domenica 10 ottobre 2010

Film Integrale "F R I D A"...una grande e "speciale"pittrice Mexicana: §* * * F R I D A K A H L O - Opere - Biografia - Bibliografia * * * §

F R I D A  K A H L O



FRIDA KAHLO

« Pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni. »
(Frida Kahlo, Time Magazine, "Mexican Autobiography" (1953-04-27))

"Commentare questo film t o t a l e è impresa, almeno per me, ardua...lo vidi due volte di seguito, appena uscito nelle sale di 1a visione...il locale non esiste più, c'è altro, ora...è un tornado di emozioni altissime, musiche eccezionali, recitazione...recitazione...perchè aggettivare UN CAPOLAVORO? Salma Hayek interpreta non-una-mexicana...non-una-pittrice...non-una-caparbia-sterile....Salma Hayek vi *porge LA DONNA che vuole essere SOLO SE STESSA, senza patteggiamenti*....vi porge un femminino in gestazione, la reale ESSENZA DELLA DONNA che *deve ancora nascere*...ma, Salma, forse, attraverso la turbolenta vita di Frida Kalo, *mostra la strada per compiere questa gestazione NON INDOLORE: nascere a se stesse per ESSERE SE STESSE!*...questo può farlo solo una donna con una profonda consapevolezza e Salma Hayek  è questo...mentre recita in maniera fuori del comune, *è consapevole!*....E' una donna bellissima, iperfotografata...In *F R I D A*, Salma rinuncia alla sua faccia da rotocalco e regala a tutte le donne uno spunto, dal quale partire per iniziare e compiere quella gestazione,...*oggi, così essenziale, importante per tutta l'Umanità...!!!* 
Frida Kahlo Diego Rivera 1932.jpg
Frida Kahlo con il marito Diego Rivera nel 1932, foto di Carl Van Vechten
Frida Kahlo, il cui nome completo era Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907Coyoacán, 13 luglio 1954), è stata una pittrice messicana.

 


La vita

Frida Kahlo era figlia di Wilhelm Kahlo, tedesco, nato a Baden-Baden da genitori ebrei tedeschi, emigrato in Messico dall'Ungheria (dalla città di Arad, oggi sotto la Romania). Fu una pittrice dalla vita quanto mai travagliata. Sosteneva di essere nata nel 1910, poiché si sentiva profondamente figlia della rivoluzione messicana di quell'anno e del Messico moderno.

 La sua attività artistica ha avuto di recente una rivalutazione, in particolare in Europa con l'allestimento di numerose mostre.
Affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiarono per poliomielite (ne era affetta anche sua sorella minore), fin dall'adolescenza manifestò talento artistico e uno spirito indipendente e passionale, riluttante verso ogni convenzione sociale.

A 17 anni rimase vittima di un incidente stradale tra un autobus su cui viaggiava e un tram, a causa del quale riportò gravi fratture tra cui 2 alle vertebre lombari, 5 al bacino, 11 al piede destro e la lussazione del gomito sinistro, inoltre un corrimano dell'autobus si staccò, le trafisse il fianco e uscì dalla vagina. Ciò la segnerà a vita costringendola a numerose operazioni chirurgiche. Dimessa dall'ospedale, fu costretta ad anni di riposo nel suo letto di casa col busto ingessato. Questa forzata situazione la spinse a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere.

Il suo primo soggetto fu un suo autoritratto che in seguìto diede in dono al ragazzo di cui era innamorata. Da ciò la scelta dei genitori di regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto, in modo tale che potesse vedersi, e dei colori; cosicché iniziò la serie di autoritratti. Dopo che le fu rimosso il gesso riuscì a recuperare la capacità di camminare, sebbene non senza dolori, che sopporterà a vita.

Portò i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore murale dell'epoca, per avere una sua critica. Rivera rimase colpito dallo stile moderno della giovane artista tanto che la trasse sotto la sua ala e la inserì nella scena politica e culturale messicana.

Divenne un'attivista del partito comunista messicano cui si iscrisse nel 1928, partecipò a numerose manifestazioni e nel frattempo si innamorò di colui che era stata la sua "guida". Infatti nel 1929 il 21 agosto sposò Rivera, che era al suo terzo matrimonio, pur sapendo dei continui tradimenti a cui andava incontro. Dopo anni di dolori coniugali,prese a fare lo stesso, anche con esperienze omosessuali.

In quegli anni al marito Rivera furono commissionati alcuni lavori negli USA, come il muro all'interno del Rockefeller Center di New York, o gli affreschi per la fiera internazionale di Chicago. A seguito dello scalpore suscitato dall'affresco nel Rockefeller Center, in cui un operaio era chiaramente raffigurato col volto di Lenin, gli furono revocate tali commissioni. Nello stesso periodo di soggiorno a New York la Kahlo rimase incinta, per poi avere un aborto spontaneo a gravidanza inoltrata a causa dell'inadeguatezza del suo fisico a sopportare una gestazione. Ciò, ovviamente, la scosse molto. Quindi decise di tornare in Messico col marito.

I due decisero di vivere in due case separate collegate, però, da un ponte, in modo da avere ognuno i propri spazi "da artista". Nel 1939 però, i due divorziarono a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida.

Rivera tornò da Frida un anno dopo, difatto non l'aveva mai dimenticata e, malgrado i tradimenti, mai aveva smesso di amarla. Le fece una nuova proposta di matrimonio che lei accettò non senza qualche riserva. Si risposarono nel 1940 a San Francisco. Da lui aveva assimilato uno stile volutamente naïf che la portò a dipingere in particolare piccoli autoritratti ispirati all'arte popolare e alle tradizioni precolombiane. La sua chiara intenzione era, ricorrendo a soggetti tratti dalle civiltà native, affermare in maniera inequivocabile la propria identità messicana.

Il suo cruccio maggiore fu quello di non aver avuto figli. La sua appassionata (e all'epoca discussa) storia d'amore con Rivera è raccontata in un suo diario. Ebbe - dicono le cronache - numerosi amanti, di ambo i sessi, con nomi che, neanche all'epoca, potevano passare inosservati come quelli del rivoluzionario russo Lev Trotsky e del poeta André Breton. Fu amica e probabilmente amante di Tina Modotti, militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti.

Pochi anni prima della sua morte le venne amputata la gamba destra, in evidente stato di cancrena. Le ultime parole che scrisse nel suo diario sono "Attendo con gioia la mia dipartita. E spero di non tornare mai più."

Caratteristiche artistiche

Il regalo del letto a baldacchino con annessa installazione di uno specchio durante il suo prolungato immobilismo, ebbero inizialmente per Frida un effetto sconvolgente e la portarono al ricorrente tema dell'autoritratto. Il primo che dipinse fu per il suo amore adolescenziale, Alejandro.

Nei suoi ritratti raffigurò molto spesso gli aspetti drammatici della sua vita, il maggiore dei quali fu il grave incidente di cui rimase vittima nel 1925 mentre viaggiava su un autobus. I postumi di quell'incidente (un palo le perforò il bacino e a causa delle ferite sarà sottoposta nel corso degli anni a trentadue interventi chirurgici) condizioneranno la sua salute (ma non la sua tensione morale) per tutta la vita. Il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato caratterizza uno degli aspetti fondamentali della sua arte: crea visioni del corpo femminile non più distorto da uno sguardo maschile.

Allo stesso tempo coglie l'occasione di difendere il suo popolo attraverso gli autoritratti, facendovi confluire quel folclore messicano e quell'autobiografismo utopico che li rende originali rispetto alla canonica pittura di storia.
Sotto questo aspetto, forte (ma non privo talvolta di un certo humour) risulta nei suoi quadri l'impatto di elementi fantastici accostati a oggetti in apparenza incongruenti. Si tratta di quadri di piccole dimensioni (Frida predilige il formato 30 x 37 cm) dove si ritrae con una colonna romana fratturata al posto della spina dorsale o circondata dalle scimmie che cura come figlie nella sua Casa Azul.

Tre importanti esposizioni le furono dedicate nel 1938 a New York, l'anno successivo a Parigi e nel 1953, un anno prima della morte, a Città del Messico. Nella sua casa di Coyoacán, la "Casa Azul", sorge oggi il Museo Frida Kahlo.

Il rapporto con il Surrealismo

A partire dal 1938 la pittura si intensifica: i suoi dipinti non si limitano più alla semplice descrizione degli ‘incidenti’ della sua vita, parlano del suo stato interiore e del suo modo di percepire la relazione con il mondo e quasi tutti includono tra i soggetti un bambino, sua personificazione.

Nel 1938 il poeta e saggista surrealista André Breton vide per la prima volta il suo lavoro: ne rimase talmente stregato da proporle una mostra a Parigi e proclamò che Frida fosse ‘una surrealista creatasi con le proprie mani’. A Parigi Frida frequentò i surrealisti facendosi scortare nei caffè degli artisti e nei night club, tuttavia trovò la città decadente; sapeva che l’etichetta surrealista le avrebbe portato l’approvazione dei critici, ma le piaceva l’idea di essere considerata un’artista originale.

Quello che può essere considerato il suo lavoro più surrealista è Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità,memoria e dolore galleggiano nell’acqua di una vasca da bagno dalla quale affiorano le gambe dell’artista. In quest’opera così enigmatica sono chiari i riferimenti a Dalì soprattutto per l’insistenza sui dettagli minuti.

Estremamente surreale è anche il suo diario personale, iniziato nel 1944 e tenuto fino alla morte, si tratta di una sorta di monologo interiore scandito da immagini e parole. Per molte immagini il punto di partenza era una macchia di inchiostro o una linea, come se usasse la tecnica dell’automatismo per verificare le sue nevrosi.

In ogni caso, nonostante l’accento posto sul dolore, sull’erotismo represso e sull’uso di figure ibride, la visione di Frida era ben lontana da quella surrealista: la sua immaginazione non era un modo per uscire dalla logica ed immergersi nel subconscio, ma piuttosto il prodotto della sua vita che lei cercava di rendere accessibile attraverso un simbolismo. La sua idea di surrealismo era giocosa, diceva che esso ‘’è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio, dove eri sicuro di trovare le camicie’’. Anni dopo Frida negherà violentemente di aver preso parte al movimento, forse perché negli anni quaranta questo cessò di essere di moda.

Influenza culturale

Frida Kahlo è stata la prima donna latinoamericana ritratta su un francobollo degli Stati Uniti, emesso il 21 giugno 2001. L'immagine scelta è un autoritratto dell'artista eseguito nel 1933.
La vita, passione e morte di Frida Kahlo sono state raccontate in almeno tre film, l'ultimo dei quali - tratto dalla biografia scritta da Hayden Herrera - è stato girato dalla regista Julie Taymor (Frida) e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2002.

Opere - Dipinti : http://www.google.it/images?hl=it&biw=1276&bih=588&gbv=2&q=frida%20kahlo%20opere&wrapid=tlif12867164549312&um=1&ie=UTF-8&source=og&sa=N&tab=vi

  • Ritratto di Alicia Galant - (1927) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Ritratto di Miguel N. Lira - (1927) - Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
  • L'autobus - (1929) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Autoritratto - (1930)
  • Autoritratto con scimmia - (1930) - Albright-Knox Art Gallery, Buffalo(New York)
  • Frida e Diego - (1931) - San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
  • Ritratto di Eva Frederick - (1931) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Ritratto di Luther Burbank - (1931) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) - (1932) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti - (1932)
  • La mia nascita - (1932)
  • Il mio vestito è appeso là (o New York) - (1933)
  • Qualche piccola punzecchiatura - (1935) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • I miei nonni, i miei genitori e io - (1936)
  • Autoritratto dedicato a Lev Trockij - (1934) - National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
  • Frida e l'aborto - (1936) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Il piccolo defunto Dimas Rosas all'età di tre anni - (1937) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • La mia balia e io - (1937) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Ricordo - (1937)
  • Ciò che ho visto nell'acqua e ciò che l'acqua mi ha dato - (1938)
  • I frutti del cuore - (1938)
  • Il cane itzcuintli con me - (1938)
  • Quattro abitanti del Messico - (1938)
  • Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) - (1939) - Collezione Privata
  • Il suicidio di Dorothy Hale - (1939) - Phoenix Art Museum, Phoenix
  • Le due Frida - (1939) - Museo de Arte Moderno, Città del Messico
  • Autoritratto con collana di spine - (1940)
  • Autoritratto con i capelli tagliati - (1940) - Museum of Modern Art, New York
  • Autoritratto con scimmia - (1940)
  • Autoritratto per il Dr. Eloesser - (1940)
  • Il sogno (o Il letto) - (1940)
  • Cesto di fiori - (1941)
  • Io con i miei pappagalli - (1941)
  • Autoritratto con scimmia e pappagallo - (1942)
  • Autoritratto con scimmie - (1943)
  • La novella sposa che si spaventa all'aprirsi della vita - (1943)
  • Retablo - (1943 circa)
  • Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) - (1943)
  • Pensando alla morte (1943) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Radici (1943) - Collezione privata
  • Diego e Frida 1929-1944 - (1944)
  • Fantasia - (1944) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Il fiore della vita - (1944) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • La colonna spezzata - (1944) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Ritratto di Donna Rosita Morillo - (1944) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Il pulcino - (1945) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • La maschera - (1945) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Mosè (o Il nucleo solare) - (1945)
  • Ritratto con scimmia - (1945) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Senza speranza - (1945) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Il piccolo cervo - (1946)
  • Autoritratto con i capelli sciolti - (1947)
  • Albero della speranza mantieniti saldo - (1946)
  • Il sole e la vita - (1947)
  • Autoritratto - (1948)
  • Diego e io - (1949) - Collezione privata
  • L'abbraccio amorevole dell'universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl - (1949)
  • Autoritratto con ritratto del Dr. Farill - (1951)
  • Ritratto di mio padre - (1951) - Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
  • Perché voglio i piedi se ho le ali per volare - (1953) - Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
  • Autoritratto con Diego nel mio Cuore - (1953-1954) - Collezione Privata
  • Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) - (1954 circa) - Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
  • Il cerchio - (1954 circa) - Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
  • Il marxismo guarirà i malati - (1954 circa) - Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
OPERE - Video : http://www.google.it/search?hl=it&biw=1276&bih=588&gbv=2&q=frida+kahlo+opere&wrapid=tlif12867164549312&um=1&ie=UTF-8&tbo=u&tbs=vid:1&source=og&sa=N&tab=iv

Bibliografia

  • Frida - 2010 - Herrera Hayden - Baldini Castoldi Dalai editore

VOCI CORRELATE:

- FILM: F R I D A

    LA MIA NASCITA
    Frida_Kahlo_the_love_embrace_of_the_universe_1949.jpg
    AUTORITRATTO
    Autoritratto
    § * * * I N F I N I T A M E N T E_P E R  L'E T E R N I T A' * * * §

                                                                             

 

domenica 26 settembre 2010

T A R A V E R D E - § * * * Tara ed il Culto della Femminilita' nel Buddismo * * * §





Tara ed il Culto della Femminilita' nel Buddismo

Nel Buddismo, malgrado la riluttanza dei maestri nell’ammettere le donne nell'ordine, la femminilità fu una necessità psicologica e fu inclusa nella relativa struttura spirituale. La compassione - l’aspetto più tenero dell’essere, sia umano che divino, che era il cuore del Buddismo, si rivelò al meglio nella struttura femminile.

Quindi, nel corso del tempo, il femminile dominò così tanto l’ambiente buddista che persino immagini di alcune divinità maschili, come Avalokiteshvara, furono concepite con sembianze un pò femminili nella loro figura e come aspetto essenziale della personalità.

La tenerezza e la grazia prettamente femminili con cui le successive immagini buddiste furono concepite, definiscono l'epitome dell’iconografia e dell'arte buddista. Dopo benevolenza e protezione, altre virtù che rappresentavano meglio la femminilità furono aggiunte a quella cardinale della compassione. Questo aspetto femminile fu più diversificato e spinto, col risultato che durante la fase Mahayana, ancor più nel Buddismo Tibetano, il numero di divinità femminili raggiunse il migliaio.

A parte queste psicodinamiche, fattori esterni del Buddismo, specialmente il culto della pluralità del Brahamanesimo e la preponderanza degli elementi femminili, giocarono un ruolo vitale nel determinare il rapporto maschio-femmina ed anche la loro relativa importanza nel Buddismo. Più o meno dal sesto secolo la reciprocità delle Brahmaniche divinità maschili e femminili, era stata totalmente rivoluzionata, con la supremazia e la priorità di quelle femminili su quelle maschili, persino sulla grande Trinità - Brahma, Vishnu e Shiva. Testi come il ‘Devi-Mahatmya’ nel Markandeya Purana, e il ‘Devi-Bhagavata’ tra gli altri, hanno insediato la Devi (la Dea) non solo per il suo possedere cumulativi attributi ed energie di tutte le divinità maschili, ma addirittura precedendoli, perfino nella creazione. Invocando una forma o un aspetto differente, in ciascuno dei 'dhyana' - le visioni meditative, questi testi hanno percepito la Devi - Divino Femminile, come una ed anche molte, con la prima che definiva l’unità e le altre, la diversità. A questa pluralità furono aggiunte le sue 'shakti' - poteri subordinati.

Gli aborigeni, come pure gli Ariani Vedici, avevano alcune antiche divinità femminili ma mentre quelle nella precedenti tradizioni erano solo icone locali poco-funzionali che conferivano benefici, la maggior parte delle successive, rappresentate da elementi non-iconici o aspetti della natura - che solitamente infliggevano terrore, e venivano placate da lodi e da offerte di 'havya!' -. Tuttavia, la successiva più completa forma di Devi, post-Devi-Mahatmya, era completamente differente da entrambe.

Anche il Buddismo aveva avuto in precedenza alcune divinità femminili, principalmente ereditate dai culti del passato, come la Dea della Terra, ed alcune yakshani, Hariti in particolare, dalle tribù aborigene, e Lakshmi e Saraswati, dai Vedici. Interessante è che la Dea della Terra che aveva avuto una presenza iconica nei culti pre-Buddisti, fu nel Buddismo una presenza simbolica, mentre Lakshmi e Saraswati, divinità aniconiche dei Vedici, ebbero ben definite forme iconografiche nel Buddismo. Quando il Buddha ha invocato la madre Terra per essere testimone al suo atto di conquista su Mara ed il suo esercito, la percepì tutta vedendola come senza-forma, competente per certificare la genuinità del suo atto.

Tranne il Lalitavistara, che parla di lei mentre appare di persona, o il Nidanakatha ed il Mahavastu che parlano del suo tremito mentre scaccia Mara ed il suo esercito, in tutta la letteratura buddista la madre Terra rimane una presenza spirituale aniconica non-operante. Alla Dea della Terra si allude in alcuni testi, a volte ripetutamente, come Sthavara - la Tenace, che possiede un milione di forme, ed altre volte come Aparajita - L’Invincibile, che non compare ancora nelle descrizioni buddiste. Nelle descrizioni del Mahayana lei appare prima della pellegrina Suthana, ma solo per proclamare che lei fu la testimone 'delle trasformazioni spirituali di tutti i Buddha, allorchè essi stavano quasi per ottenere l’Illuminazione', un ruolo identico al suo precdente. Più tardi, dopo che Mayadevi, la madre del Buddha, fu deificata presso Lumbini, dove nacque il Buddha, il ruolo della Dea Madre si spostò su di lei.

Questa umanizzata madre del loro Maestro, era una madre più intima e ispirava una maggiore riverenza della simbolica Dea della Terra. Come narra la tradizione, Mayadevi restituì la sua forma mortale subito dopo che il Buddha fu partorito, solo per cercare una libertà più grande e per andare a rivisitare il suo figlio ogni volta che lo desiderava. Di conseguenza, ogni volta che nasceva un Bodhisattva Mayadevi ricreava se-stessa per essere sua madre. E così lei fu la madre di tutti i Bodhisattva e di tutti i Buddha, essendo presente in tutte le temibili occasioni della vita del Buddha, come quando presso il fiume Niranjana egli fortemente emaciato a causa del digiuno. I suoi occhi si  bagnarono di lacrime nel momento in cui ella lo vide. Poi, il Buddha andò a visitarla nel Paradiso di Trayastrinsha o Tushita, e lo testimoniò con un sermone. Si dice che lei discese dal cielo durante il Mahaparinirvana del Buddha, e si mise a piangere sopra le sue vesti.

L'altra donna che assurse alle altezze divine e raggiunse lo Stato-di-Buddha fu la zia materna del Buddha, Mahaprajapati Gautami, che lo allevò dopo la morte di sua madre Mayadevi, che era sua sorella. Tuttavia, nelle descrizioni buddiste, Gautami compare solo dopo che Shakyamuni raggiunse la Buddhità, e nell’accettare il suo Sentiero, lei intraprese la sua ricerca per la liberazione come una normale monaca. Fu la prima donna a ricercare la vita monastica al pari degli uomini, e a stabilire l'ordine femminile delle monache. E fu proprio lei a fondare l’ordine delle monache, e fu anche il primo precettore del suo primo gruppo. Quindi, ebbe un eccezionale ruolo nello sviluppo della vita istituzionale nel Buddismo. La tradizione Buddista venera Gautami come il Buddha femminile, che ha distrutto tutte le sue imperfezioni, ha acquisito grandi meriti e poteri, conosceva il pensiero degli altri, sentiva i cori divini e arrivò ad essere oltre il ciclo di nascita e morte. Nessun altare è dedicato a Gautami, ma lei fu ben raffigurata nell'arte leggendaria delle sètte buddiste e su di essa molte teste dei fedeli si sono sempre chinate in riverenza.

Il culto di Hariti e Yakshani.

Gli Yaksha-yakshani, spesso scambiati per 'divinità', erano una parte integrante della cosmologia pre-Buddista e la loro adorazione era un importante attività di culto da parte del popolo Indiano. Il Buddismo non si preoccupò, ma neanche proibì né ignorò l’adorazione degli yaksha. Anzi, yaksha e yakshani erano un tema ricorrente nell'arte iniziale buddista. Persino il Buddha raccomandò alle persone di onorare, adorare e fare offerte agli yaksha, poiché essi apportavano prosperità. Egli ordinò persino che Hariti, la yakshani, avrebbe dovuto avere un altare in ogni monastero ed anche una offerta ogni giorno. Da allora, l’altare di Hariti divenne una caratteristica essenziale di tutti i monasteri, ed Hariti, la loro divinità protettiva. Hariti, benevolente matrona circondata da bambini, rappresentava la capacità di procreare, l'abbondanza e la fertilità tipiche della femminilità.

Hariti, che significa ‘ladra’, inizialmente era una divoratrice di infanti. Il Buddha poi la trasformò in una protettrice dei bambini e benefattrice degli esseri umani. Come dice il Mulasarvastivada Vinaya, Hariti era la figlia di Shata, lo yaksha patrono di Rajagraha. Il suo nome era Abhirati. Dopo che Shata morì, i suoi doveri verso Rajagraha furono devoluti su Abhirati e sul suo fratello Shatagiri. Abhirati, tuttavia, aveva una diversa mente rispetto al padre. Anziché servire come protettrice, lei aveva fatto il voto di depredare i bambini di Rajagraha e lo rivelò allo stesso suo fratello. Vedendo che nulla poteva dissuaderla, Shatagiri la fece sposare a Panchaka, il figlio dello Yaksha patrono di Gandhara. Lei ebbe da lui cinquecento bambini. Dopo un pò, impulsata dal doversi  comportare secondo il suo malefico impegno verso la sua prole, lei ritornò a Rajagraha ed incominciò a rapire e divorare tutti gli infanti ed i bambini. Così il re ne fu informato e su consiglio del suo consigliere furono fatte offerte allo sconosciuto yaksha, ma senza alcun risultato.

Nel frattempo, un altro yaksha rivelò tutto, dicendo quello che Abhirati stava facendo. Il termine ‘Abhirati’  significava 'ragazza gioiosa', qualcosa che non si riferiva certo a ciò che essa faceva. La gente perciò cambiò il suo nome in Hariti, ‘ladra’. Finalmente, la cittadinanza andò da Shakyamuni il quale mosso dal loro dolore decise di occuparsi di Abhirati di sua propria mano. Egli nascose Priyankara il figlio più giovane di Abhirati sotto la sua ciotola delle elemosine. Abhirati, non trovandolo da nessuna parte, cominciò a piangere a dirotto tanto che ne fu quasi accecata. Alla fine, consigliata da uno yaksha anziano lei andò da Shakyamuni e gli promise che si sarebbe impegnata a cambiare vita lo stesso giorno che lui gli avrebbe fatto ritrovare suo figlio. Questo dette al Buddha l'occasione affinché la stessa Abhirati realizzasse il dolore dei genitori che avevano perso il loro unico figlio, poichè la perdita di uno solo dei suoi cinquecento figli l’aveva fatta impazzire.
Realizzando i suoi peccati Hariti capì i genitori di cui aveva rubato i bambini e promise non solo di smettere ma anche di proteggerli e nutrirli d’ora in avanti.

Si rivolse quindi al Buddha come sua guida spirituale ed al suo Sentiero. Il Buddha le restituì il suo bambino. Egli poi ordinò che ella avesse una parte delle offerte e con queste potesse nutrire la sua prole. Inoltre le rivelò il motivo che la costringeva ad essere una divoratrice di infanti e di bambini. In una delle sue nascite precedenti, lei era una pastorella in Rajagraha. Un giorno in cui si era reacata al mercato per vendere il suo latte e burro, c’era una folla enorme di gente che celebrava un certo festival ed alcuni la invitarono a ballare. Accettando l'invito lei partecipò e ballò fino all'esaurimento. Malgrado tutto ciò, lei vendette il suo latte per cinquecento manghi e poi se ne tornò verso casa. Sulla strada del ritorno, lei incontrò un Pratyekabuddha (asceta solitario). Impressionata da lui, gli offrì tutti i suoi cinquecento manghi. Nel momento della sua profonda riverenza però, lei si impegnò a vendicarsi della gente di Rajagraha per il suo errore, divorando i loro bambini.

Lakshmi e Saraswati

Lakshmi e Saraswati sono due divinità del ‘Rig-Veda’ trapiantate nella linea buddista. Il loro assorbimento nel flusso buddista è stato reso forse necessario da quello che esse rappresentavano - Lakshmi, abbondanza, prosperità, fertilità, felicità, bellezza, lustro, sovranità, tra le altre cose, e Saraswati, arte, cultura, erudizione e tutte le realizzazioni dell’intelletto. Con così tanti seguaci dal volgo e dai ceti superiori, anche il Buddismo non poteva certo ignorare Lakshmi. E, un ordine come il Buddismo, che stimava la saggezza, il ragionamento, l’abilità oratoria, come le migliori dell'uomo, non poteva rifiutare Saraswati, la quale oltre ad incarnarle aveva molto in comune con la più venerata divinità buddista, Prajnaparamita. Gli antichi testi buddisti, tuttavia, risultano  alquanto evasivi riguardo ad entrambe. Lakshmi ha una significativa presenza nell'arte buddista primitiva a Bharhut ed a Sanchi, ma di Saraswati non c’è traccia. Intorno al terzo secolo d.C., anche Lakshmi sparisce. Tranne per un paio di immagini di Lakshmi non se ne vedono neppure nelle sculture del Gandhara. Intorno al sesto-settimo secolo le immagini di Lakshmi cominciano a comparire su più larga scala, anche se non sono nella linea buddista, ma Brahmanica.


La presenza di Lakshmi nell'arte primitiva, ma l'assenza nei testi e nell'arte, con le sue icone che decorano spazi secondari, non facenti parte dell’idoneo tema buddista, sono sintomatiche. Forse, mentre i ricchi donatori che incaricavano la costruzione di stupa, o di una loro parte, a Bharhut, Sanchi o in qualunque altro luogo, insistevano per l’inclusione delle icone di Lakshmi al fine di ottenerne i favori, l'ordine dei monaci che determinavano la linea di un testo, o il corpo del tema da intagliare in un luogo sacro, era riluttante ad ammetterla nel pantheon, almeno come normale divinità. Il conflitto è stato risolto forse includendo delle icone di Lakshmi come motivi secondari, non come divinità ufficiale, o parte di un regolare tema buddista.

Saraswati era la patrona degli intellettuali - poeti, drammatisti. Questi intellettuali non erano strumentali, come i ricchi donatori, nella costruzione dei templi e, quindi, le immagini di Saraswati non venivano patrocinate. Comunque, il Buddismo aveva in Tara e Prajnaparamita le sostitute di Saraswati, divinità con una vasta gamma di attributi e di aspetti personali. Fu nel tardo Buddismo tibetano che l'ordine dei Lama portò nuovo impulso al culto di Saraswati e la consacrò nel pantheon buddista.

Tara

L'iscrizione Nagari del 778 d.C. nel santuario di Kalasan Chandi a Giava rende omaggio a Tara in questo modo: 'Colei il cui sorriso ha fatto si che il sole risplenda ed il cui aggrottare le ciglia ha fatto sì che l’oscurità avviluppi la sfera terrestre'. A parte questo, il principe Shailendra, fondatore del santuario, loda la dèa come quella salvatrice degli uomini, la più nobile e più venerabile. Poi dedicò a lei un solo tempio, ma intorno al dodicesimo secolo difficilmente a Giava vi era un santuario di famiglia che fosse senza un'immagine di Tara.

Tara, la principale dèa buddista concepita con una vasta gamma di attributi e aspetti personali, ha nel Buddismo la stessa importanza di Devi o di Durga nel Brahmanesimo. Mentre le varie dèe Brahmaniche assomigliano a differenti forme di Devi, la maggior parte delle divinità buddiste appaiono come ‘bheda’ (manifestazioni) di Tara. Poichè la Devi ha preceduto tutte le divinità, Tara come Prajnaparamita - Perfezione di Saggezza e del più alto principio metafisico, è ritenuta avere priorità persino sul Buddha.

Come la Devi che rivelò a Vishnu chi egli fosse e per quale motivo era lì, Tara nel Buddismo è la luce e la fonte principale di Buddhità e quindi di tutti i Buddha. Come Devi, che è consorte di Shiva, Tara è stata concepita come consorte di Avalokiteshvara. Come Devi che è la madre degli dèi di ordine più alto, anche Tara è la madre di tutti i Buddha e Bodhisattva, almeno nel Buddismo Mahayana. Tara ha avuto una presenza antica nel pantheon buddista; tuttavia fu in gran parte dopo l'emersione del culto di Devi intorno al sesto-settimo secolo che Tara assurse ad uno ‘status’ alla pari con ogni altra divinità buddista e a volte fosse venerata come il grande Maestro stesso. Il Buddismo tibetano ha migliaia di divinità con identità locali; però Tara è una divinità nota a tutti ed il suo mantra (Om Tare Tuttare Ture svaha) è recitato da tutte le bocche.

Nel Tibet è quasi una divinità nazionale.
Gli studiosi hanno scoperto in antichi testi come il Mahabharata un termine 'tarini', che significa ‘una che trasporta i suoi devoti oltre le acque della sofferenza’, e lo hanno collegato con Tara, suggerendo così la sua antica origine e la connessione Brahmanica. L’argomento però non è molto convincente.

La forma di Tara, come emersa più tardi nel Tantra, o come quella del Mahavidya, non era nota ai redattori del Mahabharata o dei diciotto principali Purana. Anche se non così presto, indubbiamente lei precedette Mahavidya, poichè quando il culto di Mahavidya, con una sola Mahavidya, e non dieci, si stava appena evolvendo, Tara aveva già la sua forma pienamente evoluta. La sua trasformazione come una delle Mahavidya avvenne assai più tardi. Nella sua antica forma Tara era vista come una ‘shakti’ dominante - con i poteri di controllare gli sbalzi delle acque, di proteggere i naviganti e di guidare le imbarcazioni. Prima della sua trasformazione come seconda Mahavidya, il concetto di Tara continuò a cambiare.
Nel ‘Agni Purana’, è una Yogini, non una devata (divinità).
Nel ‘Mayadipaka’, ha una forma, mentre come Mahavidya, ne ha un’altra. La tradizione Shivaita la considera come trasformazione di Mahamaya, la ‘grande illusione’. L'epiteto di Shiva dopo che egli appiccò il grande fuoco durante la zangolatura dell’oceano era Akshobhya - L’Imperturbabile, e Tara era la sua consorte. La prima presenza di Tara è, tuttavia, nei Tantra. I libri dei Tantra Brahmanici non vanno indietro oltre il sesto secolo. Ovviamente, la Tara Brahmanica deve sorgere soltanto successivamente.

L'iscrizione di Giava è datata 778, ed il Chalukyan, datato circa nel 1095-96, contiene le sue più antiche annotazioni epigrafiche conosciute. Popolare tanto a Sud quanto nel Nord, Tara è la divinità principale di tutti i Tantra più significativi. Anche nei testi Brahmanici, il Chinachara-krama - il modo di adorazione predominante in Cina, era il modo accettato del suo culto. Inoltre, la leggenda che il saggio Vashishtha andò in Mahachina per imparare dal Buddha il modo di adorare Tara, poichè lo stesso non era noto a nessun altro, come pure la sua forma differente da tutte le altre divinità del Brahmanesimo, suggerisce che la Tara buddista era il suo prototipo.
Tuttavia, i due concetti della dèa sono ampiamente differenti.

Nonostante abbia molte manifestazioni, nel Buddismo Tara è quasi sempre benevolente, compassionevole, delicata, gioiosa, giovane, brillante e protettiva. La Tara Brahmanica, particolarmente come Mahavidya, è quasi sempre feroce, spesso di aspetto orribile e potenzialmente pericoloso, come quello di Kali. Solitamente è concepita come una guida per i cadaveri nella terra di cremazione, o nell'atteggiamento di un arciere - posizione di pratyalidha. Non che nel Buddismo Tara non abbia una forma feroce, o che non l’abbia benigna nel Brahamanesimo; in generale, nel contesto più antico lei manifesta gli aspetti delicati, mentre in quello successivo, gli aspetti feroci. I testi Brahmanici alludono alle sue diverse e numerose forme, tuttavia, fra di esse, tre - Ekajata, Nilasaraswati ed Ugra sono le più significative. Tararahasya, Taratantra, Tantrasara e Mantramahodadhi sono i principali testi Brahmanici sul culto tantrico di Tara.

L'origine di Tara

Sull'origine di Tara prevale una certa ambiguità rispetto al luogo ed al periodo. Il Buddha fu restìo ad ammettere le donne nel Sangha. Perciò, anche l’antico principio del culto di adorazione femminile non potè che essere una remota possibilità. Gli studiosi occidentali, fuorviati dalle sue rappresentazioni in pietra del settimo o ottavo secolo, fissano la sua origine a quel tempo ed in un qualche luogo nella regione himalayana, probabilmente Tibet e dintorni.

Senza dubbio antiche rappresentazioni pittoriche di Tara, nelle caverne a Nishik, Ellora, Kanheri ecc., sono databili al sesto-settimo secolo, ma un concetto o un principio metafisico che emergesse così estesamente e con tale preminenza nell'arte, in simultaneità alla sua origine, è qualcosa difficile da concedere. Il viaggio dalla mente di un concetto religioso è nato all’interno della mente che lo ha creduto, ed inoltre, alla convenzionale visualizzazione nella pietra o qualche altro mezzo, che la rappresentava, poteva occorrere molto tempo, più o meno alcuni secoli. Più ragionevolmente, Tara ebbe la sua origine nei secoli che precedettero l'Era Comune, forse come culto già prevalente fra gli aborigeni o altri popoli, che il liberale Buddismo prontamente adottò. Essendo sempre più forte e popolare il culto di Tara assorbì altri simultanei culti simili ed emerse come il più potente.

Le trasformazioni visive di Tara emersero in seguito, non prima del quarto secolo, almeno. Le primitive immagini di Avalokiteshvara sono senza Tara, il che suggerisce che la sua forma come consorte di lui fu uno sviluppo successivo, forse per inseguire il modello Ardhanarishvara di Shiva e Shakti.

A parte le allusioni accademiche che l’adorazione di Tara sia stata fatta rivivere in Tibet da Nagarjuna, il fondatore della scuola Madhyamika, l'origine di Tara è presente in parecchi interessanti miti. Si dice che tutte le creature del mondo abbiano cominciato a deplorare Avalokiteshvara quando egli stava per raggiungere il nirvana - la liberazione finale. Avalokiteshvara le ascoltò. Il suo cuore si fuse nella compassione per la loro sofferenza e le lacrime che scesero dai suoi occhi si sono trasformate in Tara. La Tara nata in questo modo era l'essenza dell'essenza della compassione. Lo Swatantra-tantra rileva la sua origine nel lago Cholana, posto sul versante occidentale del monte Meru, sul confine Indo-Tibetano, che aveva intorno a sé parecchi laghi e molti monasteri. La gente che viveva là cercava una divinità per essere aiutata a traversare questi laghi.

Alla fine, il loro desiderio ebbe l’accoglimento divino. Sulla riva destra del lago Cholana vicino al villaggio di nome ‘Tar’ c’era una montagna. Un giorno la gente vide su di essa ventuno figure della déa Tara, che era entrata in esistenza da se stessa. Da allora, la grande dea fu sempre là per aiutare ad attraversare i laghi. Essenzialmente, questa forma di Tara è la sua forma originale. La radice 'tri' da cui si è sviluppato il termine Tara significa proprio 'attraversare a nuoto'. Tutti i suoi popolari nomi in Tibet, in Cina, in Corea e in Giappone hanno questo significato. Essa era particolarmente popolare nelle isole, come Giava, forse per assistere le persone contro i mari tempestosi. Nel Buddismo, quest’aspetto non era così significativo, ma come 'Tarini' lei rendeva i suoi devoti capaci di ‘attraversare il 'bhavasagara' - l'oceano della vita’.

Le ‘Bheda’ di Tara, ovvero le forme di Tara

Benchè innumerevoli, le forme principali di Tara sono cinque: Sita o Tara bianca, Shyama o Tara verde, Bhrakuti o Tara gialla, Ekajata o Tara blu, e Kurukulla o Tara rossa. Tara bianca si manifesta in sette forme, Tara verde in dieci, Tara gialla in cinque, Tara blu in due e Tara rossa appena in una sola forma. Queste cinque forme si riferiscono a cinque colori sacri connessi con i cinque ‘Dhyani-Buddha’, di cui queste forme sono le Shakti. Inoltre essi rappresentano i cinque elementi cosmici. Inoltre due sue altre forme: la Rajeshvari-Tara, identificata con Gauri o Vishvamata, e la Pitha-Tara, con in mano un loto-blu, sono presenti nel ‘Sadhanamala’.

Comunque, il sacro Tara-mantra la commemora in undici forme. In un altra classificazione ancora, le sue forme sono ventuno. Il Vajrasana Tara-bianca, la sua prima forma, rappresenta Prajnaparamita. Di solito, essa è a due braccia, con la destra tenuta in varada-mudra e la sinistra in vitarka-mudra - la posizione dell'istruzione, inoltre essa tiene in mano il gambo di un loto aperto.

Essa generalmente ha un terzo occhio, simbolico di conoscenza, ma a volte ne ha ben sette, innestati sulle mani e sui piedi. Come Shakti di Amoghasiddha, tiene i gambi dei loti in entrambe le mani. Il fiore di loto sostiene un Vishvavajra - doppio fulmine. I testi la riportano come giovane ragazza di circa sedici anni, splendente come la luna, vestita di bianco e con brillanti gioielli. Nei Tantra, essa si manifesta con un complesso bianco di Janguli, con due o quattro braccia, con il suo indumento bianco, i gioielli bianchi e con a fianco dei serpenti bianchi. Con le due mani originali suona un arpa, con le altre, la destra è tenuta in abhaya, e con la sinistra tiene un serpente bianco. I raggi della luna formano la sua ghirlanda.

Tara verde tiene in mano un loto blu totalmente o parzialmente chiuso. Con la gamba destra ripiegata su un poggiapiedi composto da un loto più piccolo essa è seduta su un trono di fiori di loto. A volte il suo seggio è sostenuto da due leoni ruggenti. Essa tiene l'immagine di Amoghasiddha sul suo copricapo. Quando è insieme ad Avalokiteshvara, solitamente sta sulla sua destra.

Un segno di ‘urna’ definisce la sua fronte. Talvolta essa è accompagnata dalle sue stesse otto forme, ed altre volte, da Ekajata e Marichi, o Janguli e Mahamayuri, le sue manifestazioni. Quando è con Janguli e Mahamayuri, lei diventa Dhanada, apportatrice di ricchezza. Poichè Dhanada ha quattro braccia, con quelle superiori nelle usuali posizioni, e quelle inferiori che portano un pungolo e un lasso. Alcuni testi la raffigurano a due braccia, una che tiene un loto e l’altra che tiene un ‘varada’, il segno dei tre occhi. Circondata da Shakti aventi vari colori, è concepita con un volto sorridente, adorna di perle brillanti e calzante scarpine ornate di gioielli.

Tara gialla, o Bhrikuti, la dèa con le ciglia aggrottate, è la forma irata di Tara. Essa ha Amoghasiddha nel diadema, tiene nella sua mano destra un varada e nella sinistra tiene un loto blu. È affiancata da Marichi alla sua destra e da Ekajata nella sinistra. È concepita come celestiale fanciulla con l’aspetto sempre-giovane e adorna di gioielli.
Khadiravarni Tara e Vajra Tara sono le sue forme. Adorna di ogni sorta di ornamenti, è rappresentata seduta in mezzo alle Matrika, madri divine, avente otto braccia, con le mani di destra che portano un vajra, una freccia, una conchiglia, un varada e quelle di sinistra, un fiore di loto, un pungolo di diamante, un laccio e l'indice della quarta mano che è sollevato verso il cielo, poi ha quattro facce, di colore giallo, nero, bianco e rosso da sinistra a destra e tre occhi in ogni faccia.

E’ seduta su una luna disposta su un loto che rappresenta l'universo. In un'altra più recente raffigurazione, essa è seduta su un trono di diamante, ha il corpo di color rosso e quattro Buddha sopra la sua testa.
Tara blu, o Ekajata, quella con un solo chignon, manifesta la Tara feroce - ha l’aspetto truce e quindi è conosciuta come Ugra Tara. Come è rappresentato nei testi, essa è in piedi nella posizione dell’arciere, ha una bassa statura, una faccia; tre occhi e l'addome protuberante, è feroce e terribile-a-vedersi, porta al collo una collana di teste umane ed è adornata con un loto blu. Essa cavalca un cadavere, adornata con otto serpenti e cinque mudra, ha gli occhi rossi rotondi e la lingua sporgente, ed è anch’essa assai giovane. Sempre molto felice, lei è risplendente a causa del suo selvaggio e terribile sorriso, con le sue mascelle prominenti. Porta una pelle di tigre intorno alla vita. Nelle due mani di destra porta una spada e le forbici, in quelle di sinistra un loto blu ed un teschio. Il suo chignon di capelli è marrone e la sua testa è adornata da Akshobhya.

La Tara rossa, o Kurukulla, ha quattro braccia e la pelle di color rosso, è seduta su di un loto rosso e porta un vestito rosso. Una delle sue mani di destra è tenuta nel mudra abhaya, mentre nell’altra essa tiene una freccia, poi in una di quelle a sinistra tiene una faretra fatta di gioielli, e nell’altra, una freccia fatta di germogli di loto rosso, su un arco di fiori che giunge fino alle orecchie.

Molte delle forme di Tara sono semplicemente dei suoi attributi. L'eccessiva enfasi le rende come se fossero sue bheda (forme). In realtà, essa è dappertutto soltanto UNA.

I suoi attributi sono duplici, essendo pacifica ed irata, o quintuplici, a seconda dei suoi cinque colori sacri, essendo pacifici il bianco ed il verde, ed irati il rosso, il giallo ed il blù. Le forme pacifiche hanno espressioni sorridenti, capelli lunghi ed ornamenti che si convengono ad un Bodhisattva, mentre quelle irate, hanno tutte espressioni feroci che ispirano timore. Molte delle forme di Tara - Janguli, Prajnaparamita, Marichi, Bhrakuti, sono emerse nella tradizione come divinità indipendenti ed hanno santuari dedicati ad esse.

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(Tradotto da Aliberth Meng, Aprile 2008, per il Centro Nirvana. Senza scopo di lucro)

TUTTE LE IMMAGINI DI TARA VERDE: