sentì la propria età indietreggiare, e ad ogni passo erano
più allegri e leggeri. Una giravolta dietro l'altra, gli accordi della musica
più vibranti, i piedi più rapidi, la vita di lei più sottile, il peso della
piccola mano nella sua più leggero, la sua presenza più incorporea. Allora vide
che la Bimba Eloisa stava diventando di trine, di spuma, di nebbia, fino a
rendersi impercettibile e infine a svanire del tutto, ed egli si ritrovò a
volteggiare con le braccia vuote, senza altra compagnia che un tenue aroma di
cioccolato. Il tenore indicò ai musicisti di disporsi a continuare a suonare
quello stesso valzer per sempre, perché capì che con l'ultima nota il Capitano
si sarebbe destato dal suo sogno e il ricordo della Bimba Eloisa sarebbe
sfumato definitivamente. Commossi, i vecchi frequentatori della Piccola
Heidelberg rimasero immobili sulle loro sedie, finché la Messicana, con la sua
arroganza mutata in caritatevole tenerezza, si alzò e avanzò discretamente
verso le mani tremanti del Capitano per ballare con lui.
LA MOGLIE DEL GIUDICE.
Nicolas Vidal aveva sempre saputo che avrebbe perso la
vita per una donna. Lo pronosticarono il giorno della sua nascita, e lo
confermò la padrona del bazar nell'unica occasione in cui egli permise che gli
leggesse la fortuna nei fondi di caffè, ma non immaginò che la causa sarebbe
stata Casilda, la moglie del Giudice Hidalgo. La vide per la prima volta il
giorno in cui lei venne in paese per sposarsi. Non la trovò attraente, perché
preferiva le femmine sfrontate e brune, e quella giovane trasparente nel suo
vestito da viaggio, dallo sguardo sfuggente e dalle dita sottili, inutili per
dar piacere a un uomo, gli sembrava inconsistente come un pugno di cenere.
Conoscendo bene il proprio destino si guardava dalle donne, e nel corso della
sua vita rifuggì da ogni contatto sentimentale, inaridendo il suo cuore per
l'amore e limitandosi a rapidi incontri per beffare la solitudine. Tanto
insignificante e remota gli parve Casilda che con lei non prese precauzioni, e
giunto il momento dimenticò la previsione che fu sempre presente nelle sue
decisioni. Dal tetto dell'edificio, dove si era rannicchiato con due dei suoi
uomini, osservò la signorina della capitale quando questa scese dall'auto il
giorno del suo matrimonio. Giunse accompagnata da mezza dozzina di familiari,
lividi e delicati come lei, che assistettero alla cerimonia sventagliandosi con
un'aria di sincera costernazione e poi partirono per mai più ritornare. Come
tutti gli abitanti del paese, Vidal pensò che la novella sposa non avrebbe
sopportato il clima e che di lì a poco le comari avrebbero dovuto vestirla per
il funerale. Nel caso improbabile che resistesse al caldo e alla polvere che
penetrava attraverso la pelle e si depositava sull'anima, senza dubbio sarebbe
perita per colpa del malumore e delle manie da scapolone del marito. Il Giudice
Hidalgo aveva il doppio della sua età e dormiva solo da tanti anni che non
sapeva da dove cominciare per far piacere a una donna. In tutta la provincia
temevano il suo temperamento severo e la sua testardaggine nel far rispettare
la legge anche a costo della giustizia. Nell'esercizio delle sue funzioni
ignorava le ragioni del sentimento, castigando con pari fermezza il furto di
una gallina e l'omicidio premeditato. Vestiva rigorosamente di nero perché
tutti conoscessero la dignità della sua carica, e malgrado il polverone
irriducibile di quel paese senza illusioni portava sempre gli stivaletti
lucidati con cera d'api. Un uomo così non è fatto per fare il marito, dicevano
le comari; ma i funesti presagi delle nozze non ebbero riscontro, al contrario,
Casilda sopravvisse a tre parti consecutivi e sembrava contenta. La domenica
andava con il consorte alla messa di mezzogiorno, imperturbabile sotto la sua
mantiglia spagnola, intoccata dalle inclemenze di quell'estate perenne,
scolorita e silenziosa come un'ombra. Nessuno la sentì pronunciare più di un
tenue saluto, né le videro gesti più audaci di un cenno del capo o di un
sorriso fugace, sembrava volatile, sul punto di svanire in un momento di
distrazione. Dava l'impressione di non esistere, perciò tutti si sorpresero nel
vedere la sua influenza sul Giudice, i cui cambiamenti erano notevoli. Benché
Hidalgo fosse sempre lo stesso in apparenza, funebre e aspro, le sue decisioni
in tribunale subirono una strana svolta. Dinanzi al pubblico stupore lasciò in
libertà un ragazzo che aveva derubato il suo datore di lavoro, con
l'argomentazione che per tre anni il padrone l'aveva pagato meno del dovuto, e
che il denaro sottratto era una forma di compensazione. Si rifiutò anche di
punire una moglie adultera, dicendo che il marito non aveva l'autorità morale
per esigerne la fedeltà, dato che lui stesso manteneva una concubina. Le lingue
maliziose del paese mormoravano che il Giudice Hidalgo si rovesciava come un
guanto quando varcava la soglia di casa, si toglieva le vesti solenni, giocava
con i figli, rideva e prendeva Casilda sulle ginocchia, ma queste dicerie non
furono mai confermate. Comunque attribuirono alla moglie quegli atti di
benevolenza e il suo prestigio si accrebbe, ma nulla di tutto questo
interessava Nicolas Vidal, perché si trovava fuori dalla legge ed era certo che
non ci sarebbe stata pietà per lui quando sarebbero riusciti a portarlo davanti
al Giudice ammanettato. Non prestava orecchio ai pettegolezzi su donna Casilda,
e le poche volte che la vide da lontano confermò la propria primitiva
impressione che era solo un nebuloso ectoplasma. Vidal era nato trent'anni
prima in una stanza senza finestre dell'unico postribolo del paese, figlio di
Juana la Triste e di padre ignoto. Non c'era posto per lui a questo mondo e sua
madre lo sapeva, perciò tentò di strapparselo dal ventre con erbe, moccoli di
candela, lavande di lisciva e altre risorse brutali, ma la creatura si impegnò
a sopravvivere. Anni dopo Juana la Triste, vedendo quel figlio così diverso,
capì che i drastici sistemi per abortire non erano riusciti a eliminarlo, ma
avevano temprato il suo corpo e la sua anima fino a dargli la durezza del
ferro. Appena nacque, la levatrice lo sollevò per osservarlo alla luce di un
lume a petrolio e subito notò che aveva quattro mammelline. “Poveretto, perderà
la vita per una donna” pronosticò, guidata dalla propria esperienza in tali
faccende. Quelle parole pesarono sul ragazzo come una deformità. Forse la sua
esistenza sarebbe stata meno misera con l'amore di una donna. Per indennizzarlo
dei numerosi tentativi di ucciderlo prima che nascesse, sua madre volle per lui
un nome pieno di bellezza e un cognome solido, scelto a caso: ma quel nome da
principe non bastò a scongiurare i segni fatali e prima dei dieci anni il
bambino aveva la faccia piena di cicatrici di coltellate e pochissimo dopo
viveva da fuorilegge. A venti era a capo di una banda di disperati. L'abitudine
alla violenza sviluppò la forza dei suoi muscoli, la strada lo rese spietato e
la solitudine, cui era condannato per paura di perdersi per amore, determinò
l'espressione dei suoi occhi. Qualsiasi abitante del paese poteva giurare
vedendolo che fosse figlio di Juana la Triste, perché come lei aveva le pupille
bagnate di lacrime che non scorrevano. Ogni volta che veniva commesso un
misfatto nella regione, le guardie uscivano con i cani a caccia di Nicolas
Vidal per tacitare la protesta dei cittadini, ma dopo qualche giro per le
montagne tornavano a mani vuote. In realtà non volevano incontrarlo, perché non
potevano farcela con lui. La banda consolidò la propria mala rinomanza tanto
che villaggi e fattorie pagavano un tributo perché se ne stesse lontana. Con
quelle donazioni gli uomini potevano stare tranquilli, ma Nicolas Vidal li
obbligava a montare sempre a cavallo, in un turbine di morte e di violenza
perché non perdessero il gusto della guerra né scemasse il loro discredito.
Nessuno osava affrontarli. In un paio di occasioni il Giudice Hidalgo chiese al
Governo di mandare truppe dell'esercito per rinforzare i suoi poliziotti, ma
dopo qualche inutile incursione i soldati tornavano in caserma e i banditi alle
loro imprese. Solo una volta Nicolas Vidal fu sul punto di cadere nelle grinfie
della giustizia, ma lo salvò la sua incapacità di commuoversi. Stanco di vedere
le leggi calpestate, il Giudice Hidalgo decise di passare sopra agli scrupoli e
di preparare una trappola per il bandito. Si rendeva conto che in difesa della
giustizia stava per commettere un'azione atroce ma fra due mali scelse il
minore. L'unica esca che gli venne in mente fu Juana la Triste, perché Vidal non
aveva altri parenti e non gli si conoscevano amori. Tirò fuori la donna dal
postribolo dove spazzava pavimenti e puliva latrine in mancanza di clienti
disposti a pagare per le sue prestazioni, la mise in una gabbia fabbricata su
misura e la collocò al centro della Piazza d'Armi, senza altro conforto che una
brocca d'acqua. “Quando le finirà l'acqua comincerà a urlare. Allora apparirà
suo figlio, e io lo starò aspettando con i soldati” disse il Giudice. La voce
di quel castigo, in disuso fin dai tempi degli schiavi fuggiaschi, giunse alle
orecchie di Nicolas Vidal poco prima che sua madre bevesse l'ultimo sorso della
brocca. I suoi uomini lo videro ascoltare la notizia in silenzio, senza
alterare la sua impassibile maschera di solitario né il ritmo tranquillo con
cui affilava il coltello su una fascia di cuoio. Da molti anni non aveva
contatti con Juana la Triste, né serbava un solo ricordo piacevole della sua
infanzia, ma quella non era una faccenda sentimentale, era una questione
d'onore. Nessun uomo può sopportare un'offesa simile, pensavano i banditi
mentre preparavano armi e cavalcature, pronti a precipitarsi nell'imboscata e a
lasciarci la vita se necessario. Ma il capo non mostrò di avere fretta. Man
mano che passavano le ore aumentava la tensione nel gruppo. Si guardavano l'un
l'altro sudando, senza azzardarsi a far commenti, aspettando impazienti, le
mani sulle fondine delle pistole, sulle criniere dei cavalli, sulle impugnature
dei lazos. Venne la notte e l'unico che dormì nell'accampamento fu Nicolas
Vidal. All'alba le opinioni erano divise tra gli uomini, alcuni credevano che
fosse molto più inumano di quanto avessero mai immaginato e altri che il loro
capo macchinasse un'azione spettacolare per riscattare la madre. L'unica cosa
che nessuno pensò fu che gli mancasse il coraggio, perché aveva dimostrato di
averne in eccesso. A mezzogiorno non sopportarono più l'incertezza e andarono a
chiedergli cosa avrebbe fatto. “Niente” disse. “E tua madre?” “Vedremo chi ha i
coglioni più duri, il Giudice o io, replicò imperturbabile Nicolas Vidal. Il
terzo giorno Juana la Triste non chiedeva più pietà né implorava acqua, perché
le si era seccata la lingua e le parole le morivano in gola prima di nascere,
giaceva rannicchiata sul pavimento della gabbia con gli occhi sbarrati e le
labbra gonfie, gemendo come un animale nei momenti di lucidità e sognando
l'inferno per il resto del tempo. Quattro guardie armate vigilavano la
prigioniera per impedire che i compaesani le dessero da bere. I suoi lamenti
occupavano tutto il paese, penetravano oltre le imposte chiuse, il vento li
introduceva attraverso le porte, rimanevano impigliati nei cantoni, i cani li
raccoglievano per ripeterli ululando, contagiavano i neonati e straziavano i
nervi di chi li sentiva. Il Giudice non poté evitare la sfilata di gente nella
piazza per compatire la vecchia, né riuscì a impedire lo sciopero di
solidarietà delle prostitute, che coincise con la quindicina dei minatori. Il
sabato le strade erano invase dai rudi lavoratori delle miniere, ansiosi di
spendere i loro risparmi prima di tornare in galleria, ma il paese non offriva
divertimento alcuno, a parte la gabbia e quella vociferazione di compatimento
che passava di bocca in bocca dal fiume fino allo stradone della costa. Il
parroco capeggiò un gruppo di fedeli che si presentarono al Giudice Hidalgo per
ricordargli la carità cristiana e supplicarlo di evitare a quella povera donna
innocente simile morte da martire, ma il magistrato si chiuse a chiave nel suo
studio e rifiutò di ascoltarli, scommettendo che Juana la Triste ce l'avrebbe
fatta per un altro giorno e suo figlio sarebbe caduto nella trappola. Allora i
notabili del paese decisero di ricorrere a donna Casilda. La moglie del Giudice
li ricevette nell'ombroso salotto di casa sua e ascoltò le loro ragioni in
silenzio, a occhi bassi, com'era suo costume. Da tre giorni suo marito era
assente, chiuso nel suo studio, ad aspettare Nicolas Vidal con una
determinazione insensata. Senza affacciarsi alla finestra lei sapeva tutto ciò
che accadeva in strada, perché anche nelle vaste stanze di casa sua penetrava
il rumore di quel lungo supplizio. Donna Casilda attese che i visitatori si
ritirassero, fece indossare ai figli gli abiti della festa e uscì con loro
diretta alla piazza. Portava un cesto di provviste e una brocca d'acqua fresca
per Juana la Triste. Le guardie la videro svoltare l'angolo e indovinarono le
sue intenzioni, ma avevano ordini precisi, perciò incrociarono i fucili davanti
a lei e quando volle proseguire, osservata da una folla in attesa, la presero
per le braccia per impedirglielo. Allora i bambini cominciarono a strillare. Il
Giudice Hidalgo era nel suo studio di fronte alla piazza. Era l'unico abitante
del quartiere che non si fosse tappato le orecchie con la cera, perché stava
attento all'imboscata, aspettando lo zoccolio dei cavalli di Nicolas Vidal. Per
tre giorni e per le rispettive notti sopportò il pianto della sua vittima e gli
insulti dei concittadini ammutinati davanti all'edificio, ma quando distinse la
voce dei suoi figli capì di aver raggiunto il limite della resistenza. Sfinito,
uscì dal suo tribunale con la barba del mercoledì, gli occhi febbricitanti per
la veglia e il peso della sconfitta sulle spalle. Attraversò la strada, entrò
nel quadrilatero della piazza e si avvicinò alla moglie. Si guardarono con
tristezza. Era la prima volta in sette anni che lei lo affrontava, e aveva
scelto di farlo davanti a tutto il paese. Il Giudice Hidalgo prese il cesto e
la brocca dalle mani di donna Casilda e aprì la gabbia lui stesso per
soccorrere la sua prigioniera.
“Ve l'ho detto, ha i coglioni meno duri di me” rise
Nicolas Vidal quando venne a sapere dell'accaduto. Ma le sue risate divennero
amare il giorno seguente, quando gli portarono la notizia che Juana la Triste
si era impiccata al lampadario del bordello in cui aveva speso la vita, perché
non aveva potuto resistere alla vergogna che il suo unico figlio l'avesse
abbandonata in una gabbia in mezzo alla Piazza d'Armi. “Il Giudice ha finito di
vivere” disse Vidal. Il suo piano consisteva nell'entrare in paese di notte,
impadronirsi del magistrato di sorpresa, infliggergli una morte spettacolare e
collocarlo dentro la maledetta gabbia, perché svegliandosi il giorno seguente
tutti potessero vedere i suoi resti mortali umiliati. Ma venne a sapere che la
famiglia Hidalgo era partita per una stazione balneare della costa per far
passare il dispiacere della disfatta. La notizia che lo inseguivano per
vendicarsi giunse al Giudice Hidalgo a metà strada, in una locanda dove si
erano fermati a riposare. Il luogo non offriva protezione sufficiente per
attendere il distaccamento della guardia, ma aveva qualche ora di vantaggio e
il suo veicolo era più veloce dei cavalli. Calcolò che avrebbe potuto arrivare
al paese successivo e trovare aiuto. Ordinò alla moglie di salire in macchina
con i bambini, schiacciò a fondo l'acceleratore e si lanciò sulla strada.
Avrebbe dovuto arrivare con un ampio margine di sicurezza, ma era scritto che
Nicolas Vidal doveva incontrarsi quel giorno con la donna che aveva sfuggito
per tutta la vita. Stremato dalle notti di veglia, dall'ostilità dei
concittadini, dalla vergogna provata e dalla tensione di quella corsa per
salvare la sua famiglia, il cuore del Giudice Hidalgo s'inceppò e scoppiò senza
rumore. L'auto priva di controllo uscì di strada, fece qualche balzo e
finalmente si fermò. Donna Casilda tardò un paio di minuti a rendersi conto
dell'accaduto. Ogni tanto aveva pensato all'eventualità di rimanere vedova,
perché suo marito era quasi un vecchio, ma non aveva immaginato che l'avrebbe
lasciata alla mercé dei suoi nemici. Non perse tempo a pensarci, perché
comprese la necessità di agire immediatamente per salvare i bambini. Esaminò
con lo sguardo il luogo in cui si trovava e fu sul punto di mettersi a piangere
per lo sconforto, perché in quella nuda estensione calcinata da un sole
spietato non si vedevano tracce di vita umana, solo i monti agresti e un cielo
sbiancato dalla luce. Ma con un secondo sguardo distinse su un pendio l'ombra
di una grotta, e verso di essa si mise a correre portando due bambini in
braccio, col terzo aggrappato alla gonna. Tre volte Casilda scalò il declivio,
portando uno per volta i figli in cima. Era una grotta naturale, come tante
altre nei monti di quella regione. Esplorò l'interno per accertarsi che non
fosse la tana di qualche animale, sistemò i bambini in fondo e li baciò senza
una lacrima. “Tra qualche ora verranno le guardie a cercarvi. Fino allora non
uscite per nessun motivo, neanche se mi sentite gridare, avete capito?” ordinò.
I piccini si rannicchiarono atterriti e con un ultimo sguardo d'addio la madre
scese dalla montagna. Raggiunse la macchina, chiuse gli occhi al marito, si
scosse la polvere dai vestiti, si sistemò la pettinatura e sedette ad
aspettare. Non sapeva di quanti uomini si componesse la banda di Nicolas Vidal,
ma pregò perché fossero molti, così ci avrebbero messo parecchio a saziarsi di
lei, e raccolse le proprie forze chiedendosi quanto ci avrebbe messo a morire
se si impegnava nel farlo a poco a poco. Desiderò di essere opulenta e robusta
per opporre maggior resistenza e guadagnare tempo per i suoi figli. Non dovette
aspettare a lungo. Presto scorse polvere all'orizzonte, si sentì un galoppo e
strinse i denti. Sconcertata, vide che si trattava di un solo cavaliere, che si
fermò a pochi metri da lei con l'arma in mano. Aveva la faccia segnata da
cicatrici di coltellate, e così riconobbe Nicolas Vidal, che aveva deciso di
mettersi all'inseguimento del Giudice Hidalgo senza i suoi uomini, perché
questa era una faccenda privata che dovevano regolare tra loro due. Allora lei
capì che avrebbe dovuto fare qualcosa di molto più difficile che morire
lentamente. Al bandito bastò uno sguardo per comprendere che il suo nemico si
trovava al riparo da qualsiasi vendetta, dormendo la sua morte in pace, ma lì
c'era sua moglie fluttuante nel riverbero della luce. Smontò dal cavallo e le
si avvicinò. Lei non abbassò gli occhi né si mosse, ed egli si fermò sorpreso,
perché per la prima volta qualcuno lo sfidava senza dar mostra di paura. Si
misurarono in silenzio per alcuni secondi eterni, commisurando ciascuno le
forze dell'altro, stimando la propria tenacia e accettando di trovarsi di
fronte a un avversario formidabile. Nicolas Vidal rinfoderò la pistola e
Casilda sorrise. La moglie del giudice si guadagnò ogni istante delle ore
seguenti. Impiegò tutte le risorse della seduzione registrate dagli albori
della conoscenza umana e altre che improvvisò ispirata dal bisogno, per offrire
a quell'uomo il massimo piacere. Non solo lavorò sul suo corpo come un'abile
artigiana, pulsando ogni fibra in cerca del piacere, ma mise al servizio della
sua causa la raffinatezza del suo spirito. Entrambi intesero che si giocavano
la vita, e questo dava al loro incontro una terribile intensità. Nicolas Vidal
aveva fuggito l'amore fin dalla nascita, non conosceva l'intimità, la
tenerezza, il riso segreto, la festa dei sensi, il gioioso godimento degli
amanti. Ogni minuto che passava avvicinava il distaccamento di guardie e con
esse il plotone d'esecuzione, ma lo avvicinava anche a quella donna prodigiosa
e perciò si diede con piacere in cambio dei doni che lei gli offriva. Casilda
era pudica e timida ed era stata sposata con un vecchio austero al quale non si
era mai mostrata nuda. Durante quell'indimenticabile pomeriggio non perse di
vista il fatto che il suo scopo era di guadagnare tempo, ma in qualche momento
si abbandonò, meravigliata della propria sensualità, e provò per quell'uomo
qualcosa di simile alla gratitudine. Perciò quando sentì il rumore lontano della
truppa lo pregò di scappare e di nascondersi sulle montagne. Ma Nicolas Vidal
preferì stringerla fra le sue braccia per baciarla un'ultima volta, compiendo
così la profezia che segnò il suo destino.
UNA VIA PER IL NORD.
Claveles Picero e suo nonno, Jesùs Dionisio Picero, ci
misero trentotto giorni a coprire i duecentosettanta chilometri tra il loro
villaggio e la capitale. Attraversarono a piedi le terre basse, dove l'umidità
macerava la vegetazione in una brodaglia eterna di melma e sudore, salirono e
scesero monti tra iguana immobili e palme accasciate, varcarono le piantagioni
di caffè schivando capisquadra, caimani e serpenti, camminarono sotto le foglie
del tabacco tra zanzare fosforescenti e farfalle siderali. Procedevano diritti
verso la città, bordeggiando la rotabile, ma in un paio di occasioni dovettero
fare lunghe deviazioni per evitare gli accampamenti dei soldati. A volte i
camionisti rallentavano passando loro accanto, attratti dalla schiena da regina
meticcia e dai lunghi capelli neri della ragazza, ma lo sguardo del vecchio li
dissuadeva subito da qualsiasi tentativo di molestarla. Il nonno e la nipote
non avevano denaro e non sapevano mendicare. Quando finirono le provviste che
portavano in una cesta continuarono a marciare sorretti dal solo coraggio. Di
notte si avvolgevano nei mantelli e si addormentavano sotto gli alberi con
un'avemaria sulle labbra e la mente rivolta al bambino, per non pensare a puma
e bestie velenose. Si svegliavano ricoperti di scarabei azzurri. Ai primi
accenni dell'alba, quando il paesaggio era ancora avvolto dalle ultime brume
del sogno e uomini e bestie non avevano iniziato le fatiche del giorno, loro si
rimettevano in cammino per approfittare della frescura. Entrarono nella
capitale dal Camino de los Espanoles, chiedendo a coloro che incontravano dove
trovare il Segretario al Benessere Sociale Jesùs Dionisio non aveva più un osso
sano e i colori del vestito di Claveles erano evaporati, aveva l'espressione
stregata di una sonnambula e un secolo di fatica si era riversato sullo
splendore dei suoi vent'anni.
Jesùs Dionisio era l'artigiano più noto della provincia,
nella sua lunga vita si era guadagnato un prestigio di cui non si vantava,
perché considerava il proprio talento come un dono al servizio di Dio, del quale
era solo un amministratore. Aveva iniziato come vasaio e faceva ancora
stoviglie di terracotta, ma la sua fama derivava dai santi di legno e dalle
piccole sculture in bottiglia, che i contadini compravano per i loro altari
domestici o si vendevano ai turisti nella capitale. Era un lavoro lento,
questione di occhio, tempo e cuore, come l'uomo spiegava ai bambini che gli si
accalcavano attorno per vederlo lavorare. Introduceva con una pinza nella
bottiglia i legnetti dipinti, con una goccia di colla sulle parti che doveva
unire, e aspettava pazientemente che asciugassero prima di mettere il pezzo
seguente. La sua specialità erano i Calvari: una gran croce al centro da cui
pendeva il Cristo intagliato, con i suoi chiodi, la sua corona di spine e
un'aureola di carta dorata, e altre due croci più semplici per i ladroni del
Golgota. A Natale fabbricava nicchie per il Bambin Gesù, con colombe a
rappresentare lo Spirito Santo e stelle e fiori a simboleggiare la Gloria. Non
sapeva leggere né fare la propria firma, perché quando era bambino non c'erano
scuole da quelle parti, ma era in grado di copiare dal messale qualche frase in
latino per decorare i piedistalli dei suoi santi. Diceva che i genitori gli
avevano insegnato a rispettare le leggi della Chiesa e il prossimo, il che
valeva più che avere un'istruzione. L'arte non gli dava di che mantenere la
famiglia, e arrotondava i suoi introiti allevando galli di razza, ottimi per il
combattimento. A ogni gallo doveva dedicare molte cure, li alimentava
imbeccandoli con una pappina di cereali pestati e sangue fresco che trovava al
mattatoio, doveva spulciarli a mano, dargli aria alle penne, pulirgli gli
sproni e allenarli quotidianamente perché non gli mancasse il coraggio nell'ora
della prova. A volte andava in altri paesi per vederli combattere, ma non
scommetteva mai, perché per lui il denaro guadagnato senza sudore e senza
lavoro apparteneva al diavolo. Ogni sabato sera andava con la nipote Claveles a
pulire la chiesa per la cerimonia della domenica. Non sempre il sacerdote, che
girava da un villaggio all'altro in bicicletta, riusciva ad arrivare, ma tutti
i cristiani si riunivano comunque a pregare e a cantare. Jesùs Dionisio era
anche incaricato di raccogliere e custodire le elemosine per la manutenzione
del tempio e il mantenimento del curato. Tredici figli ebbe Picero da sua
moglie, Amparo Medina, cinque dei quali sopravvissero alle pestilenze e agli
incidenti della prima infanzia. Quando i genitori pensavano di avere ormai
finito di allevare bambini, perché tutti i figli erano grandi e se n'erano
andati di casa, il minore tornò in licenza dal servizio militare con un involto
di cenci che mise sulle ginocchia di Amparo. Aprendolo videro che si trattava
di una bambina appena nata, agonizzante per la mancanza di latte materno e per
lo strapazzo del viaggio. “Da dove salta fuori questa, figlio mio?” chiese
Jesùs Dionisio Picero. “Sembra che sia sangue mio” rispose il giovane senza
osar sostenere lo sguardo del padre, spremendo il berretto dell'uniforme tra le
dita sudate. “E se non è chiedere troppo, che fine ha fatto la madre?” “Non so.
Ha lasciato la bambina sulla porta della caserma, con un foglio dove c'era
scritto che il padre sono io. Il sergente mi ha ordinato di portarla alle
suore, dice che non c'è modo di provare che è mia. Ma a me fa pena, non voglio
che diventi orfana...” “Dove s'è mai vista una madre che abbandona la figlia
appena partorita?” “Sono cose della città.” “Sarà così. E come si chiama questa
poverina?” “Come la volete battezzare voi, padre, ma se volete il mio parere, a
me piace Claveles, che era il fiore preferito di sua madre.” Jesùs Dionisio
uscì in cerca della capra per mungerla, mentre Amparo ripuliva il bebè con
l'olio e pregava la Madonna di Lourdes di darle la forza di allevare un altro
bambino. Vista la creatura in buone mani, l'ultimogenito si congedò
ringraziando, si mise lo zaino in spalla e tornò in caserma a scontare la
punizione. Claveles crebbe in casa dei nonni. Era una ragazza scaltra e
ribelle, impossibile a dominarsi con i ragionamenti o con l'esercizio
dell'autorità, ma che soccombeva immediatamente quando le toccavano la corda
sentimentale. Si alzava all'alba e camminava per cinque miglia fino a una
baracca in mezzo ai recinti del bestiame, dove una maestra radunava i bambini
della zona per dar loro un'istruzione elementare. Aiutava la nonna nei mestieri
di casa e il nonno nel laboratorio, andava sui monti in cerca di argilla e gli
lavava i pennelli, ma non si interessò mai ad altri aspetti della sua arte.
Quando Claveles aveva nove anni, Amparo Medina, che si era andata rattrappendo
fino ad assumere le sembianze di una bambina, fu trovata fredda nel suo letto,
stroncata da tante maternità e tanti anni di lavoro. Suo marito scambiò il suo
gallo migliore con alcune assi e le fabbricò una bara decorata con scene
bibliche. La nipotina la vestì per il funerale con un abito da Santa
Bernadette, tunica bianca e cordone celeste alla vita, lo stesso che lei aveva
indossato per la Prima Comunione, e che si adattò perfettamente al corpo smagrito
della vecchina. Jesùs Dionisio e Claveles uscirono di casa diretti al cimitero
trascinando un 'Garofani'. carretto su cui era stata adagiata la bara adorna di
fiori di carta. Lungo il cammino li raggiunsero gli amici, uomini e donne a
capo coperto, che li accompagnarono in silenzio. Il vecchio intagliatore di
santi e la nipote rimasero soli nella casa. In segno di lutto dipinsero una
gran croce sulla porta, e portarono entrambi per anni un nastro nero cucito
sulla manica. Il nonno tentò di sostituire la moglie nei dettagli pratici della
vita, ma nulla fu più come prima. L'assenza di Amparo Medina lo invase come
un'infermità maligna, sentì che il sangue gli si annacquava, gli si offuscavano
i ricordi, le ossa gli diventavano di bambagia, la mente gli si riempiva di
dubbi. Per la prima volta in vita sua si ribellò al destino, chiedendosi perché
avevano preso lei senza di lui. Da allora non poté più fare Presepi, dalle sue
mani uscivano solo Calvari e Santi Martiri, tutti vestiti a lutto, cui Claveles
applicava cartellini con messaggi patetici alla Divina Provvidenza, dettati dal
nonno. Quelle figure non trovarono la stessa accoglienza di prima fra i turisti
della città, che preferivano i colori scandalosi attribuiti per errore al
temperamento indigeno, né fra i contadini, i quali avevano bisogno di adorare
divinità allegre, perché l'unica consolazione delle tristezze di questo mondo
era di immaginare che in cielo fossero sempre in festa. A Jesùs Dionisio Picero
risultò quasi impossibile vendere le proprie opere, ma continuò a fabbricarle,
perché in quell'occupazione le ore gli passavano senza tedio, come fosse sempre
presto. Tuttavia né il lavoro né la presenza della nipote riuscirono a
sollevarlo e cominciò a bere di nascosto, perché nessuno si accorgesse della
sua vergogna. Ubriaco chiamava la moglie, e a volte riusciva a vederla accanto
al focolare. Senza le cure diligenti di Amparo Medina la casa andò
deteriorandosi, le galline si ammalarono, dovettero vendere la capra, l'orto
andò in malora e presto erano diventati la famiglia più povera della zona. Poco
dopo Claveles se ne andò a lavorare in un paese vicino. A quattordici anni il
suo corpo aveva già assunto forma e dimensioni definitive, e poiché non aveva
la carnagione di rame né gli zigomi sporgenti degli altri membri della
famiglia, Jesùs Dionisio Picero concluse che la madre doveva essere una bianca,
il che offriva una spiegazione al fatto insolito che l'avesse abbandonata sulla
soglia di una caserma. In capo a un anno e mezzo Claveles Picero tornò a casa
con delle macchie in faccia e una pancia prominente. Trovò il nonno senza altra
compagnia che una torma di cani affamati e un paio di galli sparuti vaganti per
il cortile, intento a parlare da solo, lo sguardo perso nel vuoto, con
l'aspetto di chi non si è lavato da molto tempo. Era circondato dal massimo
disordine. Aveva abbandonato il suo fazzoletto di terra e passava le ore a
fabbricare santi con una premura demenziale, ma ben poco rimaneva ormai del suo
antico talento. Le sue sculture erano esseri deformi e lugubri, inadatti alla
devozione o alla vendita, che si accumulavano negli angoli della casa come
cataste di legna. Jesùs Dionisio Picero era tanto cambiato che non tentò
neppure di somministrare alla nipote una predica sul peccato di mettere al mondo
figli di padre ignoto, parve anzi che non notasse i segni della gravidanza. Si
limitò ad abbracciarla tremante, chiamandola Amparo. “Nonno, guardatemi, sono
Claveles, e sono tornata perché qui c'è molto da fare” disse la giovane, e andò
ad accendere il fuoco per cucinare qualche patata e scaldare l'acqua per fare
il bagno al vecchio. Durante i mesi seguenti Jesùs Dionisio parve resuscitare
dal suo lutto, smise di bere, tornò a coltivare l'orto, a occuparsi dei galli e
a spazzare la chiesa. Parlava ancora al ricordo della moglie e di tanto in
tanto confondeva la nipote con la nonna, ma ritrovò la capacità di ridere. La
compagnia di Claveles e l'illusione che presto ci sarebbe stato un altro
bambino in casa gli restituirono l'amore per i colori, e pian piano smise di
bitumare i suoi santi con la pittura nera, acconciandoli con vesti più adatte
all'altare. Il bimbo di Claveles uscì dal ventre di sua madre un giorno alle
sei di sera, e cadde nelle mani callose del bisnonno, il quale aveva una lunga
esperienza di quelle faccende perché aveva aiutato a nascere i suoi tredici
figli. “Si chiamerà Juan” decise l'improvvisato ostetrico appena ebbe tagliato
il cordone e avvolto il discendente in un panno. “Perché Juan? Non c'è nessun
Juan in famiglia, nonno.” “Perché Juan era il miglior amico di Jesùs, e questo
sarà il mio amico. E il cognome del padre?” “Fate conto che non abbia padre.”
“Allora Picero, Juan Picero.” Due settimane dopo la nascita del bisnipote Jesùs
Dionisio cominciò a intagliare legname per una Natività, la prima che faceva
dalla morte di Amparo Medina. Claveles e il nonno non tardarono a rendersi
conto che il bambino era anormale. Aveva uno sguardo incuriosito e si muoveva
come qualsiasi bebè, ma non reagiva quando gli parlavano, poteva rimanere ore e
ore sveglio e immobile. Fecero il viaggio fino all'ospedale, dove ebbero la
conferma che era sordo e pertanto sarebbe rimasto muto. Il medico aggiunse che
non c'erano molte speranze per lui, a meno che non avessero la fortuna di
riuscire a collocarlo in un istituto di città, dove gli avrebbero insegnato a
comportarsi e in futuro avrebbero potuto trovargli un mestiere perché si
guadagnasse decentemente la vita e non fosse sempre un peso per gli altri.
“Neanche parlarne, Juan rimane con noi” decise Jesùs Dionisio Picero senza
neanche guardare Claveles, che piangeva con la testa coperta dallo scialle.
“Che cosa faremo, nonno?” chiese lei quando uscirono. “Lo educheremo, no?” “E
come?” “Con la pazienza, come si addestrano i galli o si mettono i Calvari
nelle bottiglie. È questione di occhio, di tempo e di cuore.” E così fecero.
Senza prendere in considerazione il fatto che il bambino non poteva sentirli,
gli parlavano senza tregua, gli cantavano canzoni, lo collocavano accanto alla
radio accesa a tutto volume. Il nonno prendeva la mano del bimbo e l'appoggiava
fermamente sul proprio petto, affinché sentisse le vibrazioni della voce quando
parlava, lo incitava a gridare e celebrava i suoi grugniti con manifestazioni
esagerate. Appena poté stare seduto se lo mise accanto in uno scatolone, lo
circondò di bastoncini, noci, ossa, pezze di tela e sassolini affinché
giocasse, e più tardi, quando imparò a non mettersela in bocca, gli passò una
pallottola di argilla da modellare. Ogni volta che trovava un lavoro, Claveles andava
in paese, lasciando il figlio nelle mani di Jesùs Dionisio. Dovunque andasse il
vecchio il bambino lo seguiva come un'ombra, raramente si separavano. Tra loro
si sviluppò un solido cameratismo che eliminò la tremenda differenza d'età e
l'ostacolo del silenzio. Juan si abituò a osservare i gesti e le espressioni
del volto del bisnonno per decifrarne le intenzioni, con risultati talmente
buoni che nell'anno in cui imparò a camminare era già capace di leggerne i
pensieri. Dal canto suo Jesùs Dionisio lo curava come una madre. Mentre le sue
mani si dedicavano a delicate operazioni artigianali, il suo istinto seguiva i
passi del bambino, attento a qualsiasi pericolo, ma interveniva solo in casi
estremi. Non accorreva a consolarlo dopo una caduta o a soccorrerlo quando era
in difficoltà, abituandolo così a cavarsela da solo. In un'età in cui altri
bambini vagano ancora barcollando come cuccioli, Juan Picero sapeva vestirsi,
lavarsi e mangiare da solo, dar da mangiare al pollame, andare a prender acqua
al pozzo, sapeva intagliare le parti più semplici dei santi, mescolare i colori
e preparare le bottiglie per i Calvari. “Bisognerà mandarlo a scuola perché non
rimanga un ignorante come me” disse Jesùs Dionisio Picero all'avvicinarsi del
settimo compleanno del bimbo. Claveles fece qualche indagine, ma la informarono
che suo figlio non poteva assistere a una lezione normale, perché nessuna
maestra sarebbe stata disposta ad avventurarsi nell'abisso di solitudine in cui
era sprofondato. “Non importa, nonno, si guadagnerà da vivere fabbricando santi
come voi” si rassegnò Claveles. “Non è un mestiere che dia da vivere.” “Non
tutti possono istruirsi, nonno.” “Juan è sordo ma non è stupido. Ha molta
intelligenza e potrebbe andar via di qui, la vita in campagna è troppo dura per
lui.” Claveles era convinta che il nonno avesse perso il giudizio, o che
l'amore per il bambino gli impedisse di vedere i suoi limiti. Comprò un
sillabario e tentò di trasmettergli le sue scarse conoscenze, ma non riuscì a
far capire al figlio che quegli scarabocchi rappresentavano suoni e finì per
perdere la pazienza. A quei tempi comparvero i volontari della signora Dermoth.
Erano giovani provenienti dalla città, che percorrevano le regioni più remote
del paese parlando di un progetto umanitario per soccorrere i poveri.
Spiegavano che in alcune località nascevano troppi bambini e i genitori non
avevano di che alimentarli, mentre in altre c'erano molte coppie senza figli.
La loro organizzazione voleva mitigare quello squilibrio. Si presentarono a casa
dei Picero con una mappa del Nordamerica e con dei volantini colorati in cui si
vedevano foto di bambini bruni accanto a genitori biondi, in lussuosi ambienti
con caminetti accesi, grossi cani villosi, abeti decorati con fili argentei e
palle natalizie. Dopo aver fatto un rapido inventario della povertà dei Picero,
li informarono della missione caritatevole della signora Dermoth, che
individuava i bambini più sfortunati e li dava in adozione a famiglie ricche,
per salvarli da una vita di miseria. A differenza di altre istituzioni dedite
allo stesso scopo, lei si occupava solo di creature con tare di nascita o
colpite da incidenti o malattie. Nel Nord c'erano alcune coppie, buoni
cristiani, naturalmente, disposte ad adottare quei bambini. Loro disponevano di
ogni risorsa per aiutarli. Lassù nel Nord c'erano cliniche e scuole dove si
facevano miracoli, ai sordomuti, per esempio, insegnavano a leggere i movimenti
delle labbra e a parlare, poi andavano in scuole speciali, ricevevano
un'educazione completa e alcuni si iscrivevano all'università e finivano per
diventare avvocati o dottori. L'organizzazione aveva aiutato molti bambini, i
Picero potevano vedere le fotografie, guardate come si vede che sono contenti,
come sono sani, con tutti questi giocattoli, in queste case di signori. I
volontari non potevano promettere niente, ma avrebbero fatto tutto il possibile
per far sì che una di quelle coppie accogliesse Juan, per dargli tutte le
opportunità che sua madre non poteva offrirgli. Non bisogna mai separarsi dai
figli, qualunque cosa accada” disse Jesùs Dionisio Picero stringendosi al petto
la testa del bambino perché non vedesse le facce e non indovinasse l'argomento
della conversazione. “Non sia egoista, pensi a quello che è meglio per lui. Non
capisce che là avrà tutto? Lei non ha neanche di che comprargli le medicine,
non può mandarlo a scuola, cosa ne sarà di lui? Questo poverino non ha neanche
il padre.” “Ma ha una madre e un bisnonno” replicò il vecchio. I visitatori se
ne andarono, lasciando sul tavolo i volantini della signora Dermoth. Nei giorni
seguenti Claveles si sorprese più volte a guardarli e a paragonare quelle case
grandi e ben arredate con la sua modesta abitazione di legno, tetto di paglia e
pavimento di terra battuta, quei genitori amabili e ben vestiti con se stessa
stanca e scalza, quei bambini sommersi dai giocattoli con il suo che impastava
argilla. Una settimana più tardi Claveles si imbatté nei volontari al mercato,
dove era andata a vendere qualche scultura del nonno, e tornò ad ascoltare gli
stessi argomenti, che un'occasione come quella non si sarebbe presentata
un'altra volta, che la gente adotta bambini sani, mai ritardati, quelle persone
del Nord erano di nobili sentimenti, che ci pensasse bene, perché si sarebbe
pentita per tutta la vita di aver negato al figlio tanti vantaggi,
condannandolo alla sofferenza e alla povertà. “Perché vogliono solo bambini
malati?” chiese Claveles. “Perché sono dei gringos mezzo santi. La nostra
organizzazione si occupa solo dei casi più penosi. Per noi sarebbe più facile
collocare i normali, ma si tratta di aiutare gli invalidi.” Claveles Picero
rivide i volontari diverse volte. Si presentavano sempre quando il nonno era in
casa. Verso la fine di novembre le mostrarono la foto di una coppia di mezza
età, in piedi sulla soglia di una casa bianca circondata da un parco, e le
dissero che la signora Dermoth aveva trovato i genitori ideali per suo figlio.
Le indicarono sulla mappa il luogo preciso in cui abitavano, le spiegarono che
là d'inverno c'era la neve e i bambini facevano pupazzi, pattinavano sul
ghiaccio e sciavano, che in autunno i boschi sembravano d'oro e che d'estate si
poteva nuotare nel lago. La coppia si era talmente esaltata all'idea di
adottare il piccino che già gli avevano comprato una bicicletta. Le mostrarono
anche la fotografia della bicicletta. E tutto questo senza contare che
offrivano duecentocinquanta dollari a Claveles, con i quali avrebbe potuto
sposarsi e avere figli sani. Sarebbe stata una pazzia dire di no. Due giorni
più tardi, approfittando del fatto che Jesùs Dionisio era andato a spazzare la
chiesa, Claveles Picero vestì suo figlio con i pantaloni migliori, gli mise al
collo la medaglia del battesimo e gli spiegò nel linguaggio gestuale inventato
dal nonno per lui che non si sarebbero visti per molto tempo, forse mai più, ma
che era tutto per il suo bene, sarebbe andato in un posto dove c'era da
mangiare tutti i giorni e avrebbe avuto regali per i suoi compleanni. Lo portò
all'indirizzo indicato dai volontari, firmò un documento in cui affidava la
custodia di Juan alla signora Dermoth e uscì di corsa perché il figlio non
vedesse le sue lacrime e si mettesse a piangere anche lui. Quando Jesùs
Dionisio venne a saperlo perse il respiro e la voce. A manate scagliò a terra
tutto ciò che trovava, inclusi i santi in bottiglia, poi si lanciò su Claveles,
colpendola con una violenza inaspettata in una persona della sua età e del suo
carattere mansueto. Appena riuscì a parlare l'accusò di essere uguale a sua
madre, capace di disfarsi del proprio figlio, cosa che non fanno neanche le
belve della foresta, e invocò il fantasma di Amparo Medina perché facesse
vendetta su quella nipote depravata. Nei mesi seguenti non rivolse la parola a
Claveles, apriva bocca solo per mangiare e per biascicare maledizioni mentre le
sue mani si affannavano sugli attrezzi da intaglio. I Picero si abituarono a
vivere in un selvatico silenzio, ciascuno facendo le sue cose. Lei cucinava e
gli metteva il piatto sul tavolo, lui mangiava con gli occhi fissi sul cibo... Insieme
badavano all'orto e agli animali, ciascuno ripetendo i gesti della propria
routine, in perfetto coordinamento con l'altro, senza sfiorarsi. Nei giorni di
mercato lei raccoglieva le bottiglie e i santi di legno, andava a venderli,
tornava con qualche provvista e lasciava il resto del denaro in un barattolo.
La domenica andavano in chiesa separati, come estranei. Forse avrebbero passato
il resto della vita senza parlarsi se verso la metà di febbraio il nome della
signora Dermoth non avesse fatto notizia. Il nonno lo sentì alla radio, mentre
Claveles stava lavando la biancheria in cortile, prima il commento del cronista
e poi la conferma del Segretario al Benessere Sociale in persona. Con il cuore
in tumulto, si affacciò alla porta, chiamando Claveles con quanto fiato aveva.
La ragazza si voltò e vedendolo così sconvolto credette che stesse per morire,
e corse a sostenerlo. “L'hanno ammazzato, Gesù, è sicuro che l'hanno
ammazzato!” gemette il vecchio cadendo in ginocchio. Ma chi, nonno?” “Juan...”
e mezzo soffocato dai singhiozzi le ripeté le parole del Segretario al
Benessere Sociale, che un'organizzazione criminale diretta da una certa signora
Dermoth vendeva bambini indigeni. Li sceglievano malati o di famiglie
poverissime, con la promessa che sarebbero stati dati in adozione. Li
mantenevano per un certo tempo ingrassandoli, e quando erano in condizioni
migliori li portavano in una clinica clandestina dove li operavano. Decine di
innocenti erano stati sacrificati come banche d'organi, perché gli togliessero
gli occhi, i reni, il fegato e altre parti del corpo che venivano mandate per
operare trapianti nel Nord. Aggiunse che in una delle case dove li ingrassavano
avevano trovato ventotto bambini che aspettavano il loro turno, che la polizia
era intervenuta e che il Governo continuava le indagini per smantellare
quell'orrendo traffico. Così ebbe inizio il lungo viaggio di Claveles e Jesùs
Dionisio per parlare nella capitale con il Segretario al Benessere Sociale.
Volevano chiedergli, con tutto il dovuto rispetto, se tra i bambini liberati
c'era il loro, e se per caso lo potevano riavere. Dei soldi avuti restava
pochissimo, ma erano disposti a lavorare come schiavi per la signora Dermoth
per tutto il tempo necessario, fino a restituirle l'ultimo centesimo di quei
duecentocinquanta dollari.
L'OSPITE DELLA MAESTRA.
La Maestra Inés entrò nella Perla d'Oriente, che a
quell'ora era vuota di clienti, si diresse al banco dove Riad Halabì stava
arrotolando una tela a fiori multicolori e annunciò di aver appena sgozzato un
ospite della sua pensione Il commerciante tirò fuori il suo fazzoletto bianco e
si tappò la bocca. “Cosa dici, Inés?” “Hai sentito benissimo, turco. “È morto?”
“Sicuro.” “E adesso cosa farai?” È quello che sono venuta a chiederti, disse
lei accomodandosi una ciocca di capelli. “Sarà meglio che chiuda il negozio”
sospirò Riad Halabì. Si conoscevano da tanto che nessuno dei due riusciva a
ricordare il numero di anni, benché entrambi serbassero nella memoria ogni
dettaglio di quel primo giorno in cui avevano dato inizio alla loro amicizia.
Lui allora era uno di quei venditori ambulanti che vanno per le strade offrendo
le loro mercanzie, pellegrino del commercio senza bussola né rotta prefissata,
un immigrante arabo con un falso passaporto turco, solo, stanco, con il mento
partito in due come un coniglio e una voglia insopportabile di sedersi
all'ombra; e lei era una donna ancora giovane, dalla schiena dritta e dalle
spalle forti, l'unica maestra del paese, madre di un bambino di dodici anni
nato da un amore fugace. Il figlio era la ragione di vita della maestra, lo
allevava con dedizione inflessibile e riusciva appena a dissimulare la sua
tendenza a viziarlo, applicandogli le stesse norme disciplinari che agli altri
bambini della scuola, perché nessuno potesse dire che lo tirava su male e per
annullare l'eredità discola del padre, formandolo invece di pensiero chiaro e
cuore generoso. Lo stesso giorno in cui Riad Halabì entrò ad Agua Santa da un
lato, dall'altro un gruppo di ragazzi portò il corpo del figlio della Maestra
Inés su una barella improvvisata. Era entrato in un frutteto altrui per
cogliere un mango, e il proprietario, un forestiero che nessuno conosceva da
quelle parti, gli aveva sparato una fucilata per spaventarlo, segnandogli il
centro della fronte con un forellino nero da cui gli sfuggì la vita. In quel
momento il commerciante scoprì la sua vocazione di capo, e senza sapere come si
trovò al centro dell'evento, consolando la madre, organizzando il funerale come
fosse stato membro della famiglia e trattenendo la gente per evitare che
facesse a pezzi il responsabile. Intanto l'assassino aveva capito che gli
sarebbe stato molto difficile salvare la pelle se restava lì, e fuggì dal paese
per non tornare mai più. La mattina seguente, a Riad Halabì toccò capeggiare la
folla che marciò dal cimitero fino al punto in cui il bambino era caduto. Tutti
gli abitanti di Agua Santa passarono la giornata cogliendo manghi, che
lanciarono dentro le finestre fino a colmare la casa dal pavimento al tetto. In
poche settimane il sole fece fermentare i frutti, che si sciolsero in un denso
sugo impregnando le pareti di un sangue dorato, di un pus dolciastro che
trasformò l'abitazione in un fossile di dimensioni preistoriche, un'enorme
bestia in processo di putrefazione, tormentata dall'infinita diligenza delle
larve e dei moscerini della decomposizione. La morte del bambino, il ruolo che
dovette svolgere in quei giorni e l'accoglienza che ebbe ad Agua Santa
determinarono il destino di Riad Halabì. Dimenticò il nomadismo ancestrale e
rimase in paese. Vi installò la sua bottega, La Perla d'Oriente. Si sposò,
rimase vedovo, tornò a sposarsi e continuò a vendere, mentre cresceva il suo
prestigio di uomo giusto. Dal canto suo Inés educò diverse generazioni di
bambini con lo stesso affetto tenace che avrebbe dedicato al figlio, finché la
vinse la stanchezza; allora lasciò il passo ad altre maestre venute dalla città
con nuovi sillabari e si ritirò. Lasciando le aule sentì che invecchiava
improvvisamente e che il tempo si accelerava, i giorni passavano troppo rapidi
senza che riuscisse a ricordare in che occupazioni le erano fuggite le ore.
“Sono istupidita, turco. Sto morendo senza rendermene conto” commentò. “Sei
sana come sempre, Inés. Il fatto è che ti annoi, non devi stare in ozio”
replicò Riad Halabì, e le suggerì l'idea di aggiungere qualche stanza alla sua
casa e di trasformarla in una pensione. “In questo paese manca un albergo.”
“Mancano anche i turisti” ribatté lei. “Un letto pulito e un pranzo caldo sono
una benedizione per i viaggiatori di passaggio.” E così fu, soprattutto per i
camionisti della Compagnia Petrolifera, che si fermavano a passare la notte
nella pensione quando la stanchezza e il tedio della strada gli riempivano il
cervello di allucinazioni. La Maestra Inés era la matrona più rispettata di
Agua Santa. Aveva educato tutti i bambini del paese per diversi decenni, il che
le dava l'autorità di intervenire nella vita di ciascuno e di tirargli le
orecchie quando lo riteneva necessario. Le ragazze le portavano i loro
fidanzati perché li approvasse, gli sposi la consultavano nei loro litigi, era
consigliera, arbitro e giudice in ogni problema, la sua autorità era più solida
di quella del prete, del medico o della polizia. Nulla la tratteneva nell'esercizio
di quel potere. Una volta entrò nella caserma, passò davanti al Tenente senza
salutarlo, prese le chiavi appese a un chiodo e tirò fuori dalla cella uno dei
suoi allievi, arrestato per ubriachezza. L'ufficiale tentò di impedirglielo, ma
lei gli diede uno spintone e si trascinò via il ragazzo per la collottola.
Quando fu in strada gli impartì un paio di schiaffoni e gli annunciò che la
prossima volta lei personalmente gli avrebbe abbassato i pantaloni per dargli
una lezione memorabile. Il giorno in cui Inés venne ad annunciargli di aver
ucciso un cliente, Riad Halabì non ebbe il minimo dubbio che parlasse sul
serio, perché la conosceva troppo bene. La prese sottobraccio e camminò con lei
per i due isolati che separavano La Perla d'Oriente dalla casa della maestra.
Era una delle migliori costruzioni del paese, di mattoni crudi e legno, con un
ampio portico dove si appendevano le amache per la siesta nei pomeriggi più
caldi, bagni con acqua corrente e ventilatori in tutte le stanze. A quell'ora
sembrava vuota, c'era un solo ospite che riposava in sala bevendo birra con gli
occhi fissi sulla televisione. “Dov'è?” sussurrò il commerciante arabo. “In una
delle stanze del retro” rispose lei senza abbassare la voce. Lo condusse alla
fila delle stanze, tutte unite da un lungo corridoio coperto, con rampicanti
viola che si aggrappavano alle colonne e vasi di felci che pendevano dalla
travatura, attorno a un patio in cui crescevano nespoli e banani. Inés aprì
l'ultima porta e Riad Halabì entrò nella stanza in ombra. Le persiane erano
chiuse e gli ci vollero alcuni istanti per abituare gli occhi e vedere sul
letto il corpo di un vecchio dall'aspetto inoffensivo, un forestiero decrepito
che nuotava nella melma della propria morte, con i pantaloni macchiati di escrementi,
la testa trattenuta da una striscia di pelle livida e una terribile espressione
di desolazione, come se stesse chiedendo scusa per tanto disordine e sangue e
per il tremendo pasticcio di essersi lasciato assassinare. Riad Halabì sedette
sull'unica sedia della stanza, con gli occhi fissi a terra, cercando di
controllare il soprassalto del suo stomaco. Inés rimase in piedi a braccia
conserte, calcolando che avrebbe avuto bisogno di due giorni per lavare le
macchie e almeno di altri due per far evaporare l'odore di merda e di orrore.
“Come hai fatto?” chiese finalmente Riad Halabì asciugandosi il sudore. “Con il
machete per tagliare i cocchi. Gli sono venuta alle spalle e gli ho dato un
colpo solo. Non se n'è neanche accorto, povero diavolo.” “Perché?” “Dovevo
farlo, così è la vita. Pensa la sfortuna, questo vecchio non intendeva fermarsi
ad Agua Santa, attraversava il paese e un sasso gli ha rotto il vetro della
macchina. È venuto qui a riposare finché l'italiano del garage gliene montava
un altro. È cambiato molto, siamo invecchiati tutti, ma l'ho riconosciuto
subito. L'ho aspettato per anni, sicura che sarebbe venuto, presto o tardi. È
l'uomo dei manghi.” “Allah ci protegga” mormorò Riad Halabì. “Credi che
dobbiamo chiamare il Tenente?” Ma neanche per sogno, cosa ti viene in mente.”
“Sono nel mio diritto, lui ha ucciso il mio bambino.” “Non lo capirebbe, Inés.”
“Occhio per occhio, dente per dente, turco. Non dice così la tua religione?”
“La legge non funziona in questa maniera, Inés.” “Be', allora potremmo dargli
una sistemata e dire che si è suicidato.” “Non toccarlo. Quanti ospiti ci sono
in casa?” “Solo un camionista. Se ne va appena rinfresca, deve guidare fino
alla capitale.” “Bene,. non accettare nessun altro. Chiudi a chiave la porta di
questa stanza e aspettami, torno stasera.” “Cosa vuoi fare?” “Sistemerò la
faccenda alla mia maniera.” Riad Halabì aveva sessantacinque anni, ma serbava
ancora lo stesso vigore della sua giovinezza e lo stesso spirito che lo mise
alla testa della folla il giorno in cui giunse ad Agua Santa. Uscì dalla casa
della Maestra Inés e si incamminò con passo rapido per compiere la prima di
diverse visite che dovette fare quel giorno. Nelle ore seguenti un mormorio
persistente invase il paese, i cui abitanti si scossero il sopore di anni,
eccitati dalla più fantastica delle notizie, che andarono ripetendo di casa in
casa come una voce incontenibile, una notizia che spingeva per esplodere in un
urlo, e alla quale la necessità stessa di contenerla in un bisbiglio conferiva
un valore particolare. Prima del tramonto si sentiva già nell'aria quella
nervosa inquietudine che negli anni seguenti sarebbe stata una caratteristica
del paese, incomprensibile per i forestieri di passaggio, che non potevano
vedere in quel luogo nulla di straordinario, solo un paesucolo insignificante
come tanti altri sull'orlo della selva. Presto gli uomini cominciarono ad
affollare la taverna, le donne uscirono sulla soglia con le sedie della cucina
e si misero a prendere aria, i giovani accorsero in massa in piazza come fosse
domenica. Il Tenente e i suoi uomini fecero un paio di giri come al solito e
poi accettarono l'invito delle ragazze del bordello, che festeggiavano un
compleanno, dissero. A sera c'era più gente per la strada che nella festa di
Ognissanti, ciascuno impegnato nel suo compito con tanta evidente diligenza che
sembravano posare per un film, alcuni giocavano a domino, altri bevevano rum e
fumavano sui cantoni, alcune coppie passeggiavano mano nella mano, le madri
inseguivano i figli, le nonne curiosavano dalle porte spalancate. Il parroco
accese le lanterne della chiesa e suonò le campane chiamando alla novena di
Sant'Isidoro Martire, ma nessuno si sentiva disposto a quel genere di
devozioni. Alle nove e mezzo si radunarono in casa della Maestra Inés l'arabo,
il dottore del paese e quattro giovani che lei aveva educato dalla prima
infanzia e che adesso erano omaccioni tornati dal servizio militare. Riad
Halabì li condusse nell'ultima stanza, dove trovarono il cadavere coperto di
insetti, perché la finestra era rimasta aperta ed era l'ora delle zanzare.
Misero l'infelice in un sacco di tela, lo trascinarono in strada e lo buttarono
senza cerimonie sul cassone del veicolo di Riad Halabì. Attraversarono tutto il
paese per la via principale, salutando come al solito le persone che
incontravano. Alcuni restituirono il saluto con esagerato entusiasmo, mentre
altri fingevano di non vederli, ridendo di soppiatto, come bambini sorpresi in
qualche birichinata. Il camioncino si diresse al luogo in cui tanti anni prima
il figlio della Maestra Inés si era sporto per l'ultima volta a cogliere un
frutto. Alla luce della luna videro la proprietà invasa dalle erbacce
dell'abbandono, deteriorata dagli anni e dai cattivi ricordi, un'intricata
collina su cui i manghi crescevano inselvatichiti, i frutti cadevano dai rami e
marcivano al suolo, dando origine ad altre piante che a loro volta ne
generavano altre e così via fino a creare una giungla ermetica che aveva
inghiottito i recinti, il sentiero e persino le spoglie della casa, della quale
rimaneva solo una traccia quasi impercettibile di odore di marmellata. Gli
uomini accesero le lampade a cherosene e si inoltrarono nel bosco, aprendosi il
passo con i machete. Quando ritennero di essersi spinti abbastanza avanti, uno
di loro indicò il suolo e lì, ai piedi di un gigantesco albero oppresso dai
frutti, scavarono una profonda buca in cui deposero il sacco. Prima di coprirlo
di terra Riad Halabì recitò una breve preghiera musulmana, perché non ne
conosceva altre. Rientrarono in paese a mezzanotte e videro che ancora nessuno
si era ritirato, le luci erano accese a tutte le finestre e per le strade
transitava la gente. Intanto la Maestra Inés aveva lavato con acqua e sapone le
pareti e i mobili della stanza, aveva bruciato le lenzuola, ventilato la casa e
aspettava gli amici con la cena pronta e una brocca di rum con succo d'ananas.
La cena passò allegramente in conversazioni sugli ultimi combattimenti di
galli, barbaro sport, secondo la Maestra, ma meno barbaro delle corride di
tori, in cui un matador colombiano aveva appena perso il fegato, dissero gli
uomini. Riad Halabì fu l'ultimo a congedarsi. Quella notte, per la prima volta
in vita sua, si sentiva vecchio. Sulla porta la Maestra Inés gli prese le mani
e le tenne per un istante fra le sue. “Grazie, turco” gli disse. “Perché hai
chiamato me, Inés?” “Perché tu sei la persona cui voglio più bene al mondo, e
perché avresti dovuto essere il padre di mio figlio.” Il giorno seguente gli
abitanti di Agua Santa tornarono alle loro faccende quotidiane ingigantiti da
una complicità magnifica, da un segreto da buoni vicini, che avrebbero dovuto
serbare con il massimo zelo, tramandandoselo l'un l'altro per molti anni come
una leggenda di giustizia, finché la morte della Maestra Inés ci liberò tutti e
ora posso raccontarlo.
CON IL DOVUTO RISPETTO.
Erano due furfanti. Lui aveva una faccia da corsaro e
portava capelli e baffi tinti di nero, ma col tempo mutò stile e si lasciò le
ciocche bianche, che gli addolcirono l'espressione e gli diedero un'aria più
circospetta. Lei era robusta, con quella pelle lattea delle anglosassoni dai
capelli rossi, una pelle che in gioventù riflette la luce con pennellate
opalescenti, ma nella maturità diventa carta macchiata. Gli anni che aveva
passato nei campi petroliferi e nei villaggi di frontiera non avevano stroncato
il suo vigore, eredità degli antenati scozzesi. Né le zanzare né il caldo né le
cattive abitudini riuscirono ad esaurirle le forze o a toglierle la voglia di
comandare. A quattordici anni aveva abbandonato il padre, un pastore
protestante che predicava la Bibbia in piena selva, fatica del tutto inutile
perché nessuno capiva i suoi sermoni in inglese e perché in quelle latitudini
le parole, comprese quelle di Dio, si perdono nel baccano degli uccelli. A
quell'età la ragazza aveva già raggiunto la sua statura definitiva ed era nel
pieno dominio della propria persona. Non era una bimba sentimentale. Respinse a
uno a uno gli uomini che, attirati dalla fiammata incandescente dei suoi
capelli, così rara ai tropici, le offrirono protezione. Non aveva sentito
parlare dell'amore e non era nel suo temperamento inventarlo, ma seppe trarre
il miglior partito dall'unico bene che possedeva, e quando compì i venticinque
anni aveva già un pugno di diamanti cuciti nella fodera della sottana. Li
consegnò senza alcuna incertezza a Domingo Toro, l'unico uomo che riuscì a
domarla, un avventuriero che percorreva la regione cacciando caimani e
trafficando in armi e whisky adulterato. Era un farabutto privo di scrupoli, il
compagno perfetto per Abigail McGovern. Nei primi tempi la coppia dovette
escogitare affari funamboleschi per accrescere il proprio capitale. Con i
diamanti di lei e qualche risparmio che lui aveva accumulato grazie al
contrabbando, alle pelli di caimano e al gioco (in cui barava), Domingo
acquistò gettoni del Casinò, perché venne a sapere che erano identici a quelli
di un altro casinò dall'altra parte della frontiera, dove il valore della
moneta era molto superiore. Riempì una valigia di gettoni e andò a cambiarli in
denaro contante e sonante. Riuscì a ripetere due volte l'operazione prima che
le autorità si allarmassero, e quando lo fecero risultò che non lo si poteva
accusare di alcunché d'illegale. Intanto Abigail commerciava in vasi di terracotta
che comprava ai Guajiros e vendeva come reperti archeologici ai gringos della
Compagnia Petrolifera, con tanto successo che presto poté ampliare l'azienda
con false pitture coloniali, eseguite da uno studente in un bugigattolo dietro
la cattedrale e frettolosamente invecchiate con acqua di mare, fuliggine e
orina di gatto. A quei tempi aveva deposto i modi e la parlata da popolana
briccona, si era tagliata i capelli e si vestiva con abiti cari. Benché i suoi
gusti fossero troppo ricercati e i suoi sforzi per sembrare elegante troppo
evidenti, poteva passare per una signora, il che facilitava i suoi rapporti
sociali e contribuiva al successo dei suoi affari. Dava appuntamento ai clienti
nei saloni dell'Hotel Inglés, e mentre serviva il tè con i gesti misurati che
aveva imparato a copiare, parlava di partite di caccia e di campionati di
tennis in ipotetiche località dal nome britannico che nessuno riusciva a
individuare su una mappa. Dopo la terza tazza menzionava in tono confidenziale
lo scopo dell'incontro, mostrava fotografie delle presunte antichità e metteva
in chiaro che il suo intento era di salvare quei tesori dall'incuria locale. Il
governo non aveva le risorse per preservare quegli straordinari oggetti,
diceva, e farli uscire clandestinamente dal paese costituiva un atto, anche se
illegale, di coscienza archeologica. Una volta che i Toro ebbero gettate le
basi di una piccola fortuna, Abigail pretese di fondare una stirpe e convinse
Domingo della necessità di avere un bell'appellativo. “Che cosa ha di male il
nostro?” “Nessuno si chiama Toro, è un cognome da taverniere” replicò Abigail.
“È quello di mio padre e non intendo cambiarlo.” “In questo caso dovremo
convincere tutti che siamo ricchi.” Suggerì di comprare terreni e seminare
banani o caffè, come i coloni spagnoli di un tempo, ma a lui non sorrideva
l'idea di trasferirsi nelle province dell'interno, terra selvaggia, esposta a
bande di ladroni, all'esercito e ai guerriglieri, alle vipere e ogni sorta di
pestilenza; riteneva che fosse una stupidaggine partire per la selva in cerca
di un futuro, mentre questo si trovava a portata di mano nel pieno centro della
capitale, era più sicuro dedicarsi al commercio, come le migliaia di siriani e
di ebrei che erano sbarcati con uno zaino di miserie sulle spalle e in capo a
pochi anni vivevano agiatamente. “Niente turcherie. Quello che voglio è una
famiglia rispettabile, che ci chiamino don e donna e nessuno si azzardi a
rivolgerci la parola con il cappello in testa” disse lei. Ma lui insistette e
lei finì per adattarsi alla sua decisione, come faceva quasi sempre, perché
quando gli si metteva contro suo marito la mortificava con lunghi periodi di
astinenza e di silenzio. In quelle occasioni lui spariva di casa per diversi
giorni, rientrava malconcio d'amori clandestini, si cambiava d'abito e usciva
di nuovo, lasciando Abigail dapprima furiosa e poi terrorizzata dall'idea di
perderlo. Lei era una persona pratica, mancava completamente di sentimenti
romantici e se c'era mai stata in lei qualche traccia di tenerezza gli anni di
disonestà l'avevano distrutta, ma Domingo era l'unico uomo che poteva tollerare
accanto a sé e non era disposta a lasciarlo andare. Appena Abigail cedeva, lui
tornava a dormire nel suo letto. Non c'erano riconciliazioni clamorose,
semplicemente riprendevano il ritmo della routine e tornavano alla complicità
delle loro truffe. Domingo Toro creò una catena di negozi d'abbigliamento nei
quartieri poveri, dove vendeva a prezzi bassissimi ma in grandi quantità. I
negozi gli servivano da schermo per altri affari meno puliti. Il denaro
continuò ad accumularsi e poterono pagarsi stravaganze da ricchi, ma Abigail
non era soddisfatta, perché si rese conto che una cosa era vivere nel lusso e
un'altra ben diversa essere accettati in società. “Se tu mi avessi dato retta,
non ci prenderebbero per mercanti arabi. Ma metterti a vendere stracci!”
rimproverò al marito. “Non Capisco di cosa ti lamenti, abbiamo tutto.”
“Continua pure con i tuoi bazar da poveracci, se è questo che vuoi, ma io mi
compro dei cavalli da corsa.” “Cavalli? Cosa vuoi saperne tu di cavalli,
donna?” “So che sono eleganti, tutta la gente importante possiede cavalli.”
“Finiremo in rovina!” Per una volta Abigail riuscì a imporre la sua volontà, e
poco dopo convennero che non era stata una cattiva idea. Gli animali diedero
loro pretesti per frequentare le antiche famiglie di allevatori e per di più
risultarono redditizi, ma benché i Toro comparissero di frequente sulle pagine
ippiche della stampa, non figuravano mai nella cronaca sociale. Indispettita,
Abigail si diede sempre più all'ostentazione. Commissionò un servizio di
porcellana col suo ritratto dipinto a mano su ogni pezzo, coppe di cristallo
intagliato e mobili con mascheroni furiosi alle zampe, oltre a una logora
poltrona che fece passare come reliquia coloniale, dicendo a tutti che era
appartenuta al Liberatore, ragion per cui le legò un cordone rosso davanti
affinché nessuno potesse posare le natiche dove erano state quelle del Padre
della Patria. Assunse un'istitutrice tedesca per i figli e un vagabondo
olandese che vestì da ammiraglio per capitanare lo yacht di famiglia. Le uniche
vestigia del passato erano i tatuaggi da filibustiere di Domingo e una lesione
alla spalla di Abigail, conseguenza dei serpeggiamenti a gambe aperte ai suoi tempi
di barbarie; ma lui si copriva i tatuaggi con le maniche lunghe e lei si fece
fabbricare un busto di ferro con cuscinetti di seta per impedire che il dolore
le fiaccasse la dignità. Era allora un donnone obeso, coperto di gioielli,
somigliante a Nerone. L'ambizione la marchiò con i danni fisici che le
avventure nella selva non erano riuscite a imprimerle. Nell'intenzione di
attirare la società più scelta, i Toro davano ogni anno per carnevale un ballo
mascherato. la corte di Baghdad con l'elefante e i cammelli del giardino
zoologico e un esercito di camerieri vestiti da beduini, il Ballo di
Versailles, in cui gli invitati con vesti di broccato e parrucche incipriate
danzarono minuetti fra specchi obliqui; e altre feste scandalose che entrarono
a far parte delle leggende locali e originarono violente diatribe sui giornali
di sinistra. Dovettero appostare guardie attorno alla casa per impedire che gli
studenti, indignati dallo sperpero, dipingessero slogan sulle colonne e
lanciassero cacca dentro le finestre, allegando che i nuovi ricchi riempivano
le vasche da bagno di champagne mentre i nuovi poveri davano la caccia ai gatti
randagi per mangiarseli. Quegli sperperi diedero loro una certa rispettabilità,
perché in quel momento la linea che divideva le classi sociali si andava
sfumando, nel paese arrivava gente da tutti gli angoli della terra attirata dai
miasmi del petrolio, la capitale cresceva senza controllo, le fortune si
facevano e si perdevano in un batter d'occhio e non c'era la possibilità di
accertare l'origine di ciascuno. Tuttavia le famiglie di illustre prosapia
tenevano i Toro a distanza, benché loro stessi discendessero da altri
immigranti il cui unico merito era stato di arrivare su queste coste con mezzo
secolo d'anticipo. Partecipavano ai banchetti di Domingo e Abigail e qualche
volta vagabondavano per il mar dei Caraibi sullo yacht timonato dalla sicura
mano del capitano olandese, ma non ricambiavano le cortesie ricevute. Forse
Abigail avrebbe dovuto rassegnarsi a un secondo piano, se un evento inatteso
non avesse dato una svolta alla sorte. Quel pomeriggio d'agosto Abigail si
svegliò soffocata dalla siesta, faceva un caldo tremendo e l'atmosfera era
carica di presagi di temporale. Si mise un vestito di seta sopra il busto e si
fece portare al salone di bellezza. L'auto percorse le strade intasate dal
traffico con i finestrini chiusi, per evitare che qualche risentito, ce n'erano
ogni giorno di più, sputasse sulla signora, e si fermò alle cinque in punto
davanti al locale, dove Abigail entrò dopo aver detto all'autista di venirla a
prendere un'ora più tardi. Quando l'uomo tornò a cercarla, Abigail non c'era.
Le parrucchiere dissero che cinque minuti dopo che era arrivata la signora
aveva detto che usciva un attimo per un impegno, ma non era più tornata.
Intanto Domingo Toro riceveva nel suo ufficio la prima telefonata dei Puma
Rossi, un gruppo estremista di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima, i
quali gli annunciarono di aver sequestrato la moglie. Così ebbe inizio lo
scandalo che salvò il prestigio dei Toro. La polizia fermò l'autista e le
parrucchiere, rastrellò quartieri interi e circondò la dimora dei Toro, con
conseguenti fastidi per i vicini. Un autobus della televisione bloccò la strada
per giorni e una mandria di giornalisti, detective e curiosi calpestò i prati
delle case circostanti. Domingo Toro apparve sullo schermo, seduto nella
poltrona di cuoio della sua biblioteca, tra un mappamondo e una puledra
imbalsamata, implorando i rapitori di restituirgli la madre dei suoi figli. Il
magnate degli stracci, come lo chiamò la stampa, offrì un milione per sua
moglie, cifra molto esagerata, perché un altro gruppo guerrigliero aveva
ottenuto solo la metà per un ambasciatore del Medio Oriente. Tuttavia ai Puma
Rossi non parve abbastanza, e chiesero il doppio. Dopo aver visto la fotografia
di Abigail sui giornali, molti pensarono che Domingo avrebbe fatto un affare
pagando quella cifra non per recuperare la consorte, ma perché i rapitori se la
tenessero. Un'esclamazione incredula percorse il paese quando il marito, dopo
alcune consultazioni con banchieri e avvocati, accettò la richiesta, malgrado
gli avvertimenti della polizia. Qualche ora prima di consegnare la somma
stabilita ricevette per posta una ciocca di capelli rossi e un biglietto in cui
si diceva che il prezzo era aumentato di un altro quarto di milione. Allora
anche i figli dei Toro apparvero alla televisione lanciando messaggi di
disperazione filiale ad Abigail. La macabra asta andò salendo di tono di giorno
in giorno, sotto gli occhi attenti della stampa. La suspense finì cinque giorni
più tardi, proprio quando la curiosità del pubblico cominciava a volgersi verso
altre direzioni. Abigail ricomparve legata e imbavagliata in un'auto
parcheggiata in pieno centro, un po' nervosa e spettinata ma senza danni
visibili, e perfino leggermente ingrassata. Il giorno in cui Abigail tornò a
casa una piccola folla si radunò in strada per applaudire quel marito che aveva
dato tale prova d'amore. Dinanzi all'assedio dei giornalisti e alle esigenze della
polizia, Domingo Toro assunse un atteggiamento di discreta galanteria,
rifiutandosi di rivelare quanto aveva pagato con l'argomentazione che sua
moglie non aveva prezzo. L'esagerazione popolare gli attribuì una cifra del
tutto improbabile, molto più di quanto qualsiasi uomo abbia mai pagato per una
donna, e meno che mai per la sua. Il che tramutò i Toro in un simbolo di
opulenza, si disse che erano ricchi come il Presidente, che aveva beneficiato
per anni degli introiti petroliferi della Nazione e la cui fortuna era
calcolata tra le cinque più grandi del mondo. Domingo e Abigail furono elevati
all'alta società, alla quale fino allora non avevano avuto accesso. Nulla
offuscò il loro trionfo, neppure le pubbliche proteste degli studenti, che
appesero striscioni all'Università accusando Abigail di essersi sequestrata da
sola, il magnate di aver tirato fuori i soldi da una tasca per metterli in
un'altra senza pagare tasse, e la polizia di aver fatto finta di bere la storia
dei Puma Rossi per spaventare la gente e giustificare le purghe contro i
partiti d'opposizione. Ma le malelingue non riuscirono a distruggere il
magnifico effetto del sequestro, e un decennio più tardi i Toro McGovern erano
diventati una delle famiglie più rispettabili del paese.
VITA INTERMINABILE.
Ci sono storie d'ogni genere. Alcune nascono quando
vengono raccontate, la loro sostanza è il linguaggio, e prima che qualcuno le
metta in parole sono appena un'emozione, un capriccio della mente, un'immagine
o una intangibile reminiscenza. Altre si presentano complete, come mele, e si
possono ripetere all'infinito senza rischiare di alterarne il senso. Ne
esistono prese dalla realtà e lavorate dall'ispirazione, mentre altre nascono
da un istante di ispirazione e diventano realtà nell'essere narrate. E vi sono
storie segrete che rimangono nascoste fra le ombre della memoria, sono come
organismi viventi, ne spuntano radici, tentacoli, si riempiono di escrescenze e
di parassiti e col tempo si trasformano in sostanza d'incubi. A volte per
esorcizzare i demoni di un ricordo è necessario narrarlo come storia. Ana e
Roberto Blaum invecchiarono insieme, talmente uniti che con gli anni finirono
per sembrare fratelli; avevano entrambi la stessa espressione di benevola
sorpresa, uguali rughe, gesticolazioni, curvatura delle spalle; erano ambedue
segnati da abitudini e desideri simili. Avevano condiviso ogni giornata per la
maggior parte della loro vita, e da tanto tenersi per mano e dormire
abbracciati potevano mettersi d'accordo per incontrarsi nello stesso sogno. Non
si erano mai separati da quando si erano conosciuti, mezzo secolo prima. A quei
tempi Roberto studiava medicina e aveva già la passione che determinò la sua
esistenza, lavare il mondo e redimere il prossimo, e Ana era una di quelle
giovani virginali capaci di abbellire ogni cosa col loro candore. Si scoprirono
grazie alla musica. Lei era violinista in una orchestra da camera, e lui, che
proveniva da una famiglia di virtuosi e amava suonare il piano, non perdeva un
solo concerto. Vide sul palcoscenico quella ragazza che indossava un abito di
velluto nero e un colletto di pizzo e suonava il suo strumento con gli occhi
chiusi, e si innamorò di lei a distanza. Passarono mesi prima che si azzardasse
a parlarle, e quando lo fece bastarono quattro frasi perché ambedue
comprendessero di essere destinati a un'unione perfetta. La guerra li sorprese
prima che riuscissero a sposarsi, e come migliaia di ebrei allucinati dal
terrore delle persecuzioni dovettero fuggire dall'Europa. Si imbarcarono in un
porto olandese, unico bagaglio gli abiti che avevano addosso, alcuni libri di
Roberto e il violino di Anna. La nave andò per due anni alla deriva, senza
poter attraccare a nessun molo, perché le nazioni dell'emisfero non vollero
accettare il suo carico di rifugiati. Dopo aver vagato per diversi mari toccò
le coste dei Caraibi. Ormai lo scafo era come un cavolfiore di molluschi e
licheni, l'umidità trasudava all'interno in un gocciolio continuo, le macchine
erano diventate verdi e tutti i marinai e i passeggeri, tranne Ana e Roberto
difesi contro la disperazione dall'illusione dell'amore, erano invecchiati di
duecento anni. Il capitano, rassegnato all'idea di continuare a navigare in
eterno, sostò con la sua carcassa di transatlantico in un gomito della baia, di
fronte a una spiaggia dalle sabbie fosforescenti e dalle palme snelle coronate
di piume, affinché i marinai scendessero nottetempo a procurarsi acqua dolce
per i serbatoi. Ma non andarono oltre. All'alba del giorno seguente fu
impossibile avviare le macchine, corrose dallo sforzo di funzionare con un
miscuglio d'acqua salata e polvere da sparo, in mancanza di combustibili
migliori. A metà mattina comparvero su una lancia le autorità del porto più
vicino, un gruppo di mulatti allegri dall'uniforme sbottonata e dalla miglior
volontà del mondo, che in base al regolamento ordinarono di uscire dalle loro
acque territoriali, ma conosciuta la triste sorte dei naviganti e il
deplorevole stato del piroscafo suggerirono al capitano di restar lì qualche
giorno a prendere il sole, per vedere se a dargli corda i guasti si sistemavano
da soli, come quasi sempre succede. Durante la notte tutti gli abitanti di
quella nave sventurata scesero nelle scialuppe, calcarono le sabbie calde di
quel paese il cui nome riuscivano appena a pronunciare e si persero
addentrandosi nella voluttuosa vegetazione, pronti a tagliarsi la barba, a
spogliarsi dei loro cenci ammuffiti e a scuotersi di dosso i venti oceanici che
gli avevano indurito l'anima. Così Ana e Roberto Blaum iniziarono il loro destino
di immigranti, prima lavorando come operai per sopravvivere; e più tardi,
quando impararono le regole di quella società volubile, misero radici e lui
poté terminare gli studi di medicina interrotti dalla guerra. Si cibavano di
banane e caffè e vivevano in un'umile pensione, in una stanza minuscola la cui
finestra incorniciava un lampione stradale. Di notte Roberto approfittava di
quella luce per studiare e Ana per cucire. Finiti i loro compiti lui si sedeva
a guardare le stelle sopra i tetti vicini, e lei gli suonava al suo violino
antiche melodie, abitudine che conservarono come maniera di chiudere la
giornata. Anni dopo, quando il nome di Blaum divenne celebre, quei tempi di
povertà venivano citati come riferimento romantico nelle prefazioni ai libri o
nelle interviste ai giornali. La sorte li cambiò, ma essi mantennero il loro
atteggiamento di estrema modestia, perché non riuscirono a cancellare le
impronte delle passate sofferenze, né riuscirono a liberarsi della sensazione
di precarietà propria dell'esilio. Avevano entrambi la stessa statura, gli
occhi chiari e la corporatura robusta. Roberto aveva un'aria da scienziato, una
chioma disordinata gli coronava le orecchie, portava lenti spesse con una
montatura rotonda di tartaruga, indossava sempre un abito grigio che sostituiva
con un altro uguale quando Ana rinunciava a rammendare per l'ennesima volta i
polsini, e si appoggiava a una canna di bambù che un amico gli aveva portato
dall'India. Era un uomo di poche parole, preciso nel parlare come in tutto il
resto, ma aveva un delicato senso dell'umorismo che addolciva il peso delle sue
conoscenze. I suoi allievi dovevano ricordarlo come il più buono dei
professori. Ana aveva un carattere allegro e fiducioso, era incapace di
immaginare la malvagità altrui e perciò ne risultava immune. Roberto
riconosceva che sua moglie era dotata di un ammirevole senso pratico, e fin
dall'inizio delegò a lei le decisioni importanti e l'amministrazione del
denaro. Ana curava il marito con vezzeggiamenti da madre, gli tagliava i
capelli e le unghie, badava alla sua salute, al suo cibo e al suo sonno, era
sempre a portata di voce. Talmente indispensabile risultava a entrambi la
compagnia dell'altro che Ana rinunciò alla sua vocazione musicale perché
l'avrebbe costretta a viaggiare spesso, e suonava il violino solo nell'intimità
della casa. Prese l'abitudine di andare con Roberto di sera all'obitorio o alla
biblioteca dell'università, dove lui si immergeva nelle sue ricerche per ore.
Amavano entrambi la solitudine e il silenzio degli edifici chiusi. Poi
rientravano, camminando per le strade vuote fino al quartiere povero in cui si
trovava la loro casa. Con la crescita incontrollata della città quella zona era
diventata un nido di trafficanti, prostitute e ladri, dove neppure le auto
della polizia osavano circolare dopo il tramonto, ma loro l'attraversavano
all'alba senza essere molestati. Tutti li conoscevano. Non c'era malattia né
problema su cui non si chiedesse il parere di Roberto, e nessun bambino del
quartiere era cresciuto senza assaggiare i biscotti di Ana. Agli estranei
qualcuno si incaricava di spiegare subito che per ragioni sentimentali i due
vecchi erano intoccabili. Aggiungevano che i Blaum costituivano un orgoglio per
la Nazione, che il Presidente in persona aveva decorato Roberto, e che erano
talmente rispettabili che neppure la Guardia li molestava quando entrava nella
zona con il suo apparato bellico, spianando le case a una ad una. Io li conobbi
alla fine degli anni Sessanta, quando nella sua follia la mia Madrina si aprì
la gola con un rasoio. La portammo all'ospedale che perdeva sangue a fiotti,
senza che nessuno nutrisse una vera speranza di salvarla, ma avemmo la fortuna
di trovare Roberto Blaum, che procedette tranquillamente a ricucirle la testa
al suo posto. Con grande sorpresa degli altri medici, la mia Madrina si
riprese. Passai molte ore seduta accanto al suo letto durante le settimane
della convalescenza, ed ebbi diverse occasioni di conversare con Roberto. A
poco a poco intrecciammo una solida amicizia. I Blaum non avevano figli e credo
ne sentissero la mancanza, perché col tempo mi trattarono come se io lo fossi.
Andavo a trovarli spesso, raramente di sera, per non avventurarmi da sola in
quei paraggi, e mi festeggiavano con qualche piatto speciale. Mi piaceva
aiutare Roberto in giardino e Ana in cucina. A volte lei prendeva il violino e
mi regalava un paio d'ore di musica. Mi diedero la chiave di casa, e quando
erano in viaggio io badavo al cane e bagnavo le piante. I successi di Roberto
Blaum erano iniziati presto, malgrado il ritardo che la guerra aveva imposto
alla sua carriera. A un'età in cui altri medici cominciavano a praticare la
sala operatoria, lui aveva già pubblicato alcuni saggi notevoli, ma la sua
notorietà ebbe inizio con la pubblicazione del suo libro sul diritto a una
morte serena. Non lo tentava la medicina privata, salvo quando si trattava di
qualche amico o vicino, e preferiva praticare il mestiere negli ospedali per
indigenti, dove poteva curare un maggior numero di malati e imparare ogni
giorno qualcosa di nuovo. Lunghi turni presso i reparti dei moribondi gli
ispirarono una compassione per quei corpi fragili incatenati ai macchinari per
vivere, con il supplizio di aghi e cerotti, ai quali la scienza negava una fine
degna con il pretesto che si deve mantenere il soffio vitale a qualsiasi costo.
Soffriva di non poterli aiutare a lasciare questo mondo e di essere costretto
invece a trattenerli contro la loro volontà, agonizzanti nei loro letti. In
alcune occasioni il tormento imposto a uno dei suoi malati gli diventava
talmente insopportabile che non riusciva a toglierselo dalla mente neppure per
un istante. Ana doveva svegliarlo, perché urlava nel sonno. Nel rifugio delle
lenzuola lui si stringeva alla moglie, il volto affondato nel suo seno,
disperato. “Perché non stacchi i tubi e non fai cessare le sofferenze di quel
povero infelice? È la cosa più pietosa che tu possa fare. Morirà comunque,
presto o tardi...” “Non posso, Ana. La legge è molto chiara, nessuno ha il
diritto di decidere sulla vita di un altro, ma per me questo è un problema di
coscienza.” “Ci siamo passati altre volte, e ogni volta soffri di nuovo degli
stessi rimorsi. Nessuno lo saprà, sarà questione di un paio di minuti.” Se in
qualche occasione Roberto lo fece, solo Ana lo seppe. Il suo libro proponeva
l'idea che la morte, con la sua carica ancestrale di terrori, non è che
l'abbandono di una spoglia inservibile, mentre lo spirito si reintegra
nell'energia unica del cosmo. L'agonia, come la nascita, è una tappa del
viaggio e merita la stessa misericordia. Non c'è alcuna virtù nel prolungare
battiti e tremiti di un corpo al di là della fine naturale, e il compito del
medico deve essere di facilitare il decesso, invece di contribuire alla molesta
burocrazia della morte. Ma tale decisione non poteva dipendere solo dal
discernimento dei professionisti o dalla misericordia dei parenti, era
necessario che la legge indicasse un criterio. La proposta di Blaum provocò un
tumulto di sacerdoti, avvocati e dottori. Presto il problema trascese gli
ambienti scientifici e invase la strada, dividendo i pareri. Per la prima volta
qualcuno parlava di quel tema, fino allora la morte era una faccenda taciuta,
si scommetteva sull'immortalità, ciascuno con la segreta speranza di vivere per
sempre. Finché la discussione si mantenne su un livello filosofico, Roberto
Blaum si presentò in tutti i fori per sostenere la propria tesi, ma quando
divenne un ennesimo divertimento per le masse lui si rifugiò nel suo lavoro,
scandalizzato dalla spudoratezza con cui avevano sfruttato la sua teoria per
fini commerciali. La morte passò in primo piano, spogliata di ogni realtà e
trasformata in un allegro motivo di moda. Una parte della stampa accusò Blaum
di promuovere l'eutanasia e paragonò le sue idee a quelle dei nazisti, mentre
un'altra parte lo acclamò come un santo. Lui ignorò l'agitazione e continuò le
sue ricerche e il suo lavoro all'ospedale. Il suo libro fu tradotto in varie
lingue e si diffuse in altri paesi, dove il problema provocò reazioni
ugualmente appassionate. La sua foto compariva di frequente sulle riviste
scientifiche. Quell'anno gli offrirono una cattedra alla Facoltà di Medicina e
presto divenne il professore più richiesto dagli studenti. Non v'era traccia di
arroganza in Roberto Blaum, neppure il fanatismo esultante degli amministratori
delle rivelazioni divine, ma solo la tranquilla sicurezza degli studiosi. Più
cresceva la fama di Roberto, più la vita dei Blaum si faceva chiusa. L'impatto
di quella breve celebrità li spaventò, e finirono per ammettere pochissima
gente nella loro cerchia intima. La teoria di Roberto fu dimenticata dal
pubblico con la stessa rapidità con la quale era diventata di moda. La legge
non fu cambiata, e il problema non fu neppure discusso in Parlamento, ma
nell'ambito accademico e scientifico il prestigio del medico aumentò. Nei
trent'anni che seguirono Blaum formò diverse generazioni di chirurghi, scoprì
nuovi medicinali e tecniche chirurgiche e organizzò un sistema di consultori
ambulanti, camionette, imbarcazioni e aerei equipaggiati con tutto il
necessario per far fronte sia ai parti sia alle epidemie che percorrevano tutto
il territorio nazionale, portando soccorso fino alle zone più remote, dove
prima avevano messo piede solo i missionari. Ottenne innumerevoli premi, fu
Rettore dell'Università per un decennio e Ministro della Sanità per due
settimane, il tempo che gli ci volle per raccogliere le prove della corruzione
amministrativa e dello spreco delle risorse e presentarle al Presidente, il
quale non ebbe altra scelta che destituirlo, perché non era il caso di scuotere
le fondamenta del governo per far piacere a un idealista. In quei decenni Blaum
continuò le ricerche sui moribondi. Pubblicò diversi articoli sull'obbligo di
dire la verità ai malati gravi, perché avessero il tempo di prepararsi l'anima
e non se ne andassero paralizzati dalla sorpresa di morire, e sul rispetto
dovuto ai suicidi e sulla maniera di metter fine alla propria vita senza dolori
né drammi inutili. Il nome di Blaum fu di nuovo sulle labbra di tutti quando
venne pubblicato il suo ultimo libro, che non solo scosse la scienza
tradizionale ma provocò una valanga di illusioni in tutto il paese. Nella sua
lunga esperienza negli ospedali Roberto aveva curato innumerevoli malati di
cancro, e osservato che mentre alcuni venivano sconfitti dalla morte, con lo
stesso trattamento altri sopravvivevano. Nel suo libro Roberto tentava di
dimostrare il rapporto tra il cancro e lo stato d'animo, e assicurava che la
tristezza e la solitudine facilitano la moltiplicazione delle cellule fatali,
perché quando il malato è depresso le difese del corpo si abbassano; invece se
ha buone ragioni per vivere il suo organismo lotta senza tregua contro il male.
Spiegava che la cura pertanto non può limitarsi alla chirurgia o alle risorse
della farmaceutica e della chimica, che attaccano solo le manifestazioni
fisiche, ma deve contemplare soprattutto le condizioni di spirito. L'ultimo
capitolo suggeriva che la miglior disposizione si trova in coloro che contano
su un buon coniuge o qualche altra forma di affetto, perché l'amore ha un
effetto benefico che neanche le medicine più potenti possono superare. La
stampa colse immediatamente le fantastiche possibilità di questa teoria e mise
in bocca a Blaum cose che non aveva mai detto. Se prima la morte aveva causato
una sensazione inusitata, in questa occasione una cosa parimenti naturale fu
trattata come una novità. Attribuirono all'amore virtù da Pietra Filosofale e
dissero che poteva curare tutti i mali. Tutti parlavano del libro, ma pochissimi
l'avevano letto. La semplice supposizione che l'affetto può contribuire alla
salute si complicò nella misura in cui tutti vollero aggiungere o togliere
qualcosa, finché l'idea originale di Blaum si perse in un intrico di assurdità,
creando una confusione colossale nel pubblico. Non mancarono i furbi che
cercarono di trar profitto dalla cosa, impadronendosi dell'amore come fosse una
loro invenzione. Proliferarono nuove sette esoteriche, scuole di psicologia,
corsi per principianti, club per solitari, pillole dell'attrazione infallibile,
profumi conquistatori e un'infinità di indovini da quattro soldi che usarono
tarocchi e sfere di cristallo per vendere sentimenti. Appena scoprirono che Ana
e Roberto Blaum erano una coppia di vecchietti commoventi, che erano rimasti
uniti per molto tempo e serbavano intatte le forze del corpo, le facoltà
mentali e la qualità del loro amore, li trasformarono in esempi viventi. A
parte gli scienziati che analizzarono il libro fino all'esaurimento, gli unici
che lo lessero senza propositi sensazionalistici furono i malati di cancro; ma
per loro la speranza di una cura definitiva si tramutò in una beffa atroce,
perché in verità nessuno poteva indicargli dove trovare l'amore, come ottenerlo
e meno ancora come conservarlo. Anche se forse l'idea di Blaum non mancava di
logica, in pratica risultava inapplicabile. Roberto era costernato dalle
dimensioni dello scandalo, ma Ana gli ricordò quanto era accaduto prima e lo
convinse che era questione di sedersi ad aspettare un poco, perché la bolla di
sapone non sarebbe durata molto. Così accadde. I Blaum non erano in città
quando il clamore si sgonfiò. Roberto si era ritirato dal suo incarico
all'ospedale e all'università, col pretesto che era stanco e ormai aveva l'età
per fare una vita più tranquilla. Ma non riuscì a mantenersi estraneo alla
propria celebrità, la sua casa era invasa da malati supplichevoli, giornalisti,
studenti, professori e curiosi che si presentavano a ogni istante. Mi disse che
aveva bisogno di silenzio, perché voleva scrivere un altro libro, e lo aiutai a
cercare un luogo appartato in cui rifugiarsi. Trovammo un'abitazione a La
Colonia, uno strano villaggio incastonato su un monte tropicale, replica di
qualche paesello bavarese dell'Ottocento, un delirio architettonico di case di
legno dipinto, orologi a cucù, vasi di gerani e insegne in caratteri gotici,
abitato da una razza di gente bionda con gli stessi abiti tirolesi e le stesse
guance rubiconde che avevano portato lì i bisnonni quando emigrarono dalla Foresta
Nera. Benché La Colonia fosse già allora l'attrazione turistica che è oggi,
Roberto poté affittare una villa isolata dove non arrivava il traffico del fine
settimana. Mi chiesero di occuparmi delle loro faccende nella capitale, io
ritiravo le loro pensioni, le fatture, la posta. All'inizio andavo a trovarli
di frequente, ma presto mi resi conto che in mia presenza mantenevano una
cordialità un po' forzata, molto diversa dal caloroso benvenuto che prima mi
prodigavano. Non pensai che avessero qualcosa contro di me, ho sempre contato
sulla loro fiducia e sulla loro stima, dedussi semplicemente che desideravano
stare soli e preferii comunicare per telefono e per corrispondenza. Quando
Roberto Blaum mi chiamò per l'ultima volta non lo vedevo da un anno. Parlavo
pochissimo con lui, ma facevo lunghe chiacchierate con Ana. Io le davo notizie
del mondo e lei mi raccontava del suo passato, che sembrava diventasse sempre
più vivido per lei, come se tutti i ricordi di un tempo facessero parte del suo
presente nel silenzio che ora la circondava. A volte mi faceva pervenire con
mezzi diversi biscotti d'avena che sfornava per me e sacchetti di lavanda per
profumare gli armadi. Negli ultimi mesi mi mandava anche delicati regali: un
fazzoletto che le aveva dato suo marito molti anni prima, fotografie della sua
giovinezza, un fermaglio antico. Suppongo che questo, oltre al desiderio di
tenermi lontana e al fatto che Roberto evitava di parlare del libro in
preparazione, avrebbe dovuto darmi la chiave, ma in realtà non immaginai quello
che stava succedendo in quella casa fra i monti. Più tardi, quando lessi il
diario di Ana, mi resi conto che Roberto non aveva scritto una sola riga. Per
tutto quel tempo si era dedicato completamente ad amare la moglie, ma questo
non riuscì a deviare il corso degli eventi. Nei week-end il viaggio a La
Colonia si trasforma in un pellegrinaggio di auto dai motori roventi che
procedono di un metro alla volta, ma negli altri giorni, soprattutto durante la
stagione delle piogge, è una passeggiata solitaria su una strada dalle curve a
gomito che taglia le cime dei monti, tra abissi sorprendenti e boschi di canne
e di palme. Quel giorno c'erano nubi intrappolate fra le colline e il paesaggio
sembrava di cotone. La pioggia aveva tacitato gli uccelli e non si sentiva
altro che il rumore dell'acqua sui finestrini. Salendo l'aria rinfrescò, e
sentii il temporale sospeso nella nebbia, come il clima di un'altra latitudine.
Improvvisamente, a una curva della strada, apparve il villaggio dall'aspetto
germanico, con i suoi tetti inclinati per sopportare una neve che non sarebbe
mai caduta. Per arrivare dai Blaum bisognava attraversare tutto il paese, che a
quell'ora sembrava deserto. La loro casa era simile a tutte le altre, di legno
scuro, con grondaie intagliate e finestre dalle tendine di pizzo; davanti
fioriva un giardino ben curato e dietro si stendeva un piccolo orto di fragole.
Tirava un ventaccio freddo che sibilava tra gli alberi, ma non vidi fumo uscire
dal camino. Il cane, che li aveva accompagnati per anni, era sdraiato sotto il
portico e non si mosse quando lo chiamai, alzò la testa e mi guardò senza
scodinzolare, come se non mi avesse riconosciuto, ma mi seguì quando aprii la
porta, che non era chiusa a chiave, e varcai la soglia. Era buio. Tastai la parete
in cerca dell'interruttore e accesi la luce. Tutto era in ordine, c'erano rami
freschi di eucaliptus nei vasi, che riempivano l'aria di un odore pulito.
Attraversai la sala di quella casa affittata, dove nulla denunciava la presenza
dei Blaum salvo le pile di libri e il violino, e mi stupii che in un anno e
mezzo i miei amici non avessero imposto la loro personalità al luogo in cui
vivevano. Salii la scala dell'attico, dove c'era la camera da letto principale,
un'ampia stanza dall'alto soffitto di travi rustiche, carta da parati stinta e
mobili ordinari di vago stile provenzale. Un abat-jour illuminava il letto, sul
quale giaceva Ana, con il vestito di seta blu e la collana di coralli che tante
volte le avevo visto portare. Aveva nella morte la stessa espressione di
innocenza che si vede nella foto del suo matrimonio, scattata tanto tempo
prima, quando il comandante della nave la sposò con Roberto a settanta miglia
dalla costa, in quello splendido pomeriggio in cui i pesci volanti erano usciti
dal mare per annunciare ai rifugiati che la terra promessa era vicina. Il cane
che mi aveva seguito si accoccolò in un angolo gemendo dolcemente. Sul
comodino, accanto a un ricamo incompiuto e al diario di Ana, trovai un
biglietto di Roberto per me, in cui mi chiedeva di prendermi cura del cane e di
seppellirli nella stessa bara nel cimitero di quel villaggio da favola. Avevano
deciso di morire insieme, perché lei aveva un cancro all'ultimo stadio e
preferivano fare un'altra tappa mano nella mano, come avevano sempre fatto,
perché nell'istante fugace in cui lo spirito si distacca non corressero il
rischio di perdersi in qualche recesso del vasto universo. Perlustrai la casa
in cerca di Roberto. Lo trovai in una piccola stanza dietro la cucina, dove
aveva il suo studio, seduto davanti a una scrivania di legno chiaro, con la
testa fra le mani, singhiozzante. Sul tavolo c'era la siringa con cui aveva
iniettato il veleno alla moglie, ora con la dose destinata a lui. Gli
accarezzai la nuca, alzò gli occhi e mi guardò a lungo. Suppongo che avesse
voluto evitare ad Ana le sofferenze della fine e avesse preparato la dipartita
di entrambi in modo che nulla alterasse la serenità di quell'istante; pulì la
casa, mise i fiori nei vasi, vestì e pettinò la moglie, e quando tutto fu pronto
le fece l'iniezione. Consolandola con la promessa che pochi minuti dopo si
sarebbe riunito a lei, si stese al suo fianco e l'abbracciò finché fu certo che
non viveva più. Riempì di nuovo la siringa, si arrotolò la manica della camicia
e cercò la vena, ma le cose non andarono come le aveva programmate. Allora mi
chiamò. “Non posso farlo, Eva. Solo a te posso chiederlo... Per favore, aiutami
a morire.
UN DISCRETO MIRACOLO.
La famiglia Boulton traeva origine da un commerciante di
Liverpool che era emigrato a metà dell'Ottocento con la propria ambizione come
unico bene, e divenne ricco con una flotta di navi da carico nel paese più
australe e lontano del mondo. I Boulton erano membri eminenti della colonia
britannica, e come tanti inglesi fuori dalla loro isola, conservarono
tradizioni e lingua con una tenacia assurda, finché l'incrocio con sangue
creolo non infranse la loro arroganza e sostituì i nomi anglosassoni con altri
più meticci. Gilberto, Filomena e Miguel nacquero all'apogeo della fortuna dei
Boulton, ma nel corso delle loro vite videro declinare il traffico marittimo e
sfumare una parte sostanziale dei loro introiti. Benché non fossero più ricchi,
riuscirono a conservare il loro stile di vita. Era difficile incontrare tre
persone di aspetto e carattere più diverso di quei tre fratelli. Nella
vecchiaia le caratteristiche distintive di ciascuno si accentuarono, ma
malgrado le apparenti differenze le loro anime coincidevano fondamentalmente.
Gilberto era un poeta ultrasettantenne, dai tratti delicati e portamento da
ballerino, la cui esistenza era trascorsa aliena alle difficoltà materiali, fra
libri d'arte e antichità. Era l'unico dei fratelli ad esser stato educato in
Inghilterra, esperienza che lo segnò profondamente. Gli rimase per sempre il
vizio del tè. Non si sposò mai, perché non incontrò a tempo debito la giovane
pallida che spesso si mostrava nei suoi versi giovanili, e quando rinunciò a
quella illusione era ormai troppo tardi, perché le sue abitudini da scapolo
erano molto radicate. Irrideva ai propri occhi azzurri, ai capelli gialli e
all'antenato, dicendo che quasi tutti i Boulton erano volgari mercanti che
nello sforzo di fingersi aristocratici avevano finito per convincersi di
esserlo veramente. Tuttavia indossava giacche di tweed con toppe di pelle ai
gomiti, giocava a bridge, leggeva il “Times” con tre settimane di ritardo e
coltivava l'ironia e la flemma attribuite agli intellettuali britannici.
Filomena, rotonda e semplice come una contadina, era vedova e nonna di svariati
nipoti. Era dotata di una grande tolleranza che le permetteva di accettare
tanto le velleità anglofile di Gilberto quanto il fatto che Miguel andasse in
giro con le scarpe sfondate e il colletto della camicia sfilacciato. Era sempre
disposta a curare gli acciacchi di Gilberto o a sentirlo recitare i suoi strani
versi, e a collaborare agli innumerevoli progetti di Miguel. Sferruzzava
instancabilmente maglioni per il fratello minore, che questi si metteva un paio
di volte e poi regalava a un altro più bisognoso. I ferri da maglia erano un
prolungamento delle sue mani, si muovevano con un ritmo irrequieto, un tic-tac
continuo che annunciava la sua presenza e l'accompagnava sempre, come l'aroma
della sua colonia al gelsomino. Miguel Boulton era sacerdote. A differenza dei
fratelli era risultato bruno, di bassa statura, quasi interamente ricoperto da
un vello nero che gli avrebbe dato un aspetto bestiale se il suo volto non
fosse stato così mite. Aveva abbandonato le comodità della residenza familiare
a diciassette anni, e vi rientrava solo per partecipare ai pranzi domenicali
con i parenti o perché Filomena lo curasse nelle rare occasioni in cui si
ammalava seriamente. Non sentiva la minima nostalgia per gli agi della sua
gioventù, e malgrado gli attacchi di malumore si considerava un uomo fortunato
ed era contento della propria esistenza. Viveva presso la Discarica Municipale,
in un miserabile sobborgo all'estrema periferia della capitale, dove le strade
erano prive di pavimentazione, di marciapiedi e di alberi. La sua abitazione
era fatta di assi e lastre di zinco. A volte, d'estate, dal pavimento uscivano
fetide esalazioni dei gas che si infiltravano sottoterra dai depositi di
spazzatura. L'arredamento consisteva di una branda, un tavolo, due sedie e
mensole per i libri, e le pareti erano coperte di manifesti rivoluzionari,
croci di ottone fabbricate dai prigionieri politici, modesti arazzi ricamati
dalle madri dei desaparecidos e bandierine della sua squadra di calcio
favorita. Accanto al crocefisso, dove ogni mattina si comunicava da solo e ogni
sera ringraziava Dio per la fortuna di essere ancora vivo, pendeva una bandiera
rossa. Padre Miguel era uno di quegli individui segnati dalla terribile
passione della giustizia. Nella sua lunga vita aveva accumulato tanta sofferenza
altrui che era incapace di pensare al proprio dolore, il che, sommato alla
certezza di operare in nome di Dio, lo rendeva temerario. Ogni volta che i
militari gli spianavano la casa e se lo portavano via accusandolo di
sovversione dovevano imbavagliarlo, perché neanche a manganellate riuscivano a
impedire che li sommergesse di insulti intercalati a citazioni del Vangelo. Era
stato arrestato talmente spesso, aveva fatto tanti scioperi di solidarietà con
i detenuti e ospitato tanti perseguitati che secondo le leggi della probabilità
avrebbe già dovuto essere morto diverse volte. La sua fotografia, seduto
davanti a una sede della polizia politica con un cartello annunciante che colà
si torturava, fu diffusa in tutto il mondo. Non c'era punizione capace di impaurirlo,
ma non osarono farlo sparire come tanti altri perché era troppo conosciuto. Di
sera, quando si piazzava davanti al suo piccolo altare domestico per conversare
con Dio, dubitava turbato se i suoi unici impulsi fossero l'amore per il
prossimo e l'ansia di giustizia, o se nelle sue azioni non ci fosse anche una
superbia satanica. Quell'uomo, capace di addormentare un bambino cantandogli
ninne-nanne e di passare la notte in bianco curando un malato, non confidava
nella mitezza del proprio cuore. Aveva lottato per tutta la vita contro la
collera, che gli intorbidiva il sangue e lo faceva scoppiare in scatti
incontenibili. Si chiedeva in segreto cosa sarebbe stato di lui se le
circostanze non gli avessero offerto tanti buoni pretesti per sfogarsi. Filomena
viveva in perenne preoccupazione per lui, ma Gilberto opinava che se in quasi
settant'anni di vita sul filo del rasoio non gli era accaduto nulla di troppo
grave, non c'era ragione di preoccuparsi, dato che l'angelo custode di suo
fratello aveva dimostrato di essere molto efficiente. “Gli angeli non esistono.
Sono errori semantici” replicava Miguel. “Non fare l'eretico, mio caro.” “Erano
semplici messaggeri finché san Tommaso d'Aquino non ha inventato tutte quelle
fandonie.” “Non vorrai dirmi che la piuma dell'arcangelo Gabriele che si venera
a Roma proviene dalla coda di un avvoltoio?” rideva Gilberto. “Se non credi
negli angeli non credi a niente. Perché continui a fare il prete? Dovresti
cambiar mestiere” si interponeva Filomena. “Si sono persi secoli a discutere
quante di quelle creature potessero stare sulla capocchia di uno spillo. A che
serve? Non sprecate energie negli angeli, ma nell'aiutare la gente!” Miguel
aveva perso la vista a poco a poco ed era quasi cieco. Dall'occhio destro non
vedeva nulla e dal sinistro pochissimo, non poteva leggere e gli risultava
difficilissimo uscire dal vicinato, perché si perdeva per le strade. Per
muoversi dipendeva sempre più da Filomena. Lei lo accompagnava o gli mandava la
macchina con l'autista, Sebastian Canuto detto El Cuchillo, un ex detenuto che
Miguel aveva fatto uscire dal carcere e rigenerato, e che lavorava per la
famiglia da vent'anni. Con la turbolenza politica degli ultimi anni, El
Cuchillo era diventato la guardia del corpo del sacerdote. Quando si spargeva
la voce di una marcia di protesta, Filomena gli dava la giornata libera e lui
partiva per la baraccopoli di Miguel provvisto di un randello e di un paio di
tirapugni nascosti in tasca. Si appostava in strada ad aspettare che il
sacerdote uscisse e poi lo seguiva a una certa distanza, pronto a difenderlo a
pugni o a trascinarlo in un luogo sicuro se la situazione lo esigeva. Le
nebulosa in cui viveva Miguel gli impediva di rendersi chiaramente conto di
queste manovre di salvataggio, che l'avrebbero fatto infuriare, perché avrebbe
considerato ingiusto disporre di tale protezione mentre gli altri manifestanti
sopportavano manganellate, getti d'acqua e gas. All'avvicinarsi del giorno in
cui Miguel doveva compiere i settant'anni, il suo occhio sinistro ebbe un
versamento e in pochi minuti rimase al buio più completo. Si trovava in chiesa
durante una riunione notturna con i baraccati, parlando della necessità di
organizzarsi contro la Discarica Municipale, perché non si poteva più
continuare a vivere fra tante mosche e odor di putredine. Molti di quegli
uomini stavano dalla parte opposta della religione cattolica, in realtà per
loro non c'erano prove dell'esistenza di Dio, al contrario, i patimenti della
loro vita erano prove inconfutabili che l'universo era un gran casino, ma
anch'essi considerano la parrocchia come il centro naturale della baraccopoli.
La croce che Miguel portava appesa al petto sembrava loro solo un inconveniente
minore, una sorta di stravaganza da vecchio. Il sacerdote passeggiava parlando,
com'era sua abitudine, quando d'un tratto si sentì partire al galoppo le tempie
e il cuore, mentre tutto il corpo si bagnava d'un sudore appiccicoso. Lo
attribuì al calore della discussione, si passò la manica sulla fronte e per un
momento chiuse gli occhi. Riaprendoli credette di essere sprofondato in un
gorgo in fondo al mare, percepiva solo ondate profonde, macchie, nero su nero.
Tese un braccio in cerca d'appoggio. “Hanno tagliato la luce” disse, pensando a
un altro sabotaggio. I suoi amici lo attorniarono spaventati. Padre Boulton era
un compagno formidabile, che aveva vissuto fra loro da quando riuscivano a
ricordare. Fino allora l'avevano creduto invincibile, un omone forte e
muscoloso con un vocione da sergente e mani da muratore che si univano nella
preghiera ma che in realtà parevano fatte per la lotta. D'un tratto compresero
quanto fosse logorato, lo videro ingobbito e piccolo, un bimbo pieno di rughe.
Un coro di donne improvvisò le prime cure, lo costrinsero a stendersi a terra,
gli misero panni bagnati in testa, gli diedero da bere vino caldo, gli
massaggiarono i piedi, ma nulla sortì qualche effetto; al contrario, con tante
manipolazioni l'infermo stava perdendo il fiato. Finalmente Miguel riuscì a
togliersi di dosso la gente e a rimettersi in piedi, pronto ad affrontare
quella nuova disgrazia faccia a faccia. “Son fregato” disse senza perdere la
calma. “Per favore, chiamate mia sorella e ditele che sono in un guaio, ma non
datele particolari se no si preoccupa.” Poco dopo comparve Sebastian Canuto,
cupo e silenzioso come sempre, annunciando che la signora Filomena non poteva
perdere la puntata della telenovela e che gli mandava un po' di denaro e una
borsa di provviste per la sua gente. “Stavolta non si tratta di questo,
Cuchillo, credo di essere diventato cieco.” L'uomo lo fece salire sull'auto e
senza far domande se lo portò attraverso tutta la città fino alla dimora dei
Boulton, che si ergeva piena di eleganza in mezzo a un parco un po' trascurato
ma ancora signorile. Convocò tutti gli abitanti della casa a colpi di clacson,
aiutò l'infermo a scendere e lo trasportò quasi in braccio, commosso dal
sentirlo così leggero e così docile; La sua faccia truce da pregiudicato era
bagnata di lacrime quando diede la notizia a Gilberto e Filomena. “Quella troia
di mia madre, don Miguelito è diventato cieco. Ci mancava solo questa” pianse
l'autista senza riuscire a trattenersi. “Non dire parolacce davanti al poeta”
disse il sacerdote. “Mettilo a letto, Cuchillo” ordinò Filomena. “Non è grave,
avrà preso freddo. Lo vedi, vai sempre in giro senza maglia!” “Il tempo si è
fermato / notte e giorno è sempre inverno / e v'è un puro silenzio / di antenne
nel nero...” Incominciò a improvvisare Gilberto. “Di' alla cuoca di preparare
un brodo di pollo” lo fece tacere sua sorella. Il medico di famiglia determinò
che non si trattava di un colpo di freddo e raccomandò di far visitare Miguel
da un oftalmologo. Il giorno seguente, dopo un'appassionata perorazione sulla
salute, dono di Dio e diritto del popolo, che l'infame sistema imperante aveva
ridotto a privilegio di una casta, il malato accettò di andare da uno
specialista. Sebastian Canuto condusse i tre fratelli all'Ospedale Sud, unico
approvato da Miguel, perché là si curavano i più poveri tra i poveri.
Quell'improvvisa cecità aveva messo il sacerdote di pessimo umore, non riusciva
a capire il disegno divino che faceva di lui un invalido proprio quando i suoi
servigi erano più necessari. Della rassegnazione cristiana non si ricordò
affatto. Fin dall'inizio si rifiutò di essere guidato o sostenuto, preferiva
camminare a tentoni, anche a rischio di spaccarsi una gamba, non tanto per
orgoglio quanto per abituarsi con la maggior rapidità possibile a quella nuova
limitazione. Filomena diede segrete istruzioni all'autista di mutar rotta e
portarli alla Clinica Tedesca, ma suo fratello, che conosceva troppo bene
l'odore della miseria, ebbe dei sospetti appena varcarono la soglia
dell'edificio e se li vide confermare quando sentì musica nell'ascensore.
Dovettero farlo uscire in gran fretta, prima che scatenasse un pandemonio.
All'ospedale aspettarono per quattro ore, tempo che Miguel utilizzò per
indagare sulle disgrazie degli altri pazienti della sala d'attesa, Filomena per
iniziare un'altra maglia e Gilberto per comporre la poesia sulle antenne nel
nero che gli era affiorato in cuore il giorno precedente. “L'occhio destro è
andato, e per restituire una visione benché minima al sinistro bisognerebbe
operarlo di nuovo” disse il medico che finalmente lo visitò. “Ha già subìto tre
operazioni e i tessuti sono molto debilitati, il che richiede tecniche e
strumenti particolari. Credo che l'unico posto dove possano tentare sia
l'Ospedale Militare...” “Mai!” lo interruppe Miguel. “Non metterò mai piede in
quell'antro di gorilla!” Sorpreso, il medico strizzò l'occhio all'infermiera in
segno di scusa, che gli restituì la strizzatina con un sorriso complice. “Non
fare il maniaco, Miguel. Sarà al massimo per un paio di giorni, non credo che
questo sia un tradimento dei tuoi princìpi. Nessuno va all'inferno per questo!”
disse Filomena, ma suo fratello replicò che preferiva rimanere cieco per il
resto dei suoi giorni che dare ai militari la soddisfazione di ridargli la
vista. Sulla porta il medico lo trattenne un istante per il braccio. “Senta, Padre...
Ha sentito parlare della clinica dell'Opus Dei? Anche lì hanno mezzi
modernissimi.” “Opus Dei?” esclamò il prete. “Ha detto Opus Dei?” Filomena
tentò di trascinarlo fuori dall'ambulatorio, “la lui si afferrò allo stipite
per informare il dottore che neppure a quella gente sarebbe andato a chiedere
un favore. “Ma come... non sono cattolici?” “Sono farisei reazionari.” “Scusi”
balbettò il medico. Salito in auto, Miguel propinò ai fratelli e all'autista
che l'Opus Dei era un'organizzazione fatidica, più impegnata a tranquillizzare
la coscienza delle classi superiori che a soccorrere coloro che muoiono di
fame, e che più facilmente passa un cammello per la cruna di un ago che un
ricco nel regno dei cieli, o qualcosa del genere. Aggiunse che l'accaduto era una
conferma ulteriore di quanto andassero male le cose, in quel paese dove solo i
privilegiati potevano curarsi dignitosamente e gli altri dovevano accontentarsi
di erbe di misericordia e cataplasmi d'umiliazione. Chiese infine che lo
riportassero subito a casa, perché doveva bagnare i gerani e preparare la
predica domenicale. “Sono d'accordo” commentò Gilberto, depresso dalle ore di
attesa e dalla visione di tante disgrazie e brutture all'ospedale. Non era
abituato a quel genere di cose. “D'accordo su cosa?” chiese Filomena. “Che non
possiamo andare all'Ospedale Militare, sarebbe una porcheria. Ma potremmo dare
un'opportunità all'Opus Dei, non vi sembra?” “Ma cosa stai dicendo!” replicò
suo fratello. “Ti ho già detto cosa penso di loro.” “Diranno che non abbiamo i
soldi per pagare!” aggiunse Filomena, sul punto di perdere la pazienza. “A
chiedere non si perde niente” suggerì Gilberto passandosi il fazzoletto
profumato sul collo. “Quelli sono talmente occupati a spostare soldi da una
banca all'altra e a cucire pianete da preti con fili d'oro che non gli resta il
tempo di vedere i bisogni del prossimo. Il paradiso non si guadagna con le
genuflessioni, ma con...” “Ma voi non siete povero, don Miguelito” interruppe
Sebastian Canuto aggrappato al volante. “Non offendermi, Cuchillo. Sono povero
come te. Gira la macchina e portaci in questa clinica, così proviamo al poeta
che come sempre vive nella luna.” Furono accolti da una signora gentile, che
gli fece riempire un formulario e offrì un caffè. Un quarto d'ora dopo i tre
fratelli entravano nell'ambulatorio. “Anzitutto, dottore, voglio sapere se
anche lei è dell'Opus Dei o se lavora semplicemente qui” disse il sacerdote.
“Appartengo all'Opera” sorrise blandamente il medico. “Quanto costa la visita?”
Il tono del parroco non dissimulava il sarcasmo. “Ha problemi economici,
padre?” “Mi dica quanto.” “Niente, se non può pagare. Le oblazioni sono
volontarie.” Per un attimo Padre Boulton perse la padronanza di sé, ma il suo
sconcerto non durò molto. “Eppure questa non sembra un'opera benefica.” “È una
clinica privata.” “Ecco... quindi ci vengono solo quelli che possono fare
oblazioni.” “Senta, Padre, se non le piace è meglio che se ne vada; ma non se
ne andrà prima che l'abbia visitato” replicò il dottore. “Se vuole mi può portare
tutti i suoi protetti, e qui li cureremo meglio che possiamo; per questo pagano
quelli che hanno i soldi. E adesso non si muova e apra bene gli occhi.” Dopo
una visita meticolosa il medico confermò la diagnosi precedente, ma non si
mostrò ottimista. “Qui abbiamo un'équipe eccellente, ma si tratta di
un'operazione delicatissima. Non voglio ingannarla, Padre, solo un miracolo
potrebbe ridarle la vista” concluse. Miguel era talmente confuso che lo ascoltò
appena, ma Filomena si afferrò a quella speranza. “Un miracolo, ha detto?”
“Be', è un modo di dire, signora. La verità è che nessuno può garantire che ci
vedrà di nuovo.” “Se è un miracolo che ci vuole, io so dove trovarlo” disse
Filomena rimettendo via la maglia. “Grazie mille, dottore. Prepari tutto per
l'operazione, torneremo presto.” Di nuovo in macchina, con Miguel muto per la
prima volta da molto tempo e Gilberto estenuato dalle peripezie della giornata,
Filomena ordinò a Sebastian Canuto di prendere la via della montagna. L'uomo la
guardò di sottecchi e sorrise entusiasta. Aveva portato altre volte la sua
padrona da quelle parti e non lo faceva mai volentieri, perché la strada era
una serpe attorcigliata, ma stavolta lo animava l'idea di aiutare l'uomo che
più apprezzava al mondo. “Dove andiamo adesso?” mormorò Gilberto, afferrandosi
alla propria educazione britannica per non stramazzare dalla stanchezza.
“Meglio che dormi, il viaggio è lungo. Andiamo alla grotta di Juana de los
Lirios” gli spiegò la sorella. “Ma sei impazzita!” proruppe il sacerdote,
sbigottito. “È santa.” “Non dire spropositi. La Chiesa non si è pronunciata.”
“Il Vaticano ci mette cento anni a riconoscere un santo. Non possiamo aspettare
tanto” concluse Filomena. “Se Miguel non crede negli angeli, non crederà
neanche nelle beate creole, soprattutto se quella Juana viene da una famiglia
di latifondisti” sospirò Gilberto. “Questo non c'entra, lei ha sempre vissuto
poveramente. Non mettere idee in testa a Miguel” disse Filomena. “Se non fosse
che la sua famiglia è disposta a spendere una fortuna per avere un suo santo,
nessuno avrebbe saputo della sua esistenza” interruppe il prete. “È più
miracolosa di tutti i tuoi santi forestieri.” “In ogni caso, mi sembra troppo
petulante chiedere un trattamento particolare. Io non sono nessuno, non ho
diritto a mobilitare il cielo con richieste personali” brontolò il cieco. La
fama di Juana si era diffusa dopo la sua morte prematura, perché i contadini
della zona, impressionati dalla sua vita devota e dalle sue opere di carità,
avevano cominciato a pregarla, chiedendo grazie. Presto corse voce che la
defunta era in grado di operare prodigi, e la cosa crebbe man mano fino a
culminare nel Miracolo dell'Esploratore, come fu chiamato. Quell'uomo si era
perso sulla cordigliera per due settimane, e quando già le squadre di soccorso
avevano abbandonato le ricerche e stavano per dichiararlo morto, ricomparve
sfinito e affamato ma intatto. Nelle sue dichiarazioni alla stampa raccontò di
aver visto in sogno l'immagine di una ragazza dal vestito lungo, con un mazzo
di fiori fra le braccia. Svegliandosi sentì un forte profumo di gigli, e si
convinse che si trattava di un messaggio celeste. Seguendo il penetrante aroma
dei fiori poté uscire da quel labirinto di gole e abissi e a raggiungere
finalmente un sentiero. Paragonando la sua visione a una foto di Juana, attestò
che erano identiche. La famiglia della giovane si prese cura di divulgare la
storia, di costruire una grotta nel luogo in cui era apparsa all'esploratore e
di mobilitare tutte le risorse di cui disponeva per portare il caso in
Vaticano. Fino a quel momento peraltro la commissione cardinalizia non aveva
risposto. La Santa Sede non credeva in decisioni precipitose, esercitava
parsimoniosamente il potere da molti secoli e sperava di disporne di molti altri
in futuro, per cui non si affrettava per nulla, meno che mai per le
beatificazioni. Riceveva numerose testimonianze provenienti dal continente
sudamericano, dove ogni tanto comparivano profeti, santoni, predicatori,
stiliti, martiri, vergini, anacoreti e altri originali personaggi che la gente
venerava, ma non era il caso di entusiasmarsi per tutti quanti. Ci voleva una
grande cautela in queste faccende, perché qualunque sbaglio poteva condurre al
ridicolo, soprattutto in questi tempi di pragmatismo in cui l'incredulità
prevaleva sulla fede. Tuttavia i devoti di Juana non attesero il verdetto di
Roma per trattarla da santa. Si vendevano immaginette e medaglie col suo
ritratto, e tutti i giorni si pubblicavano sui giornali annunci in cui qualcuno
ringraziava per una grazia ricevuta. Nella grotta piantarono tanti gigli che
l'odore stordiva i pellegrini e rendeva sterili gli animali domestici dei
dintorni. Le lampade a olio, i ceri e le torce riempirono l'aria di un fumo
ostinato, e l'eco dei cantici e delle orazioni rotolava tra i picchi
confondendo i condor in volo. In breve il luogo si riempì di ex voto, apparati
ortopedici d'ogni genere e repliche di organi umani in miniatura, che i
credenti lasciavano come prova di qualche guarigione soprannaturale. Mediante
una colletta pubblica si raccolse il denaro per asfaltare la strada, e in un
paio d'anni una rotabile piena di curve univa la capitale alla cappella. I
fratelli Boulton giunsero a destinazione che annottava. Sebastian Canuto aiutò
i tre anziani a percorrere il sentiero che portava alla grotta. Malgrado l'ora
tarda non mancavano devoti, alcuni si trascinavano in ginocchio sulle pietre
sostenuti da un parente sollecito, altri pregavano ad alta voce o accendevano
candele davanti a una statua in gesso della beata. Filomena ed El Cuchillo si
inginocchiarono a formulare la loro richiesta. Gilberto sedette su una panca a
pensare alle stranezze della vita, e Miguel rimase in piedi farfugliando che se
si trattava di impetrare miracoli era meglio chiedere che cadesse il tiranno e
tornasse la democrazia una volta per tutte. Pochi giorni dopo i medici della
clinica dell'Opus Dei lo operarono all'occhio sinistro senza alcuna spesa, dopo
aver avvertito i fratelli che non dovevano farsi illusioni. Il sacerdote aveva
pregato Filomena e Gilberto di non fare alcun accenno a Juana de los Lirios,
gli bastava già l'umiliazione di essere soccorso dai suoi rivali ideologici.
Appena lo dimisero Filomena se lo portò a casa sua, ignorando le sue proteste.
Miguel aveva un enorme bendaggio che gli copriva mezza faccia ed era debilitato
da tutta quella faccenda, ma la sua vocazione alla modestia era rimasta
intatta. Dichiarò che non voleva essere curato da mani mercenarie, per cui
dovettero congedare l'infermiera che avevano assoldato. Filomena e il fedele
Sebastian Canuto si presero cura di lui, compito tutt'altro che lieve perché il
malato era di pessimo umore, non sopportava il letto e non voleva mangiare. La
presenza del sacerdote alterò profondamente le abitudini della casa. Le radio
dell'opposizione e la Voce di Mosca a onde corte tuonavano a tutte le ore, e
c'era una perpetua sfilata di compunti abitanti del quartiere di Miguel in
visita all'infermo. La sua stanza si riempì di umili regali: disegni dei
bambini della scuola, biscotti, erbe e fiori in lattine di conserva, una
gallina per il brodo e persino un cucciolo di due mesi che orinava sui tappeti
persiani e rosicchiava le gambe dei mobili, e che qualcuno gli aveva portato
con l'idea che venisse addestrato come cane da ciechi. Tuttavia la
convalescenza fu rapida, e cinquanta ore dopo l'operazione Filomena telefonò al
medico per comunicargli che suo fratello ci vedeva abbastanza bene. “Ma vi
avevo detto di non toccare le bende!” esclamò il dottore. “Il bendaggio ce l'ha
ancora. Adesso ci vede dall'altro occhio” replicò la signora. “Quale altro
occhio?” “Quell'altro, dottore, quello che era già cieco. “Non può essere.
Vengo subito lì. Non muovetelo per nessuna ragione!” ordinò il chirurgo. A casa
dei Boulton trovò il suo paziente di ottimo umore: mangiava patate fritte e
guardava la telenovela con il cagnolino sulle ginocchia. Incredulo, comprovò
che il sacerdote vedeva senza alcuna difficoltà dall'occhio che era rimasto
cieco da otto anni, e togliendo il bendaggio fu evidente che ci vedeva anche
con l'occhio operato.
Padre Miguel festeggiò i suoi settant'anni nella
parrocchia del quartiere. La sorella Filomena e le sue amiche formarono una
carovana d'auto cariche di torte, pasticcini, panini imbottiti, cesti di frutta
e brocche di cioccolata, capeggiata dal Cuchillo, che portava litri di vino e
d'acquavite dissimulati in bottiglie di orzata. Il sacerdote disegnò su grandi
fogli la storia della sua avventurosa vita, e li appese alle pareti della
chiesa. Vi narrava con un tocco di ironia le vicissitudini della sua vocazione,
dal momento in cui la chiamata di Dio lo colpì come una mazzata alla nuca a
quindici anni, e dalla sua lotta contro i peccati capitali, prima la gola e la
lussuria, più tardi l'ira, fino alle sue recenti avventure nelle caserme della
Polizia, a un'età in cui altri vecchietti si ritirano su una sedia a dondolo a
contar le stelle. Aveva appeso un ritratto di Juana, coronato da una ghirlanda
di fiori, accanto alle immancabili bandiere rosse. La riunione iniziò con una messa
animata da quattro chitarre, alla quale assistettero tutti gli abitanti.
Installarono altoparlanti perché la folla assiepata in strada potesse seguire
la cerimonia. Dopo la benedizione alcune persone si fecero avanti per
testimoniare di nuovi abusi da parte delle autorità, finché Filomena si fece
largo a grandi falcate per annunciare che adesso basta con i lamenti, era ora
di divertirsi. Uscirono tutti in cortile, qualcuno mise la musica e subito
iniziarono il ballo e la mangiata. Le signore del quartiere alto servirono le
vivande, mentre El Cuchillo accendeva fuochi artificiali e il sacerdote ballava
un charleston, circondato da tutti i suoi fedeli e amici, per dimostrare che
non solo ci vedeva come un'aquila, ma che nessuno inoltre gli stava a pari nel
far baldoria. “Queste feste popolari sono proprio prive di poesia” osservò
Gilberto dopo il terzo bicchiere di falsa orzata, ma il suo disdegno da lord
inglese non riuscì a dissimulare che si stava divertendo. “Allora, padre, conta
su il miracolo!” gridò qualcuno, e il resto del pubblico si unì alla richiesta.
Il sacerdote fece tacere la musica, si accomodò il disordine della veste, con
una manata si lisciò i pochi capelli che gli coronavano la testa e con la voce
rotta dalla gratitudine parlò di Juana de los Lirios, senza il cui intervento
tutti gli artifici della scienza e della tecnica sarebbero stati infruttuosi.
“Fosse almeno una beata proletaria, sarebbe più facile crederci” azzardò uno
sfrontato, e una risata generale accolse la battuta. “Non scherzate sul
miracolo, che mi fate incazzare la santa e mi parte ancora la vista!” ruggì
Padre Miguel indignato. “E adesso mettetevi in fila, tutti, che mi dovete
firmare una lettera per il Papa!” E così, tra le risate e i bicchieri di vino,
tutti gli abitanti della bidonville firmarono l'istanza di beatificazione di
Juana de los Lirios.
UNA VENDETTA.
In quel raggiante mezzogiorno in cui incoronarono Dulce
Rosa Orellano con i gelsomini di Regina del Carnevale, le madri delle altre
candidate mormorarono che si trattava di una scelta ingiusta, che aveva vinto
lei solo perché era figlia del Senatore Anselmo Orellano, l'uomo più potente
della provincia. Ammettevano che la ragazza era graziosa, suonava il piano e
ballava meglio di tutte, ma c'erano altre candidate al premio molto più belle.
La videro in piedi sul palco, che salutava la folla con il suo vestito di
organza e la corona di fiori, e la maledissero tra i denti. Perciò alcune di
loro si rallegrarono quando diversi mesi più tardi la sventura entrò nella casa
degli Orellano seminando tanta fatalità che ci vollero venticinque anni per
raccoglierla. La sera dell'elezione della Regina si ballò all'Alcaldìa di Santa
Teresa, e convennero giovanotti da remoti villaggi per conoscere Dulce Rosa.
Era tanto allegra e ballava con tale leggerezza che molti non si accorsero che
in realtà non era la più bella, e quando tornarono a casa dissero di non aver
mai visto un visino come il suo. Così si guadagnò una immeritata fama di
bellezza, che nessun testimone posteriore poté smentire. L'esagerata
descrizione della sua pelle traslucida e dei suoi occhi diafani passò di bocca
in bocca, e ognuno aggiunse qualcosa di sua fantasia. I poeti di città lontane
composero sonetti per un'ipotetica donzella di nome Dulce Rosa. La diceria di
quella bellezza fiorente in casa del Senatore Orellano giunse anche alle
orecchie di Tadeo Céspedes, il quale non fantasticò mai di conoscerla, perché
negli anni della sua esistenza non aveva mai avuto tempo per imparare versi o
guardare donne. Lui si occupava solo della Guerra Civile. Da quando aveva
cominciato a radersi aveva un'arma in pugno, e da molto tempo viveva nel
fragore degli spari. Aveva dimenticato i baci di sua madre e persino i canti
della messa. Non sempre ebbe ragioni per dar battaglia, perché in alcuni
periodi di tregua non c'erano avversari a portata della sua banda, ma anche in
quei tempi di pace forzata visse come un corsaro. Era un uomo assuefatto alla
violenza. Attraversava il paese in tutte le direzioni lottando contro i nemici
visibili quando c'erano, e contro le ombre quanto doveva inventarli, e così
avrebbe continuato se il suo partito non avesse vinto le elezioni
presidenziali. Dalla sera alla mattina passò dalla clandestinità al potere, e
gli vennero meno i pretesti per continuare a battersi. L'ultima missione di
Tadeo Céspedes fu la spedizione punitiva a Santa Teresa. Con centoventi uomini
entrò in paese di notte, per dare una lezione e per eliminare i capi
dell'opposizione. Crivellarono di pallottole le finestre degli edifici pubblici,
sfondarono la porta della chiesa e vi penetrarono a cavallo fino all'altar
maggiore, calpestando Padre Clemente che gli si era parato dinanzi, e
proseguirono al galoppo con strepito di guerra diretti alla villa del Senatore
Orellano, che si ergeva piena d'orgoglio sulla collina. Alla testa di una
dozzina di leali servitori, il Senatore attese Tadeo Céspedes, dopo aver chiuso
la figlia nell'ultima stanza in fondo al patio e aver sciolto i cani. In quel
momento lamentò, come tante altre volte in vita sua, di non avere discendenti
maschi che lo aiutassero a difendere con le armi l'onore del casato. Si sentì
molto vecchio, ma non ebbe il tempo di pensarci, perché vide sul declivio del
colle il terribile bagliore di centoventi torce che si avvicinavano spaventando
la notte. Distribuì le ultime munizioni in silenzio. Tutto era stato detto, e
ognuno sapeva che prima dell'alba doveva morire da uomo al suo posto di
combattimento. “L'ultimo prenderà la chiave della stanza dov'è chiusa mia
figlia e farà il suo dovere” disse il Senatore al sentire i primi spari. Tutti
gli uomini avevano visto nascere Dulce Rosa e l'avevano tenuta sulle ginocchia
quando camminava appena, le avevano raccontato storie di fantasmi nelle sere
d'inverno, l'avevano sentita suonare il piano e l'avevano applaudita emozionati
il giorno della sua incoronazione come Regina del Carnevale. Suo padre poteva
morire tranquillo, perché la bambina non sarebbe mai caduta viva in mano a
Tadeo Céspedes. L'unica cosa che il Senatore Orellano non pensò fu che malgrado
la sua temerarietà nella battaglia l'ultimo a morire sarebbe stato lui. Vide
cadere ad uno ad uno i suoi amici e comprese finalmente l'inutilità di
continuare a resistere. Aveva una pallottola nel ventre e gli occhi offuscati,
distingueva appena le ombre che scavalcavano le alte muraglie della sua
proprietà, ma non gli mancò il senno di trascinarsi fino al terzo patio. I cani
riconobbero il suo odore al di là del sudore, del sangue e della tristezza che
lo coprivano, e si scostarono per lasciarlo passare. Introdusse la chiave nella
serratura, aprì la pesante porta e attraverso la nebbia che gli riempiva gli
occhi vide Dulce Rosa che lo aspettava. La figlia indossava lo stesso vestito
di organza della festa di Carnevale e si era adornata i capelli con i fiori
della corona. “È venuto il momento, figlia mia” disse puntando l'arma mentre ai
piedi gli si allargava una pozza di sangue. “Non uccidetemi, padre” replicò lei
con voce ferma. “Lasciatemi vivere, per vendicarvi e per vendicarmi.” Il Senatore
Anselmo Orellano guardò il volto quindicenne della figlia e immaginò cosa le
avrebbe fatto Tadeo Céspedes, ma c'era una grande forza negli occhi trasparenti
di Dulce Rosa, e seppe che avrebbe potuto sopravvivere per punire il suo
carnefice. La ragazza sedette sul letto e lui le si mise accanto, puntando
l'arma verso la porta. Quando tacque il clamore dei cani moribondi, cedette la
spranga, saltò la serratura e i primi uomini irruppero nella stanza, il
Senatore riuscì a sparare sei volte prima di perdere conoscenza. Tadeo Céspedes
credette di sognare nel vedere un angelo coronato di gelsomini che teneva fra
le braccia un vecchio agonizzante, mentre la sua bianca veste si inzuppava di
rosso, ma non gli bastò la pietà per una seconda occhiata, perché era ebbro di
violenza e snervato da molte ore di battaglia. “La donna è per me” disse prima
che i suoi uomini le mettessero le mani addosso.
Albeggiò un plumbeo venerdì, tinto dai bagliori
dell'incendio. Il silenzio era denso sulla collina. Gli ultimi gemiti si erano
spenti quando Dulce Rosa poté alzarsi in piedi e camminare fino alla fontana
del giardino, che il giorno prima era circondata di magnolie e ora era soltanto
una pozzanghera melmosa tra le macerie. Del vestito non rimanevano che
brandelli di organza, che si tolse lentamente per rimanere nuda. Si immerse
nell'acqua fredda. Il sole apparve tra le betulle e la ragazza poté vedere
l'acqua diventare rosa lavandosi il sangue che le scorreva fra le gambe e
quello del padre che le si era seccato sui capelli. Pulita, serena e senza
lacrime, tornò nella casa in rovina, cercò qualcosa per coprirsi, prese un
lenzuolo di tela e uscì per la strada a raccogliere i resti del Senatore. Gli
avevano legato i piedi per trascinarlo al galoppo sul pendio fino a ridurlo un
cencio spaventoso, ma guidata dall'amore la figlia poté riconoscerlo senza
incertezze. Lo avvolse nel lenzuolo e gli si sedette accanto a veder crescere
il giorno. Così la trovarono gli abitanti di Santa Teresa quando si azzardarono
a salire alla villa degli Orellano. Aiutarono Dulce Rosa a seppellire i suoi
morti e a spegnere i resti dell'incendio, e la supplicarono di andare a vivere
con la madrina in un altro paese, dove nessuno conoscesse la sua storia, ma lei
rifiutò. Allora formarono squadre per ricostruire la casa e le regalarono sei
cani feroci per difenderla. Dall'istante stesso in cui avevano portato via suo
padre ancora vivo, e Tadeo Céspedes si era chiuso la porta alle spalle
slacciandosi il cinturone di cuoio, Dulce Rosa non visse che per vendicarsi.
Negli anni seguenti quel pensiero la tenne sveglia di notte e occupò le sue
giornate, ma non cancellò del tutto la sua risata né inaridì la sua buona
volontà. La sua reputazione di bellezza si accrebbe, perché i cantastorie
andarono a celebrare da ogni parte i suoi incanti immaginari, fino a mutarla in
una leggenda vivente. Si alzava ogni giorno alle quattro del mattino per
dirigere i lavori dei campi e della casa, percorrere la proprietà in sella a
una cavalcatura, comprare e vendere con mercanteggiamenti da siriano, allevare
animali e coltivare le magnolie e i gelsomini del giardino. Al calar della sera
si toglieva i pantaloni, gli stivali e le armi e indossava i vestiti eleganti
portati dalla capitale in bauli aromatici. Quando faceva buio cominciavano ad
arrivare i visitatori, e la trovavano seduta al piano, mentre le domestiche
preparavano i vassoi di pasticcini e i bicchieri d'orzata. All'inizio molti si
chiedevano com'era possibile che la giovane non fosse finita in una camicia di
forza al manicomio o in una veste da novizia delle carmelitane, ma poiché si
facevano feste di frequente nella villa degli Orellano, col tempo la gente
smise di parlare della tragedia e il ricordo del Senatore assassinato si
cancellò. Alcuni gentiluomini di gran nome e fortuna riuscirono a superare lo
stigma dello stupro, e attirati dal prestigio di bellezza e intelligenza di
Dulce Rosa le proposero il matrimonio. Lei rifiutò tutti, perché la sua
missione in questo mondo era la vendetta.
Neppure Tadeo Céspedes riuscì a togliersi dalla memoria
quella notte funesta. La risacca del massacro e l'euforia dello stupro gli
passarono poche ore dopo, quando marciava verso la capitale per render conto
della sua spedizione punitiva. Allora gli tornò in mente la bambina vestita da
ballo e coronata di gelsomini che l'aveva sopportato in silenzio in quella
stanza buia dove l'aria era impregnata dell'odore di polvere da sparo. La
rivide nel momento finale, stesa a terra, mal coperta dai suoi cenci arrossati,
sprofondata nel sonno compassionevole dell'incoscienza, e così continuò a
vederla ogni notte al momento di addormentarsi, per il resto della sua vita. La
pace, l'esercizio del governo e l'uso del potere lo trasformarono in un uomo
posato e laborioso. Col passar del tempo si persero i ricordi della Guerra
Civile e la gente cominciò a chiamarlo don Tadeo. Acquistò una fattoria
sull'altro versante della sierra, si dedicò all'amministrazione della giustizia
e finì alcalde. Non fosse stato per il fantasma instancabile di Dulce Rosa
Orellano, forse avrebbe raggiunto una certa felicità, ma in tutte le donne in
cui si imbatté, in tutte quelle che abbracciò in cerca di consolazione e in
tutti gli amori perseguiti nel corso degli anni gli appariva il volto della
Regina del Carnevale. E per sua maggior disgrazia, le canzoni che a volte
incastonavano il nome di lei in versi di poeti popolari non gli permettevano di
allontanarla dal suo cuore. L'immagine della giovane crebbe dentro di lui,
occupandolo interamente, finché un giorno non resistette più. Era seduto in
capo a un lungo tavolo da banchetto a festeggiare i suoi cinquantasette anni,
circondato da amici e collaboratori, quando credette di vedere sulla tovaglia
una fanciulla nuda tra boccioli di gelsomini, e capì che quell'incubo non lo
avrebbe lasciato in pace neppure dopo morto. Batté un pugno che fece tremare le
stoviglie e chiese cappello e bastone. “Dove va, don Tadeo?” chiese il
Prefetto. “A riparare un torto antico” rispose uscendo senza salutare nessuno.
Non ebbe bisogno di cercarla, perché aveva sempre saputo che si trovava nella
stessa casa della sua sventura, e a quella volta diresse l'auto. Allora c'erano
buone strade, e le distanze sembravano più brevi. Il paesaggio era cambiato in
quei decenni, ma quando uscì dall'ultima curva della collina la villa apparve
quale la ricordava prima che la sua banda la prendesse d'assalto. Ecco le
solide pareti di pietra che aveva fatto saltare con la dinamite, ecco i vecchi
soffitti di legno scuro che erano crollati in fiamme, ecco gli alberi cui aveva
appeso i corpi degli uomini del Senatore, ecco il patio dove aveva massacrato i
cani. Si fermò a cento metri dalla porta e non osò proseguire, perché sentì il
cuore scoppiargli in petto. Stava per tornare indietro da dove era venuto,
quando scorse tra i roseti una figura avvolta nell'alone delle sue gonne.
Chiuse gli occhi desiderando con tutta la sua forza che lei non lo
riconoscesse. Nella morbida luce delle sei intravide Dulce Rosa Orellano che
avanzava fluttuando per i sentieri del giardino. Notò i suoi capelli, il suo
viso chiaro, l'armonia dei suoi gesti, il volteggio del suo vestito, e credette
di trovarsi sospeso in un sogno che durava da venticinque anni. “Finalmente sei
venuto, Tadeo Céspedes” disse lei al vederlo, senza lasciarsi ingannare dal suo
vestito nero da alcalde né dai capelli grigi da gentiluomo, perché aveva ancora
le stesse mani da pirata. “Mi hai perseguitato senza tregua. Non ho potuto
amare nessuno in vita mia, solo te” mormorò lui con la voce rotta dalla
vergogna. Dulce Rosa Orellano sospirò soddisfatta. L'aveva chiamato col
pensiero giorno e notte per tutto quel tempo, e finalmente era lì. Era venuta
la sua ora. Ma lo guardò negli occhi e non scoprì in essi nessuna traccia del
carnefice, solo lacrime fresche. Cercò nel proprio cuore l'odio coltivato per
tutta la vita e non riuscì a trovarlo. Evocò l'istante in cui aveva chiesto al
padre il sacrificio di lasciarla vivere per compiere un dovere, rivisse
l'abbraccio tante volte maledetto di quell'uomo e l'alba in cui aveva avvolto
tristi spoglie in un lenzuolo di tela. Ripassò il piano perfetto della sua
vendetta ma non sentì la gioia attesa, ma al contrario una profonda malinconia.
Tadeo Céspedes le prese la mano con delicatezza e le baciò il palmo, bagnandolo
col suo pianto. Allora lei comprese atterrita che da tanto pensare a lui in
ogni momento, assaporando la punizione in anticipo, le si era rovesciato il
sentimento e aveva finito per amarlo. Nei giorni seguenti entrambi sollevarono
le paratie dell'amore represso e per la prima volta nei loro aspri destini si
aprirono per ricevere la vicinanza dell'altro. Passeggiavano per il giardino
parlando di sé, senza omettere la notte fatale che aveva stravolto le loro
vite. Al tramonto lei suonava il piano e lui fumava ascoltandola fino a sentire
le ossa molli e la felicità avvolgerlo come un manto e cancellare gli incubi
del passato. Dopo cena Tadeo Céspedes scendeva a Santa Teresa, dove più nessuno
ricordava la vecchia storia d'orrore. Aveva preso alloggio nel miglior albergo
e lì preparava le nozze, voleva una festa d'allegria, di sperpero e di
gozzoviglia, cui partecipasse tutto il paese. Aveva scoperto l'amore a un'età
in cui altri uomini perdono l'illusione, e questo gli aveva restituito la forza
della sua gioventù. Voleva circondare Dulce Rosa di affetto e di bellezza,
darle tutte le cose che il denaro poteva comprare, per vedere se riusciva a
compensare nei suoi anni da vecchio il male che aveva fatto da giovane. In
certi momenti era invaso dal panico. Spiava il volto di lei in cerca dei segni
del rancore, ma vedeva solo la luce dell'amore condiviso e questo gli
restituiva la fiducia. Così passò un mese di felicità. Due giorni prima del
matrimonio, quando già stavano disponendo i lunghi tavoli della festa in
giardino, ammazzando pollame e maiali per il banchetto e cogliendo i fiori per
decorare la casa, Dulce Rosa Orellano si provò il vestito da sposa. Si vide
riflessa nello specchio, così simile al giorno della sua incoronazione come
Regina del Carnevale, che non poté continuare a ingannare il proprio cuore.
Seppe che mai avrebbe potuto realizzare la vendetta progettata perché amava
l'assassino, ma non avrebbe neppure potuto tacitare il fantasma del Senatore;
perciò congedò la sarta prese le forbici e si recò nella stanza del terzo patio
che per tutto quel tempo era rimasta vuota. Tadeo Céspedes la cercò
dappertutto, chiamandola disperato. I latrati dei cani lo guidarono all'altra
estremità della casa. Con l'aiuto dei giardinieri abbatté la porta chiusa ed
entrò nella stanza dove una volta aveva visto un angelo coronato di gelsomini.
Trovò Dulce Rosa Orellano come l'aveva vista in sogno ogni notte della sua
esistenza, con lo stesso vestito di organza insanguinato, e indovinò che
avrebbe vissuto fino a novant'anni per pagare la propria colpa con il ricordo
dell'unica donna che il suo spirito avrebbe potuto amare.
LETTERE D'AMOR TRADITO.
La madre di Analìa Torres morì di una febbre nervosa
quando lei nacque, e suo padre non sopportò la tristezza e due settimane più
tardi si sparò una rivoltellata al petto. Agonizzò per diversi giorni con il
nome della moglie sulle labbra. Suo fratello Eugenio amministrò i terreni della
famiglia e dispose del destino della piccola orfana secondo il suo criterio.
Fino ai sei anni Analìa crebbe aggrappata alle sottane di una balia india nelle
stanze di servizio della casa del tutore; poi, appena fu in età di andare a
scuola, la mandarono alla capitale, come allieva interna del Collegio delle
Sorelle del Sacro Cuore, dove passò i dodici anni seguenti Era una buona alunna
e amava la disciplina, l'austerità dell'edificio di pietra, la cappella con la
sua corte di santi e il suo aroma di ceri e di gigli, i corridoi nudi, i
chiostri ombrosi. Ciò che meno le piaceva era il baccano delle educande e
l'acre odore delle aule. Ogni volta che riusciva a eludere la vigilanza delle
suore si nascondeva in soffitta, tra statue decapitate e mobili rotti, per
raccontare storie a se stessa. In quei momenti rubati si immergeva nel silenzio
con la sensazione di abbandonarsi a un peccato. Ogni sei mesi riceveva una
breve lettera dello zio Eugenio, il quale le raccomandava di comportarsi bene e
onorare la memoria dei genitori. che in vita erano stati due buoni cristiani e
sarebbero stati orgogliosi che la loro unica figlia dedicasse la propria
esistenza ai più alti precetti della virtù, ossia entrasse in convento. Ma
Analìa gli fece sapere fin dalla prima insinuazione che a questo non era
disposta, e mantenne con fermezza la propria decisione semplicemente per
contraddirlo, perché in fondo la vita religiosa le piaceva. Nascosta dietro la
veste, nella solitudine ultima della rinuncia a qualsiasi piacere, forse
avrebbe potuto trovare una pace durevole, pensava; tuttavia il suo istinto la
metteva in guardia contro i consigli del tutore. Sospettava che le sue azioni
fossero motivate dalla cupidigia dei terreni più che dalla lealtà familiare.
Nulla di ciò che veniva da lui le sembrava degno di fede, in qualche
interstizio doveva esserci la trappola. Quando Analìa compì i sedici anni suo
zio andò a farle visita in collegio per la prima volta. La Madre Superiora
chiamò la ragazza nel suo studio, e dovette presentarli, perché entrambi erano
molto cambiati dai tempi della balia india nei cortili del retro, e non si
riconobbero. “Vedo che le suore ti hanno allevata bene, Analìa” commentò lo zio
rimescolando la sua tazza di cioccolata. “Hai un aspetto sano, e sei anche
graziosa. Nella mia ultima lettera ti ho detto che a partire da questo
compleanno riceverai una somma mensile per le tue spese, come ha lasciato detto
nel suo testamento mio fratello, riposi in pace. “Quanto?” “Cento pesos.” “È
tutto ciò che hanno lasciato i miei genitori?” “No, certo. Sai che la tenuta ti
appartiene, ma l'agricoltura non è faccenda da donne, soprattutto in questi
tempi di scioperi e rivoluzioni. Per il momento ti manderò una mensilità che
aumenterò ogni anno, fino alla tua maggiore età. Poi vedremo.” “Vedremo cosa,
zio?” “Vedremo cosa ti convenga di più.” “Quali sono le mie alternative?”
“Avrai sempre bisogno di un uomo che ti amministri i terreni, bambina. Io l'ho
fatto per tutti questi anni e non è stato un compito facile, ma è mio dovere,
l'ho promesso a mio fratello in punto di morte e sono disposto a continuare a
farlo per te.” “Non dovrete farlo ancora per molto tempo, zio. Quando mi
sposerò penserò io alle mie terre.” “Quando si sposerà, ha detto la piccola? Mi
dica, Madre, ha forse qualche pretendente?” “Cosa le viene in mente, signor
Torres! Ci stiamo ben attente, alle bambine. È solo una maniera di parlare. Le
cose che è capace di dire questa ragazza!” Analìa Torres si alzò in piedi, si
stirò le pieghe dell'uniforme, fece una breve riverenza piuttosto beffarda e
uscì. La Madre Superiora versò altra cioccolata al signore, commentando che
l'unica spiegazione per quel comportamento scortese era lo scarso contatto che
la giovane aveva avuto con i familiari. “È l'unica allieva che non va mai in
vacanza, e che non ha mai ricevuto un regalo di Natale” disse la suora in tono
secco. “Non sono portato alle moine, ma le assicuro che stimo molto mia nipote
e ho curato i suoi interessi come un padre. Però lei ha ragione, Analìa ha
bisogno di più affetto, le donne sono sentimentali.” Prima di trenta giorni lo
zio si presentò di nuovo in collegio, ma in tale occasione non chiese di vedere
la nipote, si limitò a notificare alla Madre Superiora che suo figlio
desiderava intavolare una corrispondenza con Analìa, e a pregarla di farle
pervenire le lettere per vedere se i rapporti con il cugino avrebbero
rafforzato i legami di famiglia. Le lettere cominciarono ad arrivare
regolarmente. Semplice carta bianca e inchiostro nero, una scrittura dai tratti
grandi e precisi. Alcune parlavano della vita in campagna, delle stagioni e
degli animali, altre di poeti già morti e dei pensieri che avevano scritto. A
volte la busta includeva un libro o un disegno tracciato con la stessa mano
ferma della calligrafia. Analìa si propose di non leggerle, fedele all'idea che
qualsiasi cosa legata allo zio nascondesse un pericolo, ma nella noia del
collegio le lettere rappresentavano la sua unica possibilità di volare. Si
nascondeva in soffitta, non più a inventare storie improbabili, ma a rileggere
con avidità le parole del cugino fino a conoscere a memoria l'inclinazione
delle lettere e la testura della carta. All'inizio non rispondeva, ma passato
poco tempo non poté farne a meno. Il contenuto delle lettere andò facendosi
sempre più inteso a beffare la censura della Madre Superiora, che apriva tutta
la corrispondenza. Crebbe l'intimità fra i due, e presto riuscirono a
concordare un codice segreto con cui cominciarono a parlar d'amore. Analìa
Torres non ricordava di aver mai visto quel cugino che si firmava Luis, perché
quando lei viveva a casa dello zio il ragazzo era interno in un collegio della
capitale. Era certa che doveva essere brutto, forse infermo o deforme, perché
le sembrava impossibile che a una sensibilità così profonda e a un'intelligenza
così acuta si sommasse un aspetto attraente. Tentava di disegnare nella propria
mente un'immagine del cugino: grassotto e basso come suo padre con la faccia
butterata dal vaiolo, zoppo e mezzo calvo; ma quanti più difetti gli aggiungeva
tanto più inclinava ad amarlo. Lo splendore dello spirito era l'unica cosa
importante, l'unica che avrebbe resistito al passar degli anni senza
deteriorarsi e si sarebbe accresciuto col tempo, la bellezza di quegli eroi
utopici dei romanzi non aveva alcun valore e si poteva trasformare persino in
un motivo di frivolezza, concludeva la ragazza, anche se non poteva evitare
un'ombra di inquietudine nel suo ragionamento. Si chiedeva quanta deformità
sarebbe stata capace di tollerare. La corrispondenza tra Analìa e Luis Torres
durò due anni, in capo ai quali la ragazza aveva una cappelliera piena di buste
e l'anima completamente soggiogata. Se le attraversò la mente l'idea che quella
relazione avrebbe potuto essere un piano dello zio perché i suoi beni che lei
aveva ereditato dal padre passassero nelle mani di Luis, la scartò
immediatamente, vergognandosi della propria meschinità. Il giorno in cui compì
diciotto anni la Madre Superiora la chiamò in refettorio perché c'era una
visita che l'aspettava. Analìa Torres indovinò chi era e fu sul punto di
correre a nascondersi nella soffitta dei santi dimenticati, terrorizzata
dall'eventualità di dover affrontare finalmente l'uomo che aveva immaginato per
tanto tempo. Quando entrò nella sala e se lo trovò di fronte le ci vollero
parecchi minuti per vincere la disillusione. Luis Torres non era il nano
contorto che lei aveva costruito in sogno e aveva imparato ad amare. Era un
uomo ben piantato con un viso simpatico dai tratti regolari, la bocca ancora
infantile, una barba scura e ben curata, occhi chiari dalle ciglia lunghe, ma
privi di espressione. Somigliava un poco ai santi della cappella, troppo
bellino e un po' scioccone. Analìa si riprese dall'impatto e decise che se
aveva accettato in cuor suo un gobbo, a maggior ragione avrebbe potuto amare
quel giovane elegante che la baciava sulla guancia lasciandole una traccia di
lavanda sul naso.
Fin dal primo giorno di matrimonio Analìa detestò Luis
Torres. Quando la schiacciò tra le lenzuola ricamate di un letto troppo morbido
seppe che si era innamorata di un fantasma, e che non avrebbe mai potuto
trasferire quella passione immaginaria alla realtà del suo matrimonio. Combatté
i propri sentimenti con determinazione, prima scartandoli come un vizio e poi,
quando fu impossibile continuare a ignorarli, tentando di giungere in fondo
alla propria anima per strapparli alla radice. Luis era gentile e a volte
persino divertente, non la infastidiva con esigenze sproporzionate, né tentò di
modificare la sua tendenza alla solitudine e al silenzio. Lei stessa ammetteva
che con un po' di buona volontà da parte sua avrebbe potuto trovare in quel
rapporto una certa felicità, almeno quanta ne avrebbe ottenuta sotto una veste
monacale. Non aveva motivi precisi per quella strana repulsione per l'uomo che
aveva amato per due anni senza conoscerlo. Né riusciva a esprimere con parole
le proprie emozioni, ma se anche avesse potuto farlo non avrebbe avuto nessuno
con cui parlarne. Si sentiva beffata nel non poter conciliare l'immagine del
pretendente epistolare con quella di quel marito in carne e ossa. Luis non
menzionava mai le lettere, e quando lei toccava l'argomento le chiudeva la
bocca con un rapido bacio e qualche osservazione leggera su quel romanticismo
così poco adeguato alla vita matrimoniale, in cui la fiducia, il rispetto, gli
interessi comuni e il futuro della famiglia, importavano molto più di una
corrispondenza da adolescenti. Non c'era tra loro una vera intimità. Durante il
giorno ciascuno si occupava delle proprie faccende, e di notte si incontravano
tra i cuscini di piume, dove Analìa, abituata alla branda del collegio, credeva
di soffocare. A volte si abbracciavano frettolosamente, lei immobile e tesa,
lui con l'atteggiamento di chi soddisfa un'esigenza del corpo perché non lo può
evitare. Luis si addormentava subito, lei rimaneva con gli occhi aperti nel
buio e una protesta in gola. Analìa tentò in diverse maniere di vincere la
ripulsa che lui le ispirava, dalla risorsa di fissarsi nella memoria ogni
dettaglio del marito col proposito di amarlo per pura decisione, fino a quella
di svuotare la mente d'ogni pensiero e di trasferirsi in una dimensione dove lui
non poteva raggiungerla. Pregava che fosse solo una ripugnanza transitoria, ma
passarono i mesi e invece del sollievo sperato crebbe l'animosità fino a
tramutarsi in odio. Una notte si sorprese a sognare di un uomo orribile che
l'accarezzava con le dita macchiate di inchiostro nero. I coniugi Torres
vivevano nella proprietà acquistata dal padre di Analìa quando quella era
ancora una regione mezzo selvaggia, terra di soldati e banditi. Ora si trovava
vicino alla rotabile e a breve distanza da un paese prospero, dove ogni anno si
tenevano fiere agricole e del bestiame. Legalmente Luis era l'amministratore
del fondo, ma in realtà era lo zio Eugenio a compiere quella funzione, perché
Luis non provava che noia per le cose della campagna. Dopo pranzo, quando padre
e figlio si installavano in biblioteca a bere cognac e a giocare a domino,
Analìa sentiva lo zio decidere sugli investimenti, gli animali, le semine e i
raccolti. Nelle rare occasioni in cui lei si azzardava a intervenire per dare
una opinione, i due uomini la ascoltavano con apparente attenzione,
assicurandole che avrebbero tenuto conto dei suoi suggerimenti, ma poi facevano
come volevano. A volte Analìa usciva a galoppare tra i pascoli fino al limite
della montagna, desiderando di esser nata uomo. La nascita di un figlio non
migliorò affatto i sentimenti di Analìa per suo marito. Durante i mesi della
gestazione si accentuò il suo carattere chiuso, ma Luis non si spazientì,
attribuendolo al suo stato. E comunque aveva altre cose a cui pensare. Dopo il parto
lei si trasferì in un'altra stanza ammobiliata soltanto con un letto stretto e
duro. Quando il figlio compì un anno e la madre chiudeva ancora la porta a
chiave ed evitava ogni occasione di rimanere sola con lui Luis decise che era
tempo di esigere un trattamento più rispettoso e avvertì sua moglie che era
meglio cambiasse atteggiamento, prima che buttasse giù la porta. Lei non lo
aveva mai visto così violento. Obbedì senza commenti. Nei sette anni seguenti
la tensione tra loro aumentò in maniera tale che finirono per diventare nemici
segreti, ma erano persone beneducate e di fronte agli altri si trattavano con
esagerata cortesia. Solo il bimbo sospettava la grandezza dell'ostilità tra i
genitori, e si svegliava di notte piangendo nel letto bagnato. Analìa si coprì
di una corazza di silenzio e a poco a poco parve disseccarsi intimamente. Luis
invece divenne più espansivo e frivolo, si abbandonò ai suoi molteplici
appetiti, beveva troppo e usava perdersi per diversi giorni in traversie
inconfessabili. Poi, quando smise di celare la sua dissipazione, Analìa trovò
buoni pretesti per allontanarsi ancor più da lui. Luis perse ogni interesse per
i lavori della campagna, e sua moglie lo sostituì, contenta di quella nuova
posizione. La domenica zio Eugenio si fermava in sala da pranzo a discutere le
decisioni con lei, mentre Luis sprofondava in una lunga siesta da cui
resuscitava al tramonto, inzuppato di sudore e con lo stomaco sottosopra ma
sempre pronto a uscire e far baldoria con gli amici. Analìa insegnò al figlio i
rudimenti della scrittura e dell'aritmetica, e tentò di iniziarlo al piacere
dei libri. Quando il bambino compì sette anni Luis decise che era tempo di
dargli un'educazione più formale, lontano dalle moine della madre, e volle
mandarlo in un collegio della capitale per vedere se diventava uomo in fretta,
ma Analìa gli si oppose con tale ferocia che dovette accettare una soluzione
meno drastica. Lo portò alla scuola del paese, dove rimaneva interno dal lunedì
al venerdì, ma il sabato mattina la macchina andava a prenderlo per riportarlo
a casa fino a domenica. La prima settimana Analìa osservò ansiosa il figlio, in
cerca di pretesti per tenerlo con sé, ma non riuscì a trovarne. Il bambino
sembrava contento, parlava del maestro e dei compagni con genuino entusiasmo,
come fosse nato tra loro. Smise di fare la pipì a letto. Tre mesi dopo tornò a
casa con la pagella e una breve lettera dell'insegnante che si congratulava per
il suo buon rendimento. Analìa la lesse tremando e sorrise per la prima volta
dopo molto tempo. Abbracciò il figlio commossa, interrogandolo su ogni
particolare, com'erano i dormitori, cosa gli davano da mangiare, se aveva
freddo di notte, quanti amici aveva, com'era il maestro. Parve molto più
tranquilla, e non parlò più di toglierlo dalla scuola. Nei mesi seguenti il
bambino riportò sempre buoni voti, che Analìa collezionava come tesori e
retribuiva con barattoli di marmellata e cesti di frutta per tutta la classe.
Cercava di non pensare che quella soluzione avrebbe funzionato solo per l'istruzione
elementare, che di lì a pochi anni sarebbe stato inevitabile mandare il bambino
in un collegio cittadino, e che avrebbe potuto vederlo solo durante le vacanze.
In una notte di gozzoviglia in paese Luis Torres, che aveva bevuto troppo, si
mise in testa di esibirsi su un cavallo altrui per dimostrare la propria
abilità di cavaliere davanti a un gruppo di compagni di sbornia. L'animale lo
scaraventò a terra e con un calcio gli annientò i testicoli. Nove giorni dopo
Torres morì urlando di dolore in una clinica della capitale, dove l'avevano
portato nella speranza di salvarlo dall'infezione. Gli stava accanto la moglie,
piangendo di rimorso per l'amore che non aveva mai potuto dargli e di sollievo
perché non avrebbe più dovuto continuare a pregare che morisse. Prima di
tornare in campagna con la salma in un feretro per seppellirla nella sua terra,
Analìa si comprò un vestito bianco e lo mise in fondo alla valigia. In paese
arrivò vestita a lutto, con il viso coperto da un velo vedovile perché nessuno vedesse
l'espressione dei suoi occhi, e così si presentò al funerale, tenendo per mano
il figlio, anch'egli vestito di nero. Al termine della cerimonia lo zio
Eugenio, che si manteneva in ottima salute malgrado i suoi settant'anni ben
spesi, propose alla nuora di cedergli le terre e di andare a vivere di rendita
in città, dove il bambino avrebbe potuto terminare la propria educazione e lei
dimenticare le pene del passato. “Perché non ignoro, Analìa, che tu e il mio
povero Luis non siete mai stati felici” disse. “Avete ragione, zio. Luis mi ha
ingannato fin dall'inizio.” “buon Dio, figlia mia, è sempre stato molto
discreto e rispettoso con te. Luis era un buon marito. Tutti gli uomini hanno
le loro piccole avventure, ma questo non ha nessuna importanza.” “Non mi
riferivo a questo, ma a un inganno irrimediabile.” “Non voglio sapere di cosa
si tratta. In ogni caso, penso che nella capitale tu e il bambino starete molto
meglio. Penserò io alla proprietà, sono vecchio ma non ancora finito, saprei
ancora abbattere un toro.” “Rimarrò qui. E anche mio figlio, perché deve
aiutarmi con i terreni. Negli ultimi anni mi sono occupata più dei pascoli che
della casa. L'unica differenza sarà che adesso prenderò le mie decisioni senza
consultare nessuno. Finalmente questa terra è solo mia. Addio, zio Eugenio.”
Nelle prime settimane Analìa organizzò la sua nuova vita. Cominciò col bruciare
le lenzuola che aveva condiviso con il marito, e col trasferire il suo letto
angusto nella stanza principale; poi studiò a fondo i registri della proprietà,
e appena ebbe un'idea precisa dei propri beni cercò un fattore che eseguisse i
suoi ordini senza far domande. Quando sentì di avere tutte le redini in mano
andò a prendere il suo vestito bianco nella valigia, lo stirò accuratamente, se
lo mise e così abbigliata partì per la scuola del paese, portando sottobraccio
una vecchia cappelliera. Analìa Torres attese in cortile che la campanella
delle cinque annunciasse la fine dell'ultima lezione pomeridiana e che la turba
dei bambini uscisse per la ricreazione. Tra loro c'era suo figlio in gioiosa
corsa, che vedendola si fermò di botto, perché era la prima volta che sua madre
metteva piede nel collegio. “Fammi vedere la tua aula, voglio conoscere il tuo
maestro” gli disse. Sulla soglia Analìa disse al bambino di andarsene, perché
quella era una faccenda privata, ed entrò da sola. Era una grande sala dal
soffitto alto, con mappe e schemi biologici appesi alle pareti. C'era lo stesso
odore di chiuso e di sudore infantile che aveva segnato la sua infanzia, ma in
quella occasione non la infastidì, al contrario, lo aspirò con piacere. I
banchi erano in disordine dopo una giornata di lezioni, c'erano cartacce per
terra e calamai aperti. Vide una colonna di numeri sulla lavagna. In fondo, su
una cattedra rialzata da una piattaforma, si trovava il maestro. L'uomo alzò
gli occhi sorpreso e rimase seduto, perché le sue stampelle erano in un angolo
troppo lontano per raggiungerle senza trascinare la sedia. Analìa passò tra due
file di banchi e gli si mise davanti. “Sono la madre di Torres” disse, perché
non le venne in mente nulla di meglio. “Molto lieto, signora. Finalmente posso
ringraziarla per i dolci e per la frutta che ci manda.” “Lasciamo stare, non
sono venuta qui per ricevere complimenti. Sono venuta per chiederle conto di
questo” disse Analìa posando la cappelliera sulla cattedra. “Che cos'è?” Lei
tolse il coperchio e tirò fuori le lettere d'amore che aveva custodito per
tutto quel tempo. Per un lungo istante il maestro rimase con gli occhi fissi su
quella montagna di buste. “Lei mi deve undici anni di vita” disse Analia. “Come
ha saputo che le ho scritte io?” balbettò lui quando riuscì a recuperare la
voce che gli si era impantanata da qualche parte. “Il giorno stesso del mio
matrimonio ho scoperto che non poteva averle scritte mio marito, e quando mio
figlio ha portato a casa la sua prima pagella ho riconosciuto la calligrafia. E
adesso che la guardo non ho più il minimo dubbio, perché è lei che ho visto in
sogno da quando avevo sedici anni. Perché l'ha fatto?” “Luis Torres era mio
amico, e quando mi ha chiesto di scrivergli una lettera per sua cugina non mi è
sembrato che ci fosse niente di male. E così è stato per la seconda e per la
terza; poi quando lei mi ha risposto, non ho più potuto smettere. Quei due anni
sono stati i migliori della mia vita, gli unici in cui aspettassi qualcosa.
Aspettavo la posta.” “Ah!” “Potrà mai perdonarmi?” “Dipende da lei” disse
Analìa passandogli le stampelle. Il maestro si infilò la giacca e si alzò.
Uscirono insieme nel tumulto del cortile, dove il sole non era ancora
tramontato.
IL PALAZZO IMMAGINATO.
Cinque secoli addietro, quando i feroci fuorusciti di
Spagna, con i loro cavalli esausti e le armature roventi come braci per il sole
d'America, misero piede nelle terre di Quinaroa, gli indios nascevano e
morivano in quel posto già da diverse migliaia di anni. I conquistatori
proclamarono con araldi e bandiere la scoperta di quel nuovo territorio, lo
dichiararono proprietà di un imperatore remoto, piantarono la prima croce e lo
battezzarono San Jeronimo, nome impronunciabile nella lingua degli indigeni.
Gli indios osservarono quelle arroganti cerimonie un po' sorpresi, ma avevano
già avuto notizie di quei barbuti guerrieri che percorrevano il mondo in un
risuonar di ferri e di spari, avevano saputo che sul loro passo seminavano
lamenti e che nessun popolo conosciuto era stato in grado di fronteggiarli,
tutti gli eserciti soccombevano dinanzi a quel pugno di centauri. Erano una
tribù antica, così povera che neppure il più piumato monarca si prendeva il
fastidio di imporre loro tributi, e così mansueta che neppure li reclutavano
per la guerra. Esistevano in pace dagli albori del tempo, e non erano disposti
a mutare abitudini a causa di alcuni rozzi stranieri. Tuttavia presto compresero
l'importanza del nemico e l'inutilità di ignorarlo, perché la sua presenza
risultava opprimente, come una immensa pietra sulla schiena. Negli anni
seguenti gli indios che non morirono in schiavitù o sotto i diversi supplizi
destinati a instaurare altri dèi o vittime di malattie sconosciute si
dispersero addentrandosi nella selva, e a poco a poco persero anche il nome del
loro villaggio. Sempre celati, come ombre nel fogliame, per secoli vissero
bisbigliando e muovendosi solo di notte. Si fecero talmente abili nell'arte
della dissimulazione che la storia non li registrò, e oggi non ci sono prove
del loro passaggio attraverso la vita. I libri non li citano, ma i contadini
della regione dicono di averli sentiti nella foresta, e ogni volta che comincia
a crescere la pancia di una giovane nubile e non si riesce a individuare il
seduttore, attribuiscono il bambino allo spirito di un indio concupiscente. La
gente che vive da quelle parti è orgogliosa di avere qualche goccia del sangue
di quegli esseri invisibili mescolata al torrente formato da pirati inglesi,
soldati spagnoli, schiavi africani, avventurieri in cerca dell'Eldorado e
infine di ogni emigrante finito lì con il suo zaino in spalla e la testa piena
di illusioni. L'Europa consumava più caffè, cacao e banane di quanto
riuscissimo a produrre, ma tutta quella richiesta non ci portò il benessere,
continuavamo a essere poveri come sempre. La situazione mutò quando un negro
della costa piantò un piccone nel terreno per scavare un pozzo, e gli schizzò in
faccia un getto di petrolio. Sul finire della Prima Guerra Mondiale si era
diffusa l'idea che questo era un paese prospero, benché quasi tutti i suoi
abitanti trascinassero ancora i piedi nel fango. In realtà l'oro riempiva solo
i forzieri del Benefattore e dei suoi fidi, ma c'era la speranza che un giorno
sarebbe avanzato qualcosa per il popolo. Si erano compiuti due decenni di
democrazia totalitaria, come il Presidente a vita chiamava il proprio governo,
durante i quali ogni germoglio di sovversione era stato schiacciato, per
maggior gloria sua. Nella capitale si vedevano sintomi di progresso, veicoli a
motore, cinematografi, gelaterie, un ippodromo e un teatro dove si davano
spettacoli importati da New York e da Parigi. Ogni giorno attraccavano al porto
decine di navi che caricavano il petrolio e altre che scaricavano novità, ma il
resto del territorio era sempre immerso in un letargo di secoli. Un giorno la
gente di San Jeronimo si destò dalla siesta con le tremende martellate che
precedettero l'arrivo della ferrovia. Le rotaie avrebbero unito la capitale a
quel paesello, scelto dal Benefattore per erigervi il suo Palazzo d'Estate,
alla maniera dei monarchi europei, benché nessuno sapesse distinguere l'estate
dall'inverno, tutto l'anno trascorrendo nell'umido e rovente respiro della
natura. L'unica ragione per costruire lì quell'opera monumentale era che un
naturalista belga aveva affermato che se il mito del Paradiso Terrestre aveva
qualche fondamento, doveva trovarsi in quel luogo, dove il paesaggio era di una
bellezza portentosa. Secondo le sue osservazioni la foresta albergava più di
mille varietà di uccelli multicolori e ogni sorta di orchidee silvestri, dalle
Brassias grandi come un cappello alle minuscole Pleurothallis visibili solo con
una lente. L'idea del palazzo partì da certi costruttori italiani, che si
presentarono a Sua Eccellenza con il progetto di un'intricata villa di marmo,
un labirinto di innumerevoli colonne, ampi corridoi, saloni, cucine, camere da
letto e più di trenta bagni adorni di rubinetteria d'oro e d'argento. La
ferrovia era la prima tappa dell'opera, indispensabile per trasportare in
quell'appartato recesso della mappa le tonnellate di materiali e le centinaia
di operai, più i capisquadra e gli artigiani venuti dall'Italia. L'impresa di
tirar su quel rompicapo durò quattro anni, alterò la flora e la fauna ed ebbe
un costo pari a quello di tutte le navi da guerra della flotta nazionale,
puntualmente pagato col nero olio della terra, e nel giorno anniversario della
Gloriosa Presa del Potere fu tagliato il nastro inaugurale del Palazzo
d'Estate. Per l'occasione la locomotiva fu decorata con i colori della bandiera
nazionale, e i vagoni merci furono sostituiti dalle carrozze foderate di felpa
e cuoio inglese, su cui viaggiarono gli invitati in abito di gala, compresi
alcuni membri della più antica aristocrazia, i quali, benché detestassero
quell'andino crudele che aveva usurpato il governo, non osarono respingere
l'invito. Il Benefattore era uno zotico dalle abitudini contadine faceva il
bagno nell'acqua fredda, dormiva per terra su una stuoia con addosso gli
stivali e il pistolone a portata di mano, si cibava di mais e carne arrostita e
beveva solo acqua e caffè. Il suo unico lusso erano i sigari di tabacco nero,
tutti gli altri gli parevano vizi da degenerati o da finocchi, compreso
l'alcol, che vedeva di malocchio e raramente offriva ai propri convitati.
Tuttavia col tempo dovette accettare qualche raffinatezza attorno a sé, perché
capì la necessità di impressionare i diplomatici e altri eminenti visitatori,
affinché non andassero a dire all'estero che lui era un barbaro. Non aveva una
consorte che influisse sul suo comportamento spartano. Considerava l'amore una
debolezza pericolosa, era convinto che tutte le donne, tranne sua madre, fossero
potenzialmente perverse, e che la cosa più prudente fosse di tenerle a una
certa distanza. Diceva che un uomo addormentato nell'abbraccio amoroso era
vulnerabile come un settimino, per cui esigeva che i suoi generali abitassero
nelle caserme, limitando la vita familiare a visite sporadiche. Nessuna donna
aveva passato un'intera notte nel suo letto; né poteva vantarsi di qualcosa di
più di un incontro affrettato, nessuna lasciò in lui un'impronta durevole
finché Marcia Lieberman non comparve nel suo destino. La festa di inaugurazione
del Palazzo d'Estate fu un avvenimento negli annali del governo del
Benefattore. Per due giorni e due notti le orchestre si alternarono a suonare i
ritmi di moda, e i cuochi prepararono un banchetto inesauribile. Le mulatte più
belle dei Caraibi, acconciate con splendidi vestiti fabbricati per l'occasione,
ballarono nei saloni con generali che non avevano mai partecipato ad alcuna
battaglia ma avevano il petto coperto di medaglie. Ci furono divertimenti
d'ogni genere: cantanti fatti venire dall'Avana e da New Orleans, danzatrici di
flamenco, maghi, giocolieri e trapezisti, partite a carte e a domino, e persino
una caccia ai conigli che i domestici fecero uscire dalle gabbie e costrinsero
a correre, e che gli ospiti inseguirono con levrieri di razza; il culmine fu
raggiunto quando un invitato volendo far lo spiritoso uccise a schioppettate i
cigni dal collo nero del laghetto. Alcuni invitati crollarono sui mobili,
ubriachi di danze e di liquori, mentre altri si gettarono vestiti nella piscina
o si dispersero a coppie per le stanze. Il Benefattore non volle conoscere i
dettagli. Dopo aver dato il benvenuto ai suoi ospiti con un breve discorso e
aver aperto le danze al braccio della dama più importante, era tornato alla
capitale senza salutare nessuno. Le feste lo mettevano di malumore. Al terzo
giorno il treno fece il viaggio di ritorno portandosi via i commensali sfiniti.
Il Palazzo d'Estate rimase in uno stato disastroso, i bagni parevano stalle, le
tende imbevute d'orina, i mobili sventrati e le piante agonizzanti nei vasi. I
domestici impiegarono una settimana per spazzare gli avanzi di quell'uragano.
Il Palazzo non fu mai più scenario di baccanali. Di tanto in tanto il
Benefattore vi si faceva portare per riprendersi dalle tensioni della sua
carica, ma il suo riposo non durava più di tre o quattro giorni, per tema che
in sua assenza crescesse la cospirazione: Il Governo richiedeva la sua
permanente vigilanza, affinché il potere non gli sfuggisse di mano. Nell'enorme
edificio rimase solo il personale incaricato della manutenzione. Quando terminò
lo strepito dei macchinari per la costruzione e del passaggio del treno, e
quando si placò l'eco della festa inaugurale, il paesaggio ritrovò la calma, e
di nuovo fiorirono le orchidee e nidificarono gli uccelli. Gli abitanti di San
Jeronimo ripresero le loro occupazioni abituali, e riuscirono quasi a
dimenticare la presenza del Palazzo d'Estate. Allora, lentamente, gli indios
invisibili tornarono a occupare il loro territorio. I primi sintomi furono così
discreti che nessuno vi badò: passi e mormorii, ombre fugaci fra le colonne,
l'impronta di una mano sulla superficie lucida di un tavolo. A poco a poco
cominciarono a sparire il cibo dalle cucine e le bottiglie dalle cantine, e al
mattino diversi letti erano sfatti. I domestici si incolpavano reciprocamente,
ma si astennero dall'alzar la voce perché non conveniva a nessuno che
l'ufficiale comandante della guardia si occupasse della faccenda. Era
impossibile sorvegliare tutta l'estensione della casa, mentre perlustravano una
stanza si sentivano sospiri in quella accanto, ma quando aprivano la porta
scoprivano soltanto le tende tremolanti, come se ci fosse appena passato
qualcuno. Corse voce che il Palazzo era stregato, e presto la paura colse anche
i soldati, che smisero di fare ronde notturne e si limitarono a rimanere
immobili al loro posto scrutando il paesaggio e stringendo in pugno le armi.
Spaventati, i domestici non scesero più nei sotterranei e per precauzione
chiusero a chiave diverse stanze. Occupavano la cucina e dormivano in un'ala
dell'edificio. Il resto della magione rimase privo di vigilanza, in possesso di
quegli indios incorporei, che si erano divisi le stanze con linee illusorie e
si erano stabiliti lì come spiriti inquieti. Avevano resistito al passaggio
della storia, adattandosi ai cambiamenti quando era stato inevitabile e
occultandosi in una loro dimensione quando era stato necessario. Nelle stanze
del Palazzo trovarono rifugio, lì si amavano senza rumore, nascevano senza festeggiamenti
e morivano senza lacrime. Impararono a conoscere così bene tutti gli anditi di
quel dedalo di marmo che potevano esistere senza inconvenienti nello stesso
spazio con le guardie e il personale di servizio, senza mai sfiorarsi, come se
appartenessero a un'altra epoca.
L'ambasciatore Lieberman sbarcò nel porto con sua moglie e
un carico di masserizie. Viaggiava con i suoi cani, tutti i suoi mobili, la
biblioteca, la collezione di dischi d'opera e ogni genere di attrezzature
sportive, compresa una barca a vela. Fin da quando gli avevano annunciato la
sua nuova destinazione aveva cominciato a detestare quel paese. Lasciava il suo
posto di consigliere di Stato a Vienna spinto dall'ambizione di ascendere ad
ambasciatore, seppure in Sudamerica, una terra strampalata che non gli ispirava
la minima simpatia. Invece Marcia, sua moglie, aveva preso la cosa di miglior
animo. Era pronta a seguire il marito nel suo pellegrinaggio diplomatico,
benché ogni giorno si sentisse più lontana da lui e la mondanità le piacesse
pochissimo, perché al suo fianco disponeva di una grande libertà. Bastava che
adempisse certi requisiti minimi di una consorte, e il resto del tempo le
apparteneva. In realtà il marito, troppo occupato col suo lavoro e con gli
sport, si rendeva appena conto della sua esistenza; la notava solo quando era
assente. Per Lieberman la moglie era un complemento indispensabile nella sua
carriera, gli dava lustro nella vita sociale e guidava con efficienza la sua
complicata macchina domestica. La considerava una compagna leale, ma fino
allora non si era minimamente preoccupato di conoscere la sua sensibilità.
Marcia consultò mappe e una enciclopedia per conoscere in dettaglio quella
lontana nazione, e cominciò a studiare lo spagnolo. Durante le due settimane di
traversata dell'Atlantico lesse i libri del naturalista belga, e prima di
conoscerla era già innamorata di quella calda geografia. Era di carattere
chiuso, si sentiva più felice a coltivare il suo giardino che nei saloni dove
doveva accompagnare il marito, e dedusse che in quel paese sarebbe stata più
libera dalle esigenze sociali e avrebbe potuto dedicarsi a leggere, a dipingere
e a scoprire la natura. Il primo provvedimento di Lieberman fu di installare
ventilatori in tutte le stanze della residenza. Poi presentò le credenziali
alle autorità governative. Quando il Benefattore li ricevette nel suo studio la
coppia era in città solo da alcuni giorni, ma la voce che la moglie
dell'ambasciatore era bellissima era già giunta alle orecchie del caudillo. In
base al protocollo li invitò a cena, benché l'aria arrogante e la ciarlataneria
del diplomatico gli risultassero insopportabili. Nella sera fissata Marcia
Lieberman entrò nel Salone dei Ricevimenti al braccio del marito, e per la
prima volta nella sua lunga carriera il Benefattore si sentì mozzare il respiro
di fronte a una donna. Aveva visto volti più belli e portamenti più slanciati,
ma mai tanta grazia. Gli risvegliò la memoria di conquiste passate,
intorbidandogli il sangue con un calore che non sentiva da molti anni. Durante
la serata si tenne a distanza, osservando l'ambasciatrice senza farlo notare,
sedotto dalla curva del collo, dall'ombra dei suoi occhi, dai gesti delle mani,
dalla serietà del suo atteggiamento. Forse gli balenò in mente il fatto che
aveva oltre quarant'anni più di lei e che qualsiasi scandalo avrebbe avuto
ripercussioni insospettate oltre frontiera, ma questo non riuscì a dissuaderlo;
al contrario, aggiunse un ingrediente irresistibile alla sua nascente passione.
Marcia Lieberman sentì lo sguardo dell'uomo incollato alla sua pelle, come una
carezza indecente, e si rese conto del pericolo, ma non ebbe la forza di
fuggire. Per un attimo pensò di chiedere al marito di portarla a casa, ma
invece rimase seduta desiderando che il vecchio si avvicinasse e insieme pronta
a scappare di corsa se l'avesse fatto. Non sapeva perché tremava. Non si fece
illusioni su di lui, poteva scorgere da lontano i segni della decrepitezza, la
pelle tutta rughe e macchie, il corpo ingobbito, l'andatura vacillante, poté
immaginare il suo odore rancido e indovinò che sotto i guanti di capretto le
sue mani erano due artigli. Ma gli occhi del dittatore, offuscati dall'età e
dall'esercizio di tante crudeltà, avevano ancora un fulgore di dominio che la
paralizzò nella sua poltrona. Il Benefattore non sapeva corteggiare una donna,
fino allora non aveva avuto bisogno di farlo. Il che operò a suo favore, perché
se avesse incalzato Marcia con galanterie da seduttore le sarebbe apparso
repellente, e lei si sarebbe sottratta con disprezzo. Invece non poté negarsi
quando pochi giorni dopo egli si presentò alla sua porta, in abiti borghesi e
senza scorta, come un bisnonno triste, per dirle che da dieci anni non toccava
una donna ed era ormai morto alle tentazioni di quel genere, ma con tutto il
rispetto le chiedeva di accompagnarlo quella sera in una residenza privata dove
avrebbe potuto posare il capo sulle sue ginocchia da regina e narrarle com'era
il mondo quando lui era ancora un uomo nel pieno delle sue forze e lei non era
ancora nata “E mio marito?” riuscì a chiedere Marcia con un filo di voce. “Suo
marito non esiste, figliola mia. Ora esistiamo solo lei e io” replicò il
Presidente a vita, conducendola sottobraccio verso la sua Packard nera. Marcia
non ritornò a casa, e prima che fosse trascorso un mese l'ambasciatore
Lieberman era ripartito per il suo paese. Aveva mosso mari e monti in cerca
della moglie, rifiutandosi dapprima di accettare quello che non era un segreto
per nessuno, ma quando fu impossibile ignorare l'evidenza del ratto, Lieberman
chiese un'udienza al Capo dello Stato per esigere la restituzione della
consorte. L'interprete tentò di addolcire le sue parole nella traduzione, ma il
Presidente aveva colto il tono e approfittò del pretesto per disfarsi una volta
per tutte di quel marito imprudente. Dichiarò che Lieberman aveva insultato la
Nazione lanciando quelle madornali accuse senza alcun fondamento, e gli ordinò
di passare la frontiera entro tre giorni. Gli offrì l'alternativa di farlo
senza scandalo, per proteggere la dignità del suo paese, dato che nessuno aveva
interesse a rompere i rapporti diplomatici e a intralciare il libero traffico
delle petroliere. Alla fine dell'incontro, con una espressione da padre offeso,
aggiunse che poteva capire il suo turbamento e che partisse pure tranquillo,
perché in sua assenza le ricerche della signora sarebbero continuate. Per
provare la sua buona volontà chiamò il Capo della Polizia e gli impartì ordini
davanti all'ambasciatore. Se dapprima Lieberman intendeva rifiutarsi di partire
senza Marcia, ripensandoci capì che si esponeva a una rivoltellata alla nuca,
per cui imballò le proprie masserizie, e uscì dal paese prima della scadenza
fissata. Il Benefattore fu colto dall'amore di sorpresa, in un'età in cui non
ricordava più le impazienze del cuore. Quel cataclisma gli sconvolse i sensi e
lo riportò all'adolescenza, ma non fu sufficiente a intorpidire la sua astuzia
volpina. Capì che si trattava di una passione senile, e gli fu impossibile
immaginare che Marcia contraccambiasse i suoi sentimenti. Non sapeva perché
l'avesse seguito quella sera, ma la sua ragione gli diceva che non era per
amore, e poiché non sapeva nulla delle donne suppose che si fosse lasciata
sedurre dal gusto dell'avventura o dall'avidità del potere In realtà era stata
vinta dalla compassione. Quando il vecchio l'aveva abbracciata ansioso, con gli
occhi bagnati d'umiliazione perché la virilità non gli rispondeva come un
tempo, lei si impegnò con pazienza e buona volontà a restituirgli l'orgoglio. E
così, in capo a diversi tentativi, il pover'uomo riuscì a varcare la soglia e a
vagare per brevi istanti nei tiepidi giardini offerti, abbattendosi subito dopo
con il cuore colmo di schiuma. “Rimani con me” le chiese il Benefattore appena
riuscì a superare la paura di soccombere su di lei. E Marcia rimase perché fu
commossa dalla solitudine del vecchio caudillo e perché l'alternativa di
tornare da suo marito le parve meno interessante della sfida di attraversare il
cerchio di ferro dietro il quale quell'uomo aveva vissuto per quasi
ottant'anni. Il Benefattore tenne Marcia nascosta in una delle sue proprietà,
dove le faceva visita ogni giorno. Non rimase mai a passar la notte con lei. Il
tempo che passavano insieme trascorreva in lente carezze e conversazioni. Nel
suo titubante spagnolo lei gli raccontava dei suoi viaggi e dei libri che
leggeva, lui l'ascoltava senza comprendere molto, ma gli piaceva la cadenza
della sua voce. Altre volte lui narrava la sua infanzia nelle terre aride delle
Ande o le sue avventure di soldato, ma se lei formulava qualche domanda subito
si chiudeva, guardandola diffidente, come una nemica. Marcia notò quella
diffidenza infrangibile, e capì che la sua assuefazione alla sfiducia era molto
più potente del bisogno di abbandonarsi alla tenerezza, e dopo qualche
settimana si rassegnò alla propria sconfitta. Rinunciando alla speranza di
guadagnarlo all'amore perse interesse per quell'uomo, e allora volle uscire
dalle pareti fra cui era sequestrata. Ma era troppo tardi. Il Benefattore la
voleva accanto a sé perché era la cosa più vicina a una compagna che avesse mai
conosciuto, suo marito era tornato in Europa e lei non aveva più un posto su
questa terra, persino il suo nome cominciava a cancellarsi dai ricordi altrui.
Il dittatore si accorse del suo cambiamento e la sua diffidenza aumentò, ma non
per questo smise di amarla. Per consolarla della reclusione cui era condannata
per sempre, perché la sua ricomparsa avrebbe confermato le accuse di Lieberman
e i rapporti internazionali sarebbero andati in malora, le procurò tutto ciò
che a lei piaceva, musica, libri, animali. Marcia passava le ore in un suo
mondo personale, ogni giorno più lontana dalla realtà. Quando lei smise di
animarlo a lui fu impossibile continuare ad abbracciarla e i loro appuntamenti
si trasformarono in tranquille serate di cioccolata e biscotti. Nel suo
desiderio di compiacerla, un giorno il Benefattore la invitò a visitare il
Palazzo d'Estate, perché vedesse con i suoi occhi il paradiso del naturalista
belga di cui aveva tanto letto.
Il treno non era più stato usato dalla festa inaugurale,
dieci anni prima, ed era a pezzi, per cui fecero il viaggio in automobile,
preceduti da una carovana di guardie e domestici che partirono con una
settimana di anticipo portandosi tutto il necessario per restituire al Palazzo
i lussi del primo giorno. La strada era appena un sentiero difeso dalla
vegetazione da squadre di forzati. In qualche tratto dovettero ricorrere ai
machete per aprirsi il passo tra le felci e ai buoi per tirar fuori l'auto dal
fango, ma nulla riuscì a intaccare l'entusiasmo di Marcia. Era abbagliata dal
paesaggio. Sopportò la calura umida e le zanzare come se non le sentisse,
attenta a quella natura che pareva avvolgerla in un abbraccio. Ebbe
l'impressione di essere già stata lì, forse in sogno o in un'altra esistenza,
di appartenere a quel luogo, di essere stata fino allora una straniera nel
mondo, ebbe l'impressione che tutti i passi fatti, compreso quello di
abbandonare la casa del marito per seguire un vecchio tremolante, le fossero
stati indicati dall'istinto con l'unico proposito di condurla lì. Prima di
vedere il Palazzo d'Estate sapeva già che sarebbe stata la sua ultima
residenza. Quando l'edificio apparve finalmente tra il fogliame, bordato di
palme e rifulgente al sole, Marcia respirò sollevata, come un naufrago che
riveda il suo porto. Malgrado i frenetici preparativi per riceverli, la magione
aveva un'aria d'incantesimo. La sua architettura romana, ideata come centro di
un parco geometrico dai grandiosi viali, era sommersa nel disordine di una
vegetazione divorante. Il clima torrido aveva alterato il colore dei materiali,
coprendoli con una patina prematura, della piscina e dei giardini non rimaneva
più nulla di visibile. I levrieri avevano rotto le catene molto tempo addietro
e vagavano per la proprietà, muta affamata e feroce che accolse i nuovi venuti
con un coro di latrati. Gli uccelli avevano nidificato sui capitelli e coperto
di escrementi i bassorilievi. Dovunque c'erano tracce di disordine. Il Palazzo
d'Estate si era trasformato in una creatura vivente, aperta alla verde
invasione della selva che l'aveva avvolta e penetrata. Marcia scese dall'auto e
corse verso le grandi porte, dove attendeva la scorta stremata dalla canicola.
Percorse tutte le stanze ad una ad una, i grandi saloni decorati con lampadari
di cristallo che pendevano dai soffitti come grappoli di stelle e mobili
francesi nei cui arazzi si annidavano le lucertole, le camere da letto con i
loro baldacchini stinti dall'intensità della luce, i bagni dove il muschio si
insinuava tra le commessure dei marmi. Sorrideva, con l'aria di chi recupera
qualcosa che gli era stata strappata. Nei giorni seguenti il Benefattore vide
Marcia così compiaciuta che un po' di vigore riscaldò di nuovo le sue ossa
consunte, e poté abbracciarla come nei primi incontri. Lei lo accettò
distratta. La settimana che pensavano di passare lì si prolungò a due, perché
l'uomo si sentiva molto a suo agio. Scomparve la stanchezza accumulata nei suoi
anni da satrapo, e si attenuarono diversi suoi dolori da vecchio. Passeggiò con
Marcia per i dintorni, indicandole le molteplici varietà di orchidee che si
arrampicavano sui tronchi o pendevano come grappoli dai rami più alti, le
nuvole di farfalle bianche che coprivano il terreno e gli uccelli dalle piume
iridescenti che riempivano l'aria delle loro voci. Giocò con lei come un
giovane amante, le diede da mangiare in bocca la polpa deliziosa dei manghi
selvatici, la bagnò con le proprie mani di infusioni d'erbe e la fece ridere
con una serenata sotto la sua finestra. Erano anni che non si allontanava dalla
capitale, salvo brevi viaggi in aereo nelle province in cui la sua presenza era
richiesta per soffocare qualche tentativo di insurrezione e ridare al popolo la
certezza che la sua autorità era indiscutibile. Quelle inattese vacanze lo
misero di ottimo umore, la vita gli parve d'un tratto più piacevole ed ebbe la
fantasia che accanto a quella bella donna avrebbe potuto continuare a governare
in eterno. Una notte il sonno lo sorprese tra le sue braccia. Si svegliò
all'alba atterrito, con la sensazione di aver tradito se stesso. Si tirò su
sudando, il cuore in tumulto, e la guardò sul letto, bianca odalisca in riposo,
i capelli di rame che le coprivano il volto. Uscì a dare ordini alla scorta per
il ritorno in città. Non lo sorprese che Marcia non desse mostra di volerlo
accompagnare. Forse in fondo lo preferì, perché capì che lei rappresentava la
sua debolezza più pericolosa, l'unica che avrebbe potuto fargli dimenticare il
potere. Il Benefattore partì per la capitale senza Marcia. Le lasciò mezza
dozzina di soldati per vigilare la proprietà e alcuni domestici per il
servizio, e le promise di mantenere la strada in buone condizioni affinché lei
potesse ricevere i suoi regali, le provviste, la posta e qualche giornale.
Assicurò che sarebbe venuto a trovarla spesso, appena i suoi obblighi di Capo
dello Stato glielo avrebbero permesso, ma salutandosi sapevano entrambi che non
si sarebbero più rivisti. La carovana del Benefattore si perse tra le felci e
per un momento il silenzio circondò il Palazzo d'Estate. Marcia si sentì
veramente libera per la prima volta in vita sua. Si tolse le forcine che le
imprigionavano i capelli in una crocchia e scosse la testa. Le guardie si
sbottonarono la giacca e deposero le armi, mentre i domestici andavano ad
appendere le amache negli angoli più freschi. Dall'ombra gli indios avevano
osservato i visitatori in quelle due settimane. Senza lasciarsi ingannare dalla
pelle chiara e dalla stupenda chioma ricciuta di Marcia Lieberman, la
riconobbero come una di loro, ma non osarono materializzarsi in sua presenza
perché vivevano nella clandestinità da secoli. Dopo la partenza del vecchio e
del suo seguito tornarono silenziosi ad occupare lo spazio in cui erano
esistiti per generazioni. Marcia intuì di non essere mai sola, dovunque andasse
mille occhi la seguivano, attorno a lei sgorgava un mormorio costante, un alito
tiepido, una pulsazione ritmica, ma non ebbe paura, al contrario, si sentì
protetta da folletti gentili. Si abituò a piccoli inconvenienti: uno dei suoi
vestiti spariva per diversi giorni e d'un tratto si trovava una mattina in una
cesta ai piedi del letto, qualcuno divorava la sua cena poco prima che lei
entrasse in sala da pranzo, le rubavano gli acquarelli e i libri, sul suo
tavolo apparivano orchidee appena tagliate, a volte nella vasca da bagno
l'aspettavano foglie di verbena galleggianti nell'acqua fresca, si sentivano le
note dei pianoforti nei saloni vuoti, ansimare di amanti negli armadi, voci di
bambini nel sottotetto. I domestici non riuscivano a spiegare quegli scompigli,
e presto lei smise di interrogarli perché immaginò che anche loro facessero
parte di quella benevola cospirazione. Una notte aspettò nascosta con una
lanterna fra le tende, e quando sentì uno scalpiccio sul marmo accese la luce.
Le parve di vedere alcune figure nude, che per un istante le restituirono uno
sguardo mansueto e subito si eclissarono. Li chiamò in spagnolo, ma nessuno
rispose. Capì che avrebbe dovuto ricorrere a un'immensa pazienza per scoprire
quei misteri, ma non le importò, perché aveva il resto della sua vita davanti.
Alcuni anni dopo il paese fu scosso dalla notizia che la dittatura era finita
per una causa sorprendente: il Benefattore era morto. Benché fosse ormai un vecchio
ridotto a pelle e ossa e imputridisse da mesi nella sua uniforme, pochissimi
immaginavano in realtà che quell'uomo fosse mortale. Nessuno ricordava tempi
anteriori a lui, era al potere da tanti decenni che il popolo si era abituato a
considerarlo un male inevitabile, come il clima. L'eco del funerale giunse con
un po' di ritardo al Palazzo d'Estate. Quasi tutte le guardie e i domestici,
stanchi di aspettare un cambio che non venne mai, avevano disertato. Marcia
Lieberman sentì la notizia senza alterarsi. In realtà dovette fare uno sforzo
per ricordare il suo passato, ciò che c'era al di là della selva e quel vecchio
con gli occhietti da falco che aveva rivoluzionato il suo destino. Si rese
conto che con la morte del tiranno erano scomparse le ragioni di rimanere
nascosta, ora avrebbe potuto tornare alla civiltà, dove certamente a nessuno
più importava lo scandalo del suo ratto, ma scartò subito l'idea, perché non
v'era nulla fuori da quella regione intricata che la interessasse. La sua vita
trascorreva serena tra gli indios, immersa in quella natura verde, vestita
appena con una tunica, i capelli corti, adorna di tatuaggi e piume. Era
completamente felice. Una generazione più tardi, quando la democrazia si era
instaurata nel paese e della lunga storia dei dittatori restava traccia solo
nei libri di scuola, qualcuno si ricordò della villa di marmo e propose di
recuperarla per fondare una Accademia di Belle Arti. Il Parlamento della
Repubblica mandò una commissione a compilare un rapporto, ma le auto si persero
per la strada e quando finalmente giunsero a San Jeronimo nessuno seppe dire
dove si trovava il Palazzo d'Estate. Cercarono di seguire i binari della
ferrovia, ma erano stati strappati dalle traversine e la vegetazione aveva
cancellato le tracce. Il Parlamento inviò allora un distaccamento di
esploratori e un paio di ingegneri militari che sorvolarono la zona in
elicottero, ma la vegetazione era così folta che neppure loro riuscirono a
individuare il luogo. Le tracce del Palazzo si confusero nella memoria della
gente e negli archivi municipali, la nozione della sua esistenza si trasformò
in una chiacchiera da comari, i rapporti furono inghiottiti dalla burocrazia, e
poiché la patria aveva problemi più urgenti il progetto dell'Accademia di Belle
Arti fu aggiornato. Adesso hanno costruito una strada che unisce San Jeronimo
al resto del paese. Dicono i viaggiatori che a volte, dopo un temporale, quando
l'aria è umida e carica di elettricità, sorge improvvisamente accanto alla
carreggiata un bianco palazzo di marmo che per brevi istanti rimane sospeso a
una certa altezza, come un miraggio, e poi scompare senza rumore.
DI POLVERE SIAMO FATTI.
Scoprirono la testa della bambina che spuntava fuori dal
fango, con gli occhi aperti, chiamando senza voce. Aveva un nome da Prima
Comunione, Azucena. In quell'interminabile cimitero, dove l'odore dei morti
attirava gli avvoltoi più remoti e dove i pianti degli orfani e i lamenti dei
feriti riempivano l'aria, quella bimba ostinata a vivere divenne il simbolo
della tragedia. Tanto trasmisero le telecamere la visione insopportabile della
sua testa che fuorusciva dalla melma come una nera zucca, che tutti la
conobbero e la nominarono. E ogni volta che la vedevamo comparire sullo
schermo, dietro c'era Rolf Carlé, che era giunto sul posto attirato dalla
notizia, senza sospettare che vi avrebbe trovato una parte del suo passato
persa trent'anni prima. Prima fu un singhiozzo sotterraneo che scosse i campi
di cotone, increspandoli come un'onda spumosa. I geologi avevano installato i
loro strumenti di misurazione con settimane di anticipo, e sapevano già che la
montagna si era destata un'altra volta. Da molto tempo pronosticavano che il
calore dell'eruzione avrebbe potuto staccare i ghiacci eterni dai fianchi del
vulcano, ma nessuno badò a quegli avvertimenti, perché suonavano troppo come
una storia fantastica. I paesi della valle continuarono la loro esistenza sordi
ai gemiti della terra, fino alla notte di quel mercoledì di novembre funesto,
quando un lungo ruggito annunciò la fine del mondo e le pareti di neve si
staccarono, rotolando in una valanga di fango, pietre e acqua che cadde sui
villaggi, seppellendoli sotto metri insondabili di vomito tellurico. Appena
riuscirono a riscuotersi dalla paralisi del primo terrore, i sopravvissuti si
accorsero che le case, le piazze, le chiese, le bianche piantagioni di cotone,
gli scuri boschetti di caffè e i pascoli dei tori da monta erano scomparsi.
Molto tempo dopo, quando arrivarono i volontari e i soldati a raccogliere i
vivi e a calcolare la magnitudine del cataclisma, stimarono che sotto la melma
dovevano esserci più di ventimila esseri umani e un numero imprecisato di
bestie, a decomporsi in un brodo vischioso. Erano stati spazzati via anche
boschi e fiumi, e non si vedeva altro che un immenso deserto di fango. Quando
telefonarono dalla Televisione all'alba, Rolf Carlé e io eravamo insieme. Mi
alzai dal letto ancora stordita dal sonno e cominciai a preparare il caffè
mentre lui si vestiva in fretta. Mise la sua attrezzatura nella borsa di tela
verde che portava sempre, e ci salutammo come tante altre volte. Non ebbi alcun
presentimento. Rimasi in cucina a sorbire il caffè e a pianificare le ore senza
di lui, certa che il giorno seguente sarebbe tornato. Fu tra i primi ad
arrivare, perché mentre altri giornalisti si avvicinavano ai bordi del pantano
in jeep, in bicicletta, a piedi, aprendosi il passo ciascuno come meglio
poteva, lui contava sull'elicottero della televisione e poté volare sopra la
valanga. Sugli schermi apparvero le scene riprese dalla telecamera del suo
assistente, in cui si vedeva Rolf immerso fino alle ginocchia, con un microfono
in mano, in mezzo a un caos di bambini sperduti, mutilati, cadaveri e rovine.
Il resoconto ci giunse con la sua voce tranquilla. Per anni l'avevo visto nei
notiziari a razzolare fra battaglie e catastrofi, senza che nulla potesse
trattenerlo, con una perseveranza temeraria, e mi sorprendeva sempre il suo
atteggiamento di calma dinanzi al pericolo e alla sofferenza, come se nulla
potesse scuotere la sua forza o dirottare la sua curiosità. La paura non
sembrava sfiorarlo, ma mi aveva confessato di non essere affatto coraggioso.
Credo che la lente della telecamera avesse uno strano effetto su di lui, come
se lo trasportasse in un altro tempo dal quale poteva vedere gli avvenimenti
senza parteciparvi realmente. Conoscendolo meglio capii che quella distanza
fittizia lo preservava dalle sue stesse emozioni. Rolf Carlé fu accanto ad
Azucena fin dall'inizio. Filmò i volontari che la scoprirono e i primi che tentarono
di avvicinarsi a lei, la sua telecamera riprendeva con insistenza la bambina,
il suo volto bruno, gli occhioni desolati, il groviglio compatto dei suoi
capelli. In quel punto il fango era denso, e c'era pericolo di sprofondare. Le
lanciarono una corda che lei non tentò di afferrare, finché le gridarono di
raccoglierla; allora tirò fuori una mano e cercò di muoversi, ma subito affondò
di più. Rolf mise giù la borsa e il resto dell'equipaggiamento e avanzò nel
pantano, commentando al microfono del suo aiutante che faceva freddo e che già
si cominciava a sentire la pestilenza dei cadaveri. “Come ti chiami?” chiese
alla bambina, e lei rispose col suo nome floreale. “Non muoverti, Azucena” le
ordinò Rolf Carlé, e continuò a parlarle senza pensare a ciò che diceva, solo
per distrarla, mentre si trascinava lentamente con il fango fino alla cintola.
L'aria intorno a lui pareva torbida come la melma. Da quella parte non era
possibile avvicinarsi, così indietreggiò e fece il giro verso un punto dove il
terreno sembrava più solido. Quando finalmente fu abbastanza vicino prese la
corda e gliela legò sotto le braccia, perché potessero issarla. Le sorrise con
quel sorriso che gli rimpicciolisce gli occhi e lo fa tornare all'infanzia, le
disse che andava tutto bene, lui era lì con lei, l'avrebbero tirata fuori
subito. Fece segno agli altri di tirare, ma appena la corda si tese la bambina
gridò. Provarono di nuovo e apparvero le spalle e le braccia, ma non riuscirono
a muoverla di più, era impigliata. Qualcuno suggerì che forse aveva le gambe
schiacciate dalle rovine di casa sua, e lei disse che non erano solo macerie,
c'erano anche i corpi dei fratelli che si erano aggrappati a lei. “Non
preoccuparti, ti tireremo fuori” le promise Rolf. Malgrado le difficoltà della
trasmissione notai che la voce gli si spezzava e mi sentii tanto più vicina a
lui. La bambina lo guardò senza rispondere. Nelle prime ore Rolf Carlé diede
fondo a tutte le risorse del suo ingegno per estrarla. Si arrabattò con pali e
corde, ma ogni strattone era un supplizio intollerabile per la prigioniera.
Pensò di costruire un paranco con delle travi, ma la cosa non diede alcun
risultato e dovette abbandonare l'idea. Trovò un paio di soldati che lavorarono
con lui per un po', ma poi lo lasciarono solo perché molte altre vittime
avevano bisogno di aiuto. La bambina non poteva muoversi e riusciva appena a
respirare, ma non sembrava disperata, come se una rassegnazione ancestrale le
permettesse di leggere il proprio destino. Il giornalista invece era deciso a strapparla
alla morte. Gli portarono un pneumatico, che le collocò sotto le braccia come
un salvagente, e poi posò una tavola accanto al buco per appoggiarsi e
raggiungerla meglio. Poiché era impossibile rimuovere le macerie alla cieca, si
immerse un paio di volte per esplorare quell'inferno, ma ne uscì esasperato,
coperto di melma, sputando pietre. Dedusse che ci voleva una pompa per estrarre
l'acqua e la fece chiedere per radio, ma tornarono con la risposta che non
c'erano mezzi di trasporto e non potevano mandarla prima di una settimana. “Non
possiamo aspettare tanto!” gridò Rolf Carlé, ma in quel disastro nessuno ebbe
il tempo di compatirlo. Avrebbero dovuto passare ancora molte ore prima che
accettasse il fatto che il tempo si era arrestato e che la realtà aveva
sofferto una distorsione irrimediabile. Un medico militare si avvicinò a
esaminare la bambina, e affermò che il cuore funzionava bene e che se la
temperatura non scendeva troppo quella notte avrebbe potuto resistere. “Abbi
pazienza, Azucena, domani arriverà la pompa, cercò di consolarla Rolf Carlé.
“Non lasciarmi sola” gli chiese lei. “No, certo che no.” Gli portarono del
caffè e lui lo diede alla bambina, un sorso dopo l'altro. Il liquido caldo la
rianimò e cominciò a parlare della sua piccola vita, della sua famiglia e della
scuola, di com'era quel frammento di mondo prima che scoppiasse il vulcano.
Aveva tredici anni e non era mai uscita dai confini del suo villaggio. Il
giornalista, sostenuto da un ottimismo prematuro, si convinse che tutto sarebbe
finito bene, sarebbe arrivata la pompa, avrebbero estratto l'acqua, sgomberate
le macerie, e Azucena sarebbe stata portata in elicottero in un ospedale dove
si sarebbe ripresa rapidamente e lui le avrebbe fatto visita portandole dei
regali. Pensò che ormai non aveva più l'età per le bambole e non sapeva cosa le
sarebbe piaciuto, forse un vestito. Non me ne intendo molto di donne, concluse
divertito, calcolando che ne aveva avute tante in vita sua, ma nessuna gli
aveva insegnato queste cose. Per ingannare le ore cominciò a raccontarle i suoi
viaggi e le sue avventure di cacciatore di notizie, e quando gli si esaurirono
i ricordi fece ricorso alla fantasia per inventare qualsiasi cosa che potesse
distrarla. Ogni tanto lei dormicchiava, ma lui continuava a parlarle nel buio,
per dimostrarle che non se n'era andato e per vincere l'agguato
dell'incertezza. Fu una lunga notte.
A molte miglia da lì, io osservavo su uno schermo Rolf
Carlé e la bambina. Non resistevo all'attesa in casa, e andai alla Televisione
Nazionale, dove molte volte avevo passato notti intere con lui a curare
programmi. Così gli fui vicina e potei partecipare a ciò che visse in quei tre
giorni definitivi. Ricorsi a tutte le persone importanti della città, senatori
della Repubblica, generali delle Forze Armate, l'ambasciatore degli Stati Uniti
e il presidente della Compagnia Petrolifera, implorando una pompa per estrarre
la melma, ma ottenni solo vaghe promesse. Cominciai a chiederla con urgenza per
radio e televisione, in caso ci fosse qualcuno che potesse aiutarci. Fra una
chiamata e l'altra correvo al centro di ricezione per non perdere le immagini
del satellite, che arrivavano a intervalli con nuovi particolari della
catastrofe. Mentre i giornalisti selezionavano le scene di maggior impatto per
il notiziario, io cercavo quelle in cui compariva la buca di Azucena. Lo
schermo riduceva il disastro a un solo piano e accentuava la tremenda distanza
che mi separava da Rolf Carlé, ma io ero con lui, ogni patimento della bambina
mi faceva male come a lui, sentivo la sua stessa frustrazione, la sua stessa
impotenza. Di fronte all'impossibilità di mettermi in comunicazione con lui, mi
venne in mente la risorsa fantastica di concentrarmi per raggiungerlo con la
forza del pensiero e fargli coraggio. Ogni tanto mi stordivo in una frenetica e
inutile attività, oppure mi vinceva la pena e scoppiavo a piangere, altre volte
la stanchezza aveva la meglio e credevo di guardare attraverso un telescopio la
luce di una stella morta un milione di anni fa. Nel primo telegiornale del
mattino vidi quell'inferno, in cui galleggiavano cadaveri di uomini e animali
trascinati dalle acque di nuovi fiumi formati in una sola notte dalla neve
sciolta. Dalla melma spuntavano le chiome di alcuni alberi e il campanile di
una chiesa, dove diverse persone avevano trovato rifugio e aspettavano
pazientemente le squadre di soccorso. Centinaia di soldati e volontari della
Difesa Civile tentavano di rimuovere le macerie in cerca dei superstiti, mentre
lunghe file di spettri in cenci aspettavano il loro turno per una tazza di
brodo. Le reti radiofoniche informavano che i loro centralini erano
congestionati dalle telefonate di famiglie che offrivano alloggio ai bambini
orfani. Scarseggiavano l'acqua potabile, la benzina, i cibi. I medici, rassegnati
ad amputare membra senza anestesia, reclamavano almeno siero, analgesici e
antibiotici, ma la maggior parte delle strade erano interrotte e per di più la
burocrazia ritardava tutto. Intanto il fango contaminato dai cadaveri in
decomposizione minacciava di epidemia i vivi. Azucena tremava appoggiata al
pneumatico che la teneva in superficie. L'immobilità e la tensione l'avevano
indebolita molto, ma rimaneva cosciente e parlava ancora con voce percettibile
quando le avvicinavano un microfono. Il suo tono era umile, come se stesse
chiedendo scusa per aver causato tanto fastidio. Rolf Carlé aveva la barba
lunga e borse scure sotto gli occhi, sembrava esausto. Anche a quell'enorme
distanza potei cogliere la qualità di quella stanchezza, diversa da tutte le
fatiche precedenti della sua vita. Aveva dimenticato completamente la
telecamera, non poteva più guardare la bambina attraverso una lente. Le
immagini che ci pervenivano non erano del suo assistente, ma di altri
giornalisti che si erano impadroniti di Azucena, attribuendole la patetica
responsabilità di incarnare l'orrore dell'accaduto. Fin dall'alba Rolf Carlé si
sforzò di nuovo di rimuovere gli ostacoli che trattenevano la bambina in quella
tomba, ma disponeva solo delle mani, non osava utilizzare attrezzi perché
avrebbe potuto ferirla. Diede ad Azucena la tazza di pappa di mais e banane che
distribuiva l'Esercito, ma lei la vomitò subito. Accorse un medico e accertò
che aveva la febbre, ma disse che non si poteva fare molto, gli antibiotici
erano riservati per i casi di cancrena. Si avvicinò anche un sacerdote a
benedirla e ad appenderle al collo una medaglietta della Madonna. Nel
pomeriggio cominciò a cadere una pioggerella leggera, persistente. “Il cielo
sta piangendo” mormorò Azucena, e si mise a piangere anche lei. “Non
spaventarti” la supplicò Rolf. “Devi conservare le forze e stare tranquilla,
andrà tutto bene, io sono qui con te e ti tirerò fuori in qualche maniera.”
Tornarono i giornalisti per fotografarla e rivolgerle le stesse domande cui lei
non tentava più di rispondere. Intanto arrivavano altre attrezzature televisive
e cinematografiche, rotoli di cavi, nastri, pellicole, video, lenti di
precisione, registratori, consolle, riflettori, schermi antiriflesso, batterie
e motori, casse di pezzi di ricambio, elettricisti, tecnici del suono e
cameramen, che proiettarono il volto di Azucena su milioni di schermi in tutto
il mondo. E Rolf Carlé continuava a chiedere una pompa. Lo spiegamento di forze
diede risultati, e alla Televisione Nazionale cominciammo a ricevere immagini
più chiare e suoni più nitidi, la distanza parve accorciarsi improvvisamente e
provai la sensazione atroce che Azucena e Rolf si trovassero accanto a me,
separati da un vetro irriducibile. Potei seguire gli avvenimenti ora per ora,
seppi ciò che fece il mio amico per strappare la bambina dalla sua prigione e
per aiutarla a sopportare il suo calvario, ascoltai frammenti di ciò che si
dissero e il resto potei indovinarlo, fui presente quando lei insegnò a Rolf a
pregare e quando lui la distrasse con le storie che io gli avevo raccontato per
mille e una notte sotto la zanzariera bianca del nostro letto. Quando venne la
sera del secondo giorno lui cercò di farla dormire con le vecchie canzoni
austriache imparate da sua madre, ma lei era al di là del sonno. Passarono gran
parte della notte a parlare, ambedue sfiniti, affamati, scossi dal freddo. E
allora, a poco a poco, caddero le robuste paratie che avevano trattenuto il
passato di Rolf Carlé per tanti anni, e il torrente di ciò che aveva occultato
negli strati più profondi e segreti della memoria uscì fuori finalmente
travolgendo al suo passaggio gli ostacoli che per tanto tempo avevano bloccato
la sua coscienza. Non tutto poté dire ad Azucena, lei forse non sapeva che
c'era un mondo di là dal mare e un tempo anteriore al suo, era incapace di
immaginare l'Europa nell'epoca della guerra, dunque non le raccontò la
disfatta, né del giorno in cui i russi lo portarono al campo di concentramento
per seppellire i prigionieri morti di fame. Perché spiegarle che i corpi nudi,
accumulati come una pila di legname, sembravano di fragile porcellana? Come
parlare dei forni e delle forche a quella bambina moribonda? Né menzionò la
notte in cui vide sua madre nuda, calzata con scarpe rosse dai tacchetti a
spillo, che piangeva di umiliazione. Molte cose tacque, ma in quelle ore
rivisse per la prima volta tutto ciò che la sua mente aveva cercato di
cancellare. Azucena gli affidò la sua paura e così, senza volerlo, obbligò Rolf
ad affrontare la propria. Lì, accanto a quel buco maledetto, a Rolf fu
impossibile continuare a sfuggire a se stesso, e il terrore viscerale che aveva
segnato la sua infanzia lo colse di sorpresa. Retrocesse all'età di Azucena e
più indietro ancora, e si trovò come lei intrappolato in un pozzo senza uscita,
sepolto vivo, la testa a fil di terra, vide accanto al suo viso gli stivali e
le gambe di suo padre, che si era tolto la cintura e l'agitava in aria con il
sibilo indimenticabile di una vipera furiosa. Il dolore lo invase, intatto e preciso,
come sempre era stato rannicchiato nella sua mente. Tornò all'armadio dove suo
padre lo chiudeva a chiave per punirlo di colpe immaginarie e vi rimase per ore
eterne con gli occhi chiusi per non vedere il buio, le orecchie tappate con le
mani per non sentire i battiti del proprio cuore, tremando, rattrappito come un
animale. Nella nebbia dei ricordi incontrò sua sorella Katharina, una dolce
creatura ritardata che passò l'esistenza nascosta con la speranza che il padre
dimenticasse la disgrazia della sua nascita. Si trascinò accanto a lei sotto il
tavolo da pranzo, e lì nascosti da una lunga tovaglia bianca i due bambini
rimasero abbracciati, attenti ai passi e alle voci. L'odore di Katharina gli
giunse mescolato a quello del proprio sudore, agli aromi della cucina, aglio,
minestra, pane appena sfornato, e a uno strano odore di fango putrido. La mano
della sorella nella sua, il suo ansimare spaventato, la carezza dei suoi
capelli ribelli sulle guance, l'espressione candida del suo sguardo. Katharina,
Katharina... sorse davanti a lui fluttuando come una bandiera, avvolta nella
tovaglia bianca trasformata in sudario, e poté finalmente piangere la sua morte
e la colpa di averla abbandonata. Capì allora che le sue imprese di
giornalista, quelle che tanti riconoscimenti e tanta fama gli avevano dato,
erano solo un tentativo di tenere sotto controllo la sua paura più antica,
mediante lo stratagemma di rifugiarsi dietro una lente per vedere se così la
realtà gli risultava più tollerabile. Affrontava rischi sproporzionati come
esercizio di coraggio, allenandosi di giorno per vincere i mostri che lo
tormentavano di notte. Ma era venuto il momento della verità e non poté più
fuggire dal suo passato. Lui era Azucena, era sepolto nel fango, il suo terrore
non era l'emozione remota di un'infanzia quasi dimenticata, era un artiglio
stretto sulla gola. Nell'oppressione del pianto gli apparve sua madre, vestita
di grigio e con la borsetta di pelle di coccodrillo stretta al seno, come
l'aveva vista per l'ultima volta sul molo quando era venuta a salutarlo sulla
nave in cui si era imbarcato per l'America. Non veniva ad asciugargli le
lacrime, ma a dirgli di prendere una pala, perché la guerra era finita e ora
dovevano seppellire i morti. “Non piangere. Non mi fa più male niente, sto
bene” gli disse Azucena all'alba. “Non piango per te, piango per me, che mi fa
male tutto” sorrise Rolf Carlé.
Nella valle del cataclisma il terzo giorno iniziò con una
pallida luce tra i nuvoloni. Il Presidente della Repubblica giunse nella zona e
apparve in tenuta da campo per confermare che era la peggior disgrazia del
secolo, il paese era in lutto, le nazioni sorelle avevano offerto aiuto, si
ordinava lo stato d'assedio, le Forze Armate non avrebbero avuto pietà,
avrebbero fucilato senza processo chiunque fosse stato sorpreso a rubare o a
commettere altri delitti. Aggiunse che era impossibile recuperare tutti i
cadaveri o accertare la sorte delle migliaia di dispersi, per cui l'intera
valle sarebbe stata dichiarata camposanto e i vescovi sarebbero venuti a
celebrare una messa solenne per l'anima delle vittime. Si diresse alle tende
dell'Esercito, dove si accalcavano i salvati, per dar loro il sollievo di
promesse incerte, e all'improvvisato ospedale per dire una parola di
incoraggiamento ai medici e alle infermiere, stremati da tante ore di penurie.
Poi si fece condurre al luogo in cui si trovava Azucena, che allora era già
celebre perché la sua immagine aveva fatto il giro del pianeta. La salutò con
la sua languida mano di statista e i microfoni registrarono la sua voce
commossa e il suo accento paterno quando le disse che il suo coraggio era un
esempio per la patria. Rolf Carlé lo interruppe per chiedergli una pompa, e lui
gli assicurò che se ne sarebbe occupato personalmente. Riuscii a vedere Rolf
per qualche istante, in ginocchio accanto al buco. Nel telegiornale della sera
si trovava nella stessa posizione; e io, china sullo schermo come un'indovina
sulla sfera di cristallo, capii che qualcosa di fondamentale era cambiato in
lui, indovinai che durante la notte erano crollate le sue difese e si era
arreso al dolore, finalmente vulnerabile. Quella bambina aveva toccato una
parte della sua anima cui lui stesso non aveva avuto accesso, e che non
condivise mai con me. Rolf volle consolarla, e fu Azucena a consolare lui. Mi
resi conto del momento preciso in cui Rolf smise di lottare e si abbandonò al
tormento di vegliare l'agonia della bambina. Io fui con loro per tre giorni e
tre notti, spiandoli dall'altro lato della vita. Mi trovavo lì quando lei gli
disse che nei suoi tredici anni di vita nessun ragazzo l'aveva amata, e che era
un peccato andarsene da questo mondo senza conoscere l'amore, e lui le assicurò
che l'amava come non avrebbe mai potuto amare nessuno, più di sua madre e sua
sorella, più di tutte le donne che avevano dormito fra le sue braccia, più di
me, la sua compagna, che avrebbe dato qualunque cosa per essere intrappolato in
quel buco al suo posto, che avrebbe scambiato la propria vita con quella di
lei, e vidi quando si chinò sulla sua povera testa e la baciò in fronte,
confuso da un sentimento dolce e triste che non sapeva definire. Sentii come in
quell'istante si salvarono entrambi dalla disperazione, si liberarono dal
fango, si innalzarono al di sopra degli avvoltoi e degli elicotteri, volarono
insieme sopra quel vasto pantano di putredine e lamenti. E finalmente poterono
accettare la morte. Rolf Carlé pregò in silenzio che lei morisse presto, perché
non era più possibile sopportare tanto dolore. Allora io avevo trovato una
pompa, ed ero in contatto con un generale pronto a mandarla la mattina del
giorno seguente con un aereo militare. Ma la sera di quel terzo giorno, sotto
le implacabili lampade al quarzo e le lenti di cento telecamere, Azucena si
arrese, gli occhi perduti in quelli dell'amico che l'aveva sostenuta fino alla
fine. Rolf Carlé le tolse il salvagente, le chiuse gli occhi, la tenne stretta
al petto per alcuni minuti e poi la lasciò. Affondò lentamente, un fiore nel
fango.
Sei tornato con me, ma non sei più lo stesso uomo. Ogni
tanto ti accompagno alla Televisione e rivediamo i video di Azucena, li studi
con attenzione, cercando qualcosa che avresti potuto fare per salvarla e che
non ti venne in mente in tempo. O forse li esamini per vederti come in uno
specchio, nudo. Le tue telecamere sono abbandonate in un armadio, non scrivi né
canti, rimani per ore seduto davanti alla finestra guardando le montagne. Al
tuo fianco, io aspetto che tu abbia completato il viaggio dentro te stesso e
guarito le vecchie ferite. So che quando tornerai dai tuoi incubi cammineremo
ancora mano nella mano, come prima.
E in quel momento della sua narrazione Sherazade vide
apparire l'alba e tacque discretamente. (Le mille e una notte)
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