domenica 26 settembre 2010

T A R A V E R D E - § * * * Tara ed il Culto della Femminilita' nel Buddismo * * * §





Tara ed il Culto della Femminilita' nel Buddismo

Nel Buddismo, malgrado la riluttanza dei maestri nell’ammettere le donne nell'ordine, la femminilità fu una necessità psicologica e fu inclusa nella relativa struttura spirituale. La compassione - l’aspetto più tenero dell’essere, sia umano che divino, che era il cuore del Buddismo, si rivelò al meglio nella struttura femminile.

Quindi, nel corso del tempo, il femminile dominò così tanto l’ambiente buddista che persino immagini di alcune divinità maschili, come Avalokiteshvara, furono concepite con sembianze un pò femminili nella loro figura e come aspetto essenziale della personalità.

La tenerezza e la grazia prettamente femminili con cui le successive immagini buddiste furono concepite, definiscono l'epitome dell’iconografia e dell'arte buddista. Dopo benevolenza e protezione, altre virtù che rappresentavano meglio la femminilità furono aggiunte a quella cardinale della compassione. Questo aspetto femminile fu più diversificato e spinto, col risultato che durante la fase Mahayana, ancor più nel Buddismo Tibetano, il numero di divinità femminili raggiunse il migliaio.

A parte queste psicodinamiche, fattori esterni del Buddismo, specialmente il culto della pluralità del Brahamanesimo e la preponderanza degli elementi femminili, giocarono un ruolo vitale nel determinare il rapporto maschio-femmina ed anche la loro relativa importanza nel Buddismo. Più o meno dal sesto secolo la reciprocità delle Brahmaniche divinità maschili e femminili, era stata totalmente rivoluzionata, con la supremazia e la priorità di quelle femminili su quelle maschili, persino sulla grande Trinità - Brahma, Vishnu e Shiva. Testi come il ‘Devi-Mahatmya’ nel Markandeya Purana, e il ‘Devi-Bhagavata’ tra gli altri, hanno insediato la Devi (la Dea) non solo per il suo possedere cumulativi attributi ed energie di tutte le divinità maschili, ma addirittura precedendoli, perfino nella creazione. Invocando una forma o un aspetto differente, in ciascuno dei 'dhyana' - le visioni meditative, questi testi hanno percepito la Devi - Divino Femminile, come una ed anche molte, con la prima che definiva l’unità e le altre, la diversità. A questa pluralità furono aggiunte le sue 'shakti' - poteri subordinati.

Gli aborigeni, come pure gli Ariani Vedici, avevano alcune antiche divinità femminili ma mentre quelle nella precedenti tradizioni erano solo icone locali poco-funzionali che conferivano benefici, la maggior parte delle successive, rappresentate da elementi non-iconici o aspetti della natura - che solitamente infliggevano terrore, e venivano placate da lodi e da offerte di 'havya!' -. Tuttavia, la successiva più completa forma di Devi, post-Devi-Mahatmya, era completamente differente da entrambe.

Anche il Buddismo aveva avuto in precedenza alcune divinità femminili, principalmente ereditate dai culti del passato, come la Dea della Terra, ed alcune yakshani, Hariti in particolare, dalle tribù aborigene, e Lakshmi e Saraswati, dai Vedici. Interessante è che la Dea della Terra che aveva avuto una presenza iconica nei culti pre-Buddisti, fu nel Buddismo una presenza simbolica, mentre Lakshmi e Saraswati, divinità aniconiche dei Vedici, ebbero ben definite forme iconografiche nel Buddismo. Quando il Buddha ha invocato la madre Terra per essere testimone al suo atto di conquista su Mara ed il suo esercito, la percepì tutta vedendola come senza-forma, competente per certificare la genuinità del suo atto.

Tranne il Lalitavistara, che parla di lei mentre appare di persona, o il Nidanakatha ed il Mahavastu che parlano del suo tremito mentre scaccia Mara ed il suo esercito, in tutta la letteratura buddista la madre Terra rimane una presenza spirituale aniconica non-operante. Alla Dea della Terra si allude in alcuni testi, a volte ripetutamente, come Sthavara - la Tenace, che possiede un milione di forme, ed altre volte come Aparajita - L’Invincibile, che non compare ancora nelle descrizioni buddiste. Nelle descrizioni del Mahayana lei appare prima della pellegrina Suthana, ma solo per proclamare che lei fu la testimone 'delle trasformazioni spirituali di tutti i Buddha, allorchè essi stavano quasi per ottenere l’Illuminazione', un ruolo identico al suo precdente. Più tardi, dopo che Mayadevi, la madre del Buddha, fu deificata presso Lumbini, dove nacque il Buddha, il ruolo della Dea Madre si spostò su di lei.

Questa umanizzata madre del loro Maestro, era una madre più intima e ispirava una maggiore riverenza della simbolica Dea della Terra. Come narra la tradizione, Mayadevi restituì la sua forma mortale subito dopo che il Buddha fu partorito, solo per cercare una libertà più grande e per andare a rivisitare il suo figlio ogni volta che lo desiderava. Di conseguenza, ogni volta che nasceva un Bodhisattva Mayadevi ricreava se-stessa per essere sua madre. E così lei fu la madre di tutti i Bodhisattva e di tutti i Buddha, essendo presente in tutte le temibili occasioni della vita del Buddha, come quando presso il fiume Niranjana egli fortemente emaciato a causa del digiuno. I suoi occhi si  bagnarono di lacrime nel momento in cui ella lo vide. Poi, il Buddha andò a visitarla nel Paradiso di Trayastrinsha o Tushita, e lo testimoniò con un sermone. Si dice che lei discese dal cielo durante il Mahaparinirvana del Buddha, e si mise a piangere sopra le sue vesti.

L'altra donna che assurse alle altezze divine e raggiunse lo Stato-di-Buddha fu la zia materna del Buddha, Mahaprajapati Gautami, che lo allevò dopo la morte di sua madre Mayadevi, che era sua sorella. Tuttavia, nelle descrizioni buddiste, Gautami compare solo dopo che Shakyamuni raggiunse la Buddhità, e nell’accettare il suo Sentiero, lei intraprese la sua ricerca per la liberazione come una normale monaca. Fu la prima donna a ricercare la vita monastica al pari degli uomini, e a stabilire l'ordine femminile delle monache. E fu proprio lei a fondare l’ordine delle monache, e fu anche il primo precettore del suo primo gruppo. Quindi, ebbe un eccezionale ruolo nello sviluppo della vita istituzionale nel Buddismo. La tradizione Buddista venera Gautami come il Buddha femminile, che ha distrutto tutte le sue imperfezioni, ha acquisito grandi meriti e poteri, conosceva il pensiero degli altri, sentiva i cori divini e arrivò ad essere oltre il ciclo di nascita e morte. Nessun altare è dedicato a Gautami, ma lei fu ben raffigurata nell'arte leggendaria delle sètte buddiste e su di essa molte teste dei fedeli si sono sempre chinate in riverenza.

Il culto di Hariti e Yakshani.

Gli Yaksha-yakshani, spesso scambiati per 'divinità', erano una parte integrante della cosmologia pre-Buddista e la loro adorazione era un importante attività di culto da parte del popolo Indiano. Il Buddismo non si preoccupò, ma neanche proibì né ignorò l’adorazione degli yaksha. Anzi, yaksha e yakshani erano un tema ricorrente nell'arte iniziale buddista. Persino il Buddha raccomandò alle persone di onorare, adorare e fare offerte agli yaksha, poiché essi apportavano prosperità. Egli ordinò persino che Hariti, la yakshani, avrebbe dovuto avere un altare in ogni monastero ed anche una offerta ogni giorno. Da allora, l’altare di Hariti divenne una caratteristica essenziale di tutti i monasteri, ed Hariti, la loro divinità protettiva. Hariti, benevolente matrona circondata da bambini, rappresentava la capacità di procreare, l'abbondanza e la fertilità tipiche della femminilità.

Hariti, che significa ‘ladra’, inizialmente era una divoratrice di infanti. Il Buddha poi la trasformò in una protettrice dei bambini e benefattrice degli esseri umani. Come dice il Mulasarvastivada Vinaya, Hariti era la figlia di Shata, lo yaksha patrono di Rajagraha. Il suo nome era Abhirati. Dopo che Shata morì, i suoi doveri verso Rajagraha furono devoluti su Abhirati e sul suo fratello Shatagiri. Abhirati, tuttavia, aveva una diversa mente rispetto al padre. Anziché servire come protettrice, lei aveva fatto il voto di depredare i bambini di Rajagraha e lo rivelò allo stesso suo fratello. Vedendo che nulla poteva dissuaderla, Shatagiri la fece sposare a Panchaka, il figlio dello Yaksha patrono di Gandhara. Lei ebbe da lui cinquecento bambini. Dopo un pò, impulsata dal doversi  comportare secondo il suo malefico impegno verso la sua prole, lei ritornò a Rajagraha ed incominciò a rapire e divorare tutti gli infanti ed i bambini. Così il re ne fu informato e su consiglio del suo consigliere furono fatte offerte allo sconosciuto yaksha, ma senza alcun risultato.

Nel frattempo, un altro yaksha rivelò tutto, dicendo quello che Abhirati stava facendo. Il termine ‘Abhirati’  significava 'ragazza gioiosa', qualcosa che non si riferiva certo a ciò che essa faceva. La gente perciò cambiò il suo nome in Hariti, ‘ladra’. Finalmente, la cittadinanza andò da Shakyamuni il quale mosso dal loro dolore decise di occuparsi di Abhirati di sua propria mano. Egli nascose Priyankara il figlio più giovane di Abhirati sotto la sua ciotola delle elemosine. Abhirati, non trovandolo da nessuna parte, cominciò a piangere a dirotto tanto che ne fu quasi accecata. Alla fine, consigliata da uno yaksha anziano lei andò da Shakyamuni e gli promise che si sarebbe impegnata a cambiare vita lo stesso giorno che lui gli avrebbe fatto ritrovare suo figlio. Questo dette al Buddha l'occasione affinché la stessa Abhirati realizzasse il dolore dei genitori che avevano perso il loro unico figlio, poichè la perdita di uno solo dei suoi cinquecento figli l’aveva fatta impazzire.
Realizzando i suoi peccati Hariti capì i genitori di cui aveva rubato i bambini e promise non solo di smettere ma anche di proteggerli e nutrirli d’ora in avanti.

Si rivolse quindi al Buddha come sua guida spirituale ed al suo Sentiero. Il Buddha le restituì il suo bambino. Egli poi ordinò che ella avesse una parte delle offerte e con queste potesse nutrire la sua prole. Inoltre le rivelò il motivo che la costringeva ad essere una divoratrice di infanti e di bambini. In una delle sue nascite precedenti, lei era una pastorella in Rajagraha. Un giorno in cui si era reacata al mercato per vendere il suo latte e burro, c’era una folla enorme di gente che celebrava un certo festival ed alcuni la invitarono a ballare. Accettando l'invito lei partecipò e ballò fino all'esaurimento. Malgrado tutto ciò, lei vendette il suo latte per cinquecento manghi e poi se ne tornò verso casa. Sulla strada del ritorno, lei incontrò un Pratyekabuddha (asceta solitario). Impressionata da lui, gli offrì tutti i suoi cinquecento manghi. Nel momento della sua profonda riverenza però, lei si impegnò a vendicarsi della gente di Rajagraha per il suo errore, divorando i loro bambini.

Lakshmi e Saraswati

Lakshmi e Saraswati sono due divinità del ‘Rig-Veda’ trapiantate nella linea buddista. Il loro assorbimento nel flusso buddista è stato reso forse necessario da quello che esse rappresentavano - Lakshmi, abbondanza, prosperità, fertilità, felicità, bellezza, lustro, sovranità, tra le altre cose, e Saraswati, arte, cultura, erudizione e tutte le realizzazioni dell’intelletto. Con così tanti seguaci dal volgo e dai ceti superiori, anche il Buddismo non poteva certo ignorare Lakshmi. E, un ordine come il Buddismo, che stimava la saggezza, il ragionamento, l’abilità oratoria, come le migliori dell'uomo, non poteva rifiutare Saraswati, la quale oltre ad incarnarle aveva molto in comune con la più venerata divinità buddista, Prajnaparamita. Gli antichi testi buddisti, tuttavia, risultano  alquanto evasivi riguardo ad entrambe. Lakshmi ha una significativa presenza nell'arte buddista primitiva a Bharhut ed a Sanchi, ma di Saraswati non c’è traccia. Intorno al terzo secolo d.C., anche Lakshmi sparisce. Tranne per un paio di immagini di Lakshmi non se ne vedono neppure nelle sculture del Gandhara. Intorno al sesto-settimo secolo le immagini di Lakshmi cominciano a comparire su più larga scala, anche se non sono nella linea buddista, ma Brahmanica.


La presenza di Lakshmi nell'arte primitiva, ma l'assenza nei testi e nell'arte, con le sue icone che decorano spazi secondari, non facenti parte dell’idoneo tema buddista, sono sintomatiche. Forse, mentre i ricchi donatori che incaricavano la costruzione di stupa, o di una loro parte, a Bharhut, Sanchi o in qualunque altro luogo, insistevano per l’inclusione delle icone di Lakshmi al fine di ottenerne i favori, l'ordine dei monaci che determinavano la linea di un testo, o il corpo del tema da intagliare in un luogo sacro, era riluttante ad ammetterla nel pantheon, almeno come normale divinità. Il conflitto è stato risolto forse includendo delle icone di Lakshmi come motivi secondari, non come divinità ufficiale, o parte di un regolare tema buddista.

Saraswati era la patrona degli intellettuali - poeti, drammatisti. Questi intellettuali non erano strumentali, come i ricchi donatori, nella costruzione dei templi e, quindi, le immagini di Saraswati non venivano patrocinate. Comunque, il Buddismo aveva in Tara e Prajnaparamita le sostitute di Saraswati, divinità con una vasta gamma di attributi e di aspetti personali. Fu nel tardo Buddismo tibetano che l'ordine dei Lama portò nuovo impulso al culto di Saraswati e la consacrò nel pantheon buddista.

Tara

L'iscrizione Nagari del 778 d.C. nel santuario di Kalasan Chandi a Giava rende omaggio a Tara in questo modo: 'Colei il cui sorriso ha fatto si che il sole risplenda ed il cui aggrottare le ciglia ha fatto sì che l’oscurità avviluppi la sfera terrestre'. A parte questo, il principe Shailendra, fondatore del santuario, loda la dèa come quella salvatrice degli uomini, la più nobile e più venerabile. Poi dedicò a lei un solo tempio, ma intorno al dodicesimo secolo difficilmente a Giava vi era un santuario di famiglia che fosse senza un'immagine di Tara.

Tara, la principale dèa buddista concepita con una vasta gamma di attributi e aspetti personali, ha nel Buddismo la stessa importanza di Devi o di Durga nel Brahmanesimo. Mentre le varie dèe Brahmaniche assomigliano a differenti forme di Devi, la maggior parte delle divinità buddiste appaiono come ‘bheda’ (manifestazioni) di Tara. Poichè la Devi ha preceduto tutte le divinità, Tara come Prajnaparamita - Perfezione di Saggezza e del più alto principio metafisico, è ritenuta avere priorità persino sul Buddha.

Come la Devi che rivelò a Vishnu chi egli fosse e per quale motivo era lì, Tara nel Buddismo è la luce e la fonte principale di Buddhità e quindi di tutti i Buddha. Come Devi, che è consorte di Shiva, Tara è stata concepita come consorte di Avalokiteshvara. Come Devi che è la madre degli dèi di ordine più alto, anche Tara è la madre di tutti i Buddha e Bodhisattva, almeno nel Buddismo Mahayana. Tara ha avuto una presenza antica nel pantheon buddista; tuttavia fu in gran parte dopo l'emersione del culto di Devi intorno al sesto-settimo secolo che Tara assurse ad uno ‘status’ alla pari con ogni altra divinità buddista e a volte fosse venerata come il grande Maestro stesso. Il Buddismo tibetano ha migliaia di divinità con identità locali; però Tara è una divinità nota a tutti ed il suo mantra (Om Tare Tuttare Ture svaha) è recitato da tutte le bocche.

Nel Tibet è quasi una divinità nazionale.
Gli studiosi hanno scoperto in antichi testi come il Mahabharata un termine 'tarini', che significa ‘una che trasporta i suoi devoti oltre le acque della sofferenza’, e lo hanno collegato con Tara, suggerendo così la sua antica origine e la connessione Brahmanica. L’argomento però non è molto convincente.

La forma di Tara, come emersa più tardi nel Tantra, o come quella del Mahavidya, non era nota ai redattori del Mahabharata o dei diciotto principali Purana. Anche se non così presto, indubbiamente lei precedette Mahavidya, poichè quando il culto di Mahavidya, con una sola Mahavidya, e non dieci, si stava appena evolvendo, Tara aveva già la sua forma pienamente evoluta. La sua trasformazione come una delle Mahavidya avvenne assai più tardi. Nella sua antica forma Tara era vista come una ‘shakti’ dominante - con i poteri di controllare gli sbalzi delle acque, di proteggere i naviganti e di guidare le imbarcazioni. Prima della sua trasformazione come seconda Mahavidya, il concetto di Tara continuò a cambiare.
Nel ‘Agni Purana’, è una Yogini, non una devata (divinità).
Nel ‘Mayadipaka’, ha una forma, mentre come Mahavidya, ne ha un’altra. La tradizione Shivaita la considera come trasformazione di Mahamaya, la ‘grande illusione’. L'epiteto di Shiva dopo che egli appiccò il grande fuoco durante la zangolatura dell’oceano era Akshobhya - L’Imperturbabile, e Tara era la sua consorte. La prima presenza di Tara è, tuttavia, nei Tantra. I libri dei Tantra Brahmanici non vanno indietro oltre il sesto secolo. Ovviamente, la Tara Brahmanica deve sorgere soltanto successivamente.

L'iscrizione di Giava è datata 778, ed il Chalukyan, datato circa nel 1095-96, contiene le sue più antiche annotazioni epigrafiche conosciute. Popolare tanto a Sud quanto nel Nord, Tara è la divinità principale di tutti i Tantra più significativi. Anche nei testi Brahmanici, il Chinachara-krama - il modo di adorazione predominante in Cina, era il modo accettato del suo culto. Inoltre, la leggenda che il saggio Vashishtha andò in Mahachina per imparare dal Buddha il modo di adorare Tara, poichè lo stesso non era noto a nessun altro, come pure la sua forma differente da tutte le altre divinità del Brahmanesimo, suggerisce che la Tara buddista era il suo prototipo.
Tuttavia, i due concetti della dèa sono ampiamente differenti.

Nonostante abbia molte manifestazioni, nel Buddismo Tara è quasi sempre benevolente, compassionevole, delicata, gioiosa, giovane, brillante e protettiva. La Tara Brahmanica, particolarmente come Mahavidya, è quasi sempre feroce, spesso di aspetto orribile e potenzialmente pericoloso, come quello di Kali. Solitamente è concepita come una guida per i cadaveri nella terra di cremazione, o nell'atteggiamento di un arciere - posizione di pratyalidha. Non che nel Buddismo Tara non abbia una forma feroce, o che non l’abbia benigna nel Brahamanesimo; in generale, nel contesto più antico lei manifesta gli aspetti delicati, mentre in quello successivo, gli aspetti feroci. I testi Brahmanici alludono alle sue diverse e numerose forme, tuttavia, fra di esse, tre - Ekajata, Nilasaraswati ed Ugra sono le più significative. Tararahasya, Taratantra, Tantrasara e Mantramahodadhi sono i principali testi Brahmanici sul culto tantrico di Tara.

L'origine di Tara

Sull'origine di Tara prevale una certa ambiguità rispetto al luogo ed al periodo. Il Buddha fu restìo ad ammettere le donne nel Sangha. Perciò, anche l’antico principio del culto di adorazione femminile non potè che essere una remota possibilità. Gli studiosi occidentali, fuorviati dalle sue rappresentazioni in pietra del settimo o ottavo secolo, fissano la sua origine a quel tempo ed in un qualche luogo nella regione himalayana, probabilmente Tibet e dintorni.

Senza dubbio antiche rappresentazioni pittoriche di Tara, nelle caverne a Nishik, Ellora, Kanheri ecc., sono databili al sesto-settimo secolo, ma un concetto o un principio metafisico che emergesse così estesamente e con tale preminenza nell'arte, in simultaneità alla sua origine, è qualcosa difficile da concedere. Il viaggio dalla mente di un concetto religioso è nato all’interno della mente che lo ha creduto, ed inoltre, alla convenzionale visualizzazione nella pietra o qualche altro mezzo, che la rappresentava, poteva occorrere molto tempo, più o meno alcuni secoli. Più ragionevolmente, Tara ebbe la sua origine nei secoli che precedettero l'Era Comune, forse come culto già prevalente fra gli aborigeni o altri popoli, che il liberale Buddismo prontamente adottò. Essendo sempre più forte e popolare il culto di Tara assorbì altri simultanei culti simili ed emerse come il più potente.

Le trasformazioni visive di Tara emersero in seguito, non prima del quarto secolo, almeno. Le primitive immagini di Avalokiteshvara sono senza Tara, il che suggerisce che la sua forma come consorte di lui fu uno sviluppo successivo, forse per inseguire il modello Ardhanarishvara di Shiva e Shakti.

A parte le allusioni accademiche che l’adorazione di Tara sia stata fatta rivivere in Tibet da Nagarjuna, il fondatore della scuola Madhyamika, l'origine di Tara è presente in parecchi interessanti miti. Si dice che tutte le creature del mondo abbiano cominciato a deplorare Avalokiteshvara quando egli stava per raggiungere il nirvana - la liberazione finale. Avalokiteshvara le ascoltò. Il suo cuore si fuse nella compassione per la loro sofferenza e le lacrime che scesero dai suoi occhi si sono trasformate in Tara. La Tara nata in questo modo era l'essenza dell'essenza della compassione. Lo Swatantra-tantra rileva la sua origine nel lago Cholana, posto sul versante occidentale del monte Meru, sul confine Indo-Tibetano, che aveva intorno a sé parecchi laghi e molti monasteri. La gente che viveva là cercava una divinità per essere aiutata a traversare questi laghi.

Alla fine, il loro desiderio ebbe l’accoglimento divino. Sulla riva destra del lago Cholana vicino al villaggio di nome ‘Tar’ c’era una montagna. Un giorno la gente vide su di essa ventuno figure della déa Tara, che era entrata in esistenza da se stessa. Da allora, la grande dea fu sempre là per aiutare ad attraversare i laghi. Essenzialmente, questa forma di Tara è la sua forma originale. La radice 'tri' da cui si è sviluppato il termine Tara significa proprio 'attraversare a nuoto'. Tutti i suoi popolari nomi in Tibet, in Cina, in Corea e in Giappone hanno questo significato. Essa era particolarmente popolare nelle isole, come Giava, forse per assistere le persone contro i mari tempestosi. Nel Buddismo, quest’aspetto non era così significativo, ma come 'Tarini' lei rendeva i suoi devoti capaci di ‘attraversare il 'bhavasagara' - l'oceano della vita’.

Le ‘Bheda’ di Tara, ovvero le forme di Tara

Benchè innumerevoli, le forme principali di Tara sono cinque: Sita o Tara bianca, Shyama o Tara verde, Bhrakuti o Tara gialla, Ekajata o Tara blu, e Kurukulla o Tara rossa. Tara bianca si manifesta in sette forme, Tara verde in dieci, Tara gialla in cinque, Tara blu in due e Tara rossa appena in una sola forma. Queste cinque forme si riferiscono a cinque colori sacri connessi con i cinque ‘Dhyani-Buddha’, di cui queste forme sono le Shakti. Inoltre essi rappresentano i cinque elementi cosmici. Inoltre due sue altre forme: la Rajeshvari-Tara, identificata con Gauri o Vishvamata, e la Pitha-Tara, con in mano un loto-blu, sono presenti nel ‘Sadhanamala’.

Comunque, il sacro Tara-mantra la commemora in undici forme. In un altra classificazione ancora, le sue forme sono ventuno. Il Vajrasana Tara-bianca, la sua prima forma, rappresenta Prajnaparamita. Di solito, essa è a due braccia, con la destra tenuta in varada-mudra e la sinistra in vitarka-mudra - la posizione dell'istruzione, inoltre essa tiene in mano il gambo di un loto aperto.

Essa generalmente ha un terzo occhio, simbolico di conoscenza, ma a volte ne ha ben sette, innestati sulle mani e sui piedi. Come Shakti di Amoghasiddha, tiene i gambi dei loti in entrambe le mani. Il fiore di loto sostiene un Vishvavajra - doppio fulmine. I testi la riportano come giovane ragazza di circa sedici anni, splendente come la luna, vestita di bianco e con brillanti gioielli. Nei Tantra, essa si manifesta con un complesso bianco di Janguli, con due o quattro braccia, con il suo indumento bianco, i gioielli bianchi e con a fianco dei serpenti bianchi. Con le due mani originali suona un arpa, con le altre, la destra è tenuta in abhaya, e con la sinistra tiene un serpente bianco. I raggi della luna formano la sua ghirlanda.

Tara verde tiene in mano un loto blu totalmente o parzialmente chiuso. Con la gamba destra ripiegata su un poggiapiedi composto da un loto più piccolo essa è seduta su un trono di fiori di loto. A volte il suo seggio è sostenuto da due leoni ruggenti. Essa tiene l'immagine di Amoghasiddha sul suo copricapo. Quando è insieme ad Avalokiteshvara, solitamente sta sulla sua destra.

Un segno di ‘urna’ definisce la sua fronte. Talvolta essa è accompagnata dalle sue stesse otto forme, ed altre volte, da Ekajata e Marichi, o Janguli e Mahamayuri, le sue manifestazioni. Quando è con Janguli e Mahamayuri, lei diventa Dhanada, apportatrice di ricchezza. Poichè Dhanada ha quattro braccia, con quelle superiori nelle usuali posizioni, e quelle inferiori che portano un pungolo e un lasso. Alcuni testi la raffigurano a due braccia, una che tiene un loto e l’altra che tiene un ‘varada’, il segno dei tre occhi. Circondata da Shakti aventi vari colori, è concepita con un volto sorridente, adorna di perle brillanti e calzante scarpine ornate di gioielli.

Tara gialla, o Bhrikuti, la dèa con le ciglia aggrottate, è la forma irata di Tara. Essa ha Amoghasiddha nel diadema, tiene nella sua mano destra un varada e nella sinistra tiene un loto blu. È affiancata da Marichi alla sua destra e da Ekajata nella sinistra. È concepita come celestiale fanciulla con l’aspetto sempre-giovane e adorna di gioielli.
Khadiravarni Tara e Vajra Tara sono le sue forme. Adorna di ogni sorta di ornamenti, è rappresentata seduta in mezzo alle Matrika, madri divine, avente otto braccia, con le mani di destra che portano un vajra, una freccia, una conchiglia, un varada e quelle di sinistra, un fiore di loto, un pungolo di diamante, un laccio e l'indice della quarta mano che è sollevato verso il cielo, poi ha quattro facce, di colore giallo, nero, bianco e rosso da sinistra a destra e tre occhi in ogni faccia.

E’ seduta su una luna disposta su un loto che rappresenta l'universo. In un'altra più recente raffigurazione, essa è seduta su un trono di diamante, ha il corpo di color rosso e quattro Buddha sopra la sua testa.
Tara blu, o Ekajata, quella con un solo chignon, manifesta la Tara feroce - ha l’aspetto truce e quindi è conosciuta come Ugra Tara. Come è rappresentato nei testi, essa è in piedi nella posizione dell’arciere, ha una bassa statura, una faccia; tre occhi e l'addome protuberante, è feroce e terribile-a-vedersi, porta al collo una collana di teste umane ed è adornata con un loto blu. Essa cavalca un cadavere, adornata con otto serpenti e cinque mudra, ha gli occhi rossi rotondi e la lingua sporgente, ed è anch’essa assai giovane. Sempre molto felice, lei è risplendente a causa del suo selvaggio e terribile sorriso, con le sue mascelle prominenti. Porta una pelle di tigre intorno alla vita. Nelle due mani di destra porta una spada e le forbici, in quelle di sinistra un loto blu ed un teschio. Il suo chignon di capelli è marrone e la sua testa è adornata da Akshobhya.

La Tara rossa, o Kurukulla, ha quattro braccia e la pelle di color rosso, è seduta su di un loto rosso e porta un vestito rosso. Una delle sue mani di destra è tenuta nel mudra abhaya, mentre nell’altra essa tiene una freccia, poi in una di quelle a sinistra tiene una faretra fatta di gioielli, e nell’altra, una freccia fatta di germogli di loto rosso, su un arco di fiori che giunge fino alle orecchie.

Molte delle forme di Tara sono semplicemente dei suoi attributi. L'eccessiva enfasi le rende come se fossero sue bheda (forme). In realtà, essa è dappertutto soltanto UNA.

I suoi attributi sono duplici, essendo pacifica ed irata, o quintuplici, a seconda dei suoi cinque colori sacri, essendo pacifici il bianco ed il verde, ed irati il rosso, il giallo ed il blù. Le forme pacifiche hanno espressioni sorridenti, capelli lunghi ed ornamenti che si convengono ad un Bodhisattva, mentre quelle irate, hanno tutte espressioni feroci che ispirano timore. Molte delle forme di Tara - Janguli, Prajnaparamita, Marichi, Bhrakuti, sono emerse nella tradizione come divinità indipendenti ed hanno santuari dedicati ad esse.

BIBLIOGRAFIA:

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Mallar Ghosh : Development of Buddhist Iconography in
Eastern India : A Study of Tara, Prajnas of Five Tathagatas and Bhrikuti
Hitendra Shashtri : ASI Memoirs No. 20 : The Origin and Cult of Tara
Tom Lowenstein : The Vision of the Buddha
David Kinsley : Tantrik Visions of the Divine Feminine
Vessantara : Female Deities in Buddhism
Chhaya Haesner : India : Land of the Buddha
Prithvi Kumar Agrawal : Goddesses in Ancient India
Vasudeva S. Agrawal : Ancient Indian Folk Cults
Eva Allinger : The Green Tara as Saviouress from Eight Dangers in the Sumtsek at Alchi
Shashi Bhushan, Dasgupta : An Introduction to Tantric Buddhism
M. K. Dhavalikar : The Origin of Tara
Edward Conze : Buddhism, its essence and development
Pratapditya Pal : Two Metal Images of Mahashri Tara, in Proceedings of Indian History Congress
Gill Farrer-Halls : The Feminine Face of Buddhism- Sadhanamala, ed. Benoytosh Bhattacharya
Buddhist Women Across Cultures : ed. Karma Lekshe Tsomo
Buddhism, Sexuality, and Gender : ed. Jose Ignacio Cabezon

(Tradotto da Aliberth Meng, Aprile 2008, per il Centro Nirvana. Senza scopo di lucro)

TUTTE LE IMMAGINI DI TARA VERDE:

DIEGO VELAZQUEZ - § * * * O P E R E - B I O G R A F I A - B I B L I O G R A F I A * * * §

Venere e Cupido ( Diego Velázquez)

Venere e Cupido
Venere e Cupido
AutoreDiego Velázquez
Data1648 ca.
Tecnicaolio su tela
Dimensioni122,5 × 175 cm
UbicazioneNational Gallery, Londra

Venere e Cupido è un dipinto ad olio su tela di cm 122,5 x 175 realizzato nel 1648 circa dal pittore Diego Velázquez.
È conservato alla National Gallery di Londra.
Il tema è tratto dalla mitologia romana e rappresenta Venere adagiata mollemente su un lettino mentre Cupido le regge uno specchio. La dea è nuda, ritratta di schiena per non offendere il pudore degli inquisitori spagnoli. Così, mentre il volto è celato direttamente alla vista, il riflesso dello specchio di Cupido ci permette di vederlo riflesso. Il contrasto dei toni pastosi e forti delle lenzuola grigie e del tendaggio carminio fanno risaltare la carnagione di Venere, lunare e perlata.
Fino ad ora, la Venere allo specchio di Velazquez e la Maya desnuda di Goya sono gli unici nudi femminili di tutta l'arte spagnola; sembra però che Velazquez abbia dipinto altri due nudi che sono andati persi nel tempo.
Il soggetto del quadro è mitologico e sta ad indicare il divino che si cela negli aspetti della vita quotidiana. Il ritratto risale al secondo soggiorno romano (1649-1650) e pare che la Venere fosse un'amante di Velazquez, anch'essa pittrice.

Il tema mitologico della Venere deriva in particolar modo da Tintoretto, da Tiziano e da Rubens, mentre le forme della dea provengono dalla statuaria classica. Esso raffigura la Venere, sdraiata su un letto, il cui viso viene riflesso in uno specchio tenuto in mano dal piccolo Cupido. Il tema dello specchio è ripreso dai pittori fiamminghi.
Secondo recenti studi, sembra che “la Venere abbia cambiato veste”. Analizzando il quadro sono infatti state trovate tracce di un colore malva-porpora sotto il lenzuolo grigio, colore che si può intravedere guardando bene nell'incavo delle ginocchia.

Diego Velázquez:

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=B95AMm_Zg54 

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=fU6-UNlbdYg

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=PDdyrBtAIac

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=9Typehqr5CE

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=54XvQEAPG8c

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=mh5KZksaKhU

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=uK1GEB-vei0

Diego Velazquez: http://www.youtube.com/watch?v=aeWgZ5G4-Ps


Diego Velázquez

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Autoritratto del 1643
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, più noto semplicemente come Velázquez (Siviglia, 6 giugno 1599Madrid, 6 agosto 1660), è stato un pittore spagnolo, l'artista più importante tra quelli presenti alla corte di Re Filippo IV di Spagna.
Fu uno degli artisti più rappresentativi dell'epoca barocca e un grande ritrattista. Tra il 1629 e il 1631 trascorse un anno e mezzo in Italia con l'intento di viaggiare e studiare le opere d'arte presenti nel paese, facendovi poi ritorno nel 1649. Oltre a numerose versioni di note scene storiche e letterarie, dipinse moltissimi ritratti dei membri della famiglia reale di Spagna, di altri importanti personaggi dell'Europa del tempo ed anche di persone comuni, attività che raggiunse il suo vertice massimo con la realizzazione del capolavoro Las Meninas (1656).

A partire dalla prima metà del XIX secolo l'opera di Velázquez ha rappresentato un modello a cui si sono ispirati i pittori dei movimenti realista e impressionista, in particolare Édouard Manet. Da allora, anche altri artisti moderni, tra cui gli spagnoli Pablo Picasso e Salvador Dalí e l'anglo irlandese Francis Bacon hanno pagato il loro tributo a Velázquez reinterpretando alcune delle sue opere più celebri.

 

La gioventù

Nato a Siviglia, in Andalusia, qualche giorno prima del 5 giugno 1599 (il 6 giugno è il giorno in cui fu battezzato), Velázquez era il figlio di Juan Rodríguez de Silva (vero nome João Rodrigues da Silva), un avvocato di origine ebrea-portoghese, e di Jerónima Velázquez che faceva parte della classe degli hidalgo, la nobiltà minore spagnola. (Per mantenere un legame con la famiglia materna in Spagna c'era l'abitudine che il primogenito maschio assumesse il cognome della madre). Recenti ricerche condotte da Mendez, Ingram e altri studiosi, non solo hanno quindi rivelato come egli non fosse di origini aristocratiche, ma come discendesse da una famiglia di Ebrei conversi.[1] I suoi genitori gli impartirono un'educazione molto religiosa e, dato che desideravano avviarlo ad una professione di tipo intellettuale, ricevette una buona preparazione linguistica e filosofica. Tuttavia dimostrò ben presto di possedere un talento artistico ed iniziò quindi a studiare presso lo studio di Francisco Herrera il Vecchio, un energico pittore che disprezzava l'influenza dell'arte italiana sulla prima scuola pittorica di Siviglia. Velázquez rimase con lui per un anno. Probabilmente è da Herrera che imparò ad usare i pennelli a setole lunghe.

Dopo aver lasciato lo studio di Herrera all'età di dodici anni, Velázquez iniziò a fare l'apprendista di Francisco Pacheco, un altro artista e maestro di Siviglia. Nonostante sia comunemente considerato un pittore mediocre e senza particolari virtù, Pacheco talvolta si esprimeva con uno stile semplice e realista, opposto a quello di Raffaello Sanzio che gli era stato insegnato. Velázquez restò nello studio di Pacheco per 5 anni, studiando le proporzioni e la prospettiva ed assistendo al susseguirsi delle tendenze nei circoli letterari ed artistici della città.

Il primo periodo a Madrid


Vieja friendo huevos (1618, It.: La vecchia friggitrice di uova). National Gallery Edimburgo.

Entro i primi anni del decennio 1620-1630 era già riuscito a costruirsi una buona reputazione e posizione sociale a Siviglia; sua moglie, Juana Pacheco (1 giugno 1602, 10 agosto 1660) figlia di Francisco Pacheco, che aveva sposato nel 1618, gli diede due figlie. La più piccola, Ignacia de Silva Velázquez y Pacheco, morì durante l'infanzia, mentre la primogenita, Francisca de Silva Velázquez y Pacheco (1619-1658), crebbe normalmente e finì per sposare il pittore Juan Bautista Martínez del Mazo nel 1633. In quel periodo Velázquez realizzò diverse opere degne di nota come i dipinti a soggetto sacro Adoración de los Reyes (1619 It. L'adorazione dei magi) e Jesús y los peregrinos de Emaús (1626 It. Gesù e i pellegrini di Emmaus), in cui inizia a trasparire il suo incisivo ed attento realismo.

Madrid e Filippo IV

Velázquez si recò a Madrid nella prima metà dell'aprile 1622, con una lettera di presentazione di Don Juan de Fonseca, anch'egli di Siviglia, che era stato il cappellano del re. Su richiesta di Pacheco dipinse il ritratto del celebre poeta Luis de Góngora y Argote. Velázquez lo ritrasse con una corona d'alloro in testa, ma in un momento successivo qualcuno ritoccò il dipinto ricoprendola e facendola sparire. È possibile sia che Velázquez per realizzarlo si sia fermato a Toledo all'andata come aveva consigliato Pacheco, sia che l'abbia fatto al ritorno da Madrid come invece aveva suggerito Gongora, che era un grande ammiratore di El Greco e compose una poesia in occasione della sua morte.

Nel dicembre 1622 morì Rodrigo de Villandrando, il pittore di corte preferito dal re, e Don Juan de Fonseca fece avere a Velázquez l'ordine di recarsi a corte del Duca-Conte de Olivares, il potente ministro di Filippo IV di Spagna. Gli furono dati 50 ducati (pari a 175 grammi d'oro) per coprire le spese e così partì accompagnato dal suocero. Fonseca ospitò il giovane pittore a casa sua e posò egli stesso per un ritratto che, una volta finito, fu portato al palazzo reale. A Velázquez fu commissionato un ritratto del re che, il 16 agosto 1623 posò per lui. Il ritratto fu finito in un solo giorno, pertanto non doveva trattarsi di molto di più di uno schizzo, ma piacque molto sia al re che ad Olivares.

Olivares ordinò a Velázquez di trasferirsi definitivamente a Madrid, promettendo che a nessun altro pittore sarebbe stato permesso di ritrarre il re e che tutti i ritratti preesistenti sarebbero stati fatti sparire dalla circolazione. L'anno seguente, nel 1624, ricevette dal re 300 ducati per pagare le spese del trasferimento di tutta la sua famiglia a Madrid, città che rimase la sua casa per il resto della sua vita.

Grazie ad un ritratto del re a cavallo, dipinto nel 1623, Velázquez si assicurò il posto di pittore di corte, con uno stipendio di 20 ducati al mese, oltre all'alloggio, l'assistenza medica e il compenso per i dipinti che avesse realizzato.

Il ritratto venne esposto sulla scalinata della chiesa di San Felipe, e fu accolto con entusiasmo, ma successivamente è andato perduto. Tuttavia il Museo del Prado possiede due ritratti del re realizzati da Velázquez (numeri di catalogo 1070 e 1071) nei quali si nota che la severità del periodo di Siviglia è scomparsa e i toni sono ora più delicati. Lo stile non è però mutato e si richiama a quello di Antoon Mor, il ritrattista olandese al servizio di Filippo II di Spagna che esercitò una notevole influenza sulla scuola spagnola. In quello stesso anno arrivò alla corte di Spagna il Principe del Galles, il futuro Carlo I d'Inghilterra.



Un ritratto del 1632 di Filippo IV di Spagna

Nel settembre 1628 Peter Paul Rubens arrivò a Madrid con l'incarico di emissario dell'Infanta Isabella e Velázquez gli tenne compagnia tra i dipinti di Tiziano al Escorial. In quel periodo Rubens era nel suo periodo di massimo splendore e influenza. I sette mesi di missione diplomatica dimostrarono la sua brillantezza sia come pittore che come uomo di corte. Aveva un'ottima opinione di Velázquez, ma non influenzò molto il suo stile pittorico; tuttavia la sua frequentazione ne accrebbe il desiderio di visitare l'Italia e vedere le opere dei grandi maestri italiani.

Nel 1627 re Filippo indisse una gara tra i migliori pittori di Spagna sul tema della cacciata dei mori e il vincitore fu Velázquez. Il suo dipinto finì distrutto nell'incendio del palazzo reale del 1734. Descrizioni dell'epoca dicono che rappresentasse Filippo III di Spagna che puntava il suo scettro contro una folla di uomini e donne scacciata da una carica di soldati, mentre la femminea personificazione della Spagna sedeva calma e rilassata. Come ricompensa Velázquez fu nominato cerimoniere di corte.

Cinque anni dopo averlo dipinto, ricevette un compenso extra di 100 ducati per il quadro Il trionfo di Bacco, realizzato nel 1629. Lo spirito e i propositi di quest'opera si capiscono meglio dal titolo spagnolo Los borrachos or Los bebedores (It. Gli ubriachi - I bevitori) ispirato dai personaggi che porgono un beffardo omaggio ad un giovane seminudo che siede su una botte di vino con il capo cinto d'edera.

Il tratto del dipinto è fermo e risoluto e si vede che l'artista padroneggia il gioco di luce e ombra con maggior sicurezza di quanto avvenisse nelle sue opere precedenti. Complessivamente il dipinto può essere considerato il migliore esempio dello stile di Velázquez del primo periodo.

Il viaggio in Italia

Nel 1629 Velázquez soggiornò in Italia per un anno e mezzo circa. La sua prima visita nella penisola è stata riconosciuta come uno dei momenti cruciali per lo sviluppo dello stile pittorico dell'artista spagnolo - e anche della storia del mecenatismo della corona di Spagna, dato che fu Filippo IV a finanziare il viaggio -, tuttavia non se ne conoscono molti particolari e dettagli: non si sa con precisione quali pittori incontrò, di quali vide le opere, come venne accolto e che tipo di innovazioni si proponesse di introdurre nella sua pittura.

La tradizione è solita dividere la carriera di Velázquez servendosi delle due visite in Italia, definendo come secondo periodo quello successivo alla prima visita e come terzo quello successivo alla seconda. Questa arbitraria categorizzazione può essere sostanzialmente accettata, anche se non è sempre applicabile perché, come succede per molti pittori, i suoi stili talvolta si sovrappongono l'un l'altro. Velázquez di rado firmò i propri quadri e negli archivi reali si trovano le date di realizzazione delle sole opere più significative. Per l'attribuzione dei suoi ritratti ci si deve affidare all'esame degli stessi e a ricerche storiche.

Il ritorno a Madrid

Velázquez dipinse il primo di molti ritratti del giovane principe erede del trono di Spagna, Don Baltasar Carlos, conferendogli un aspetto nobile e signorile nonostante fosse solo un bambino, vestito da feldmaresciallo sul suo cavallo che impenna. La scena è ambientata nella scuola equestre di palazzo, con il re e la regina che osservano da un terrazzo mentre Olivares fa da insegnante d'equitazione al principe. Don Baltasar morì nel 1646 quando aveva 17 anni, così, a giudicare dell'età che dimostra nel ritratto, si ritiene che esso sia stato dipinto attorno al 1641.

Il potente ministro Olivares fu il primo e più fedele protettore del pittore. Il suo volto impassibile e malinconico ci è stato reso familiare dai molti suoi ritratti che Velázquez ha realizzato. Due sono di notevole importanza; uno lo ritrae a figura intera, in una posa nobile e solenne, mentre porta la croce verde dell'Ordine di Alcantara e tiene in mano un bastone, simbolo della sua carica di Gran Cavaliere, l'altro lo ritrae invece a cavallo rappresentandolo in modo lusinghiero in veste di Feldmaresciallo in azione sul campo di battaglia. In questi ritratti Velázquez ha ripagato bene il debito di gratitudine che aveva nei confronti del suo primo mecenate, al cui fianco rimase anche quando Olivares stava cadendo in disgrazia, nonostante così agendo si esponesse al rischio di irritare il geloso re Filippo. Il re tuttavia non diede segni di malanimo nei confronti di quello che era anche il suo pittore preferito.

Lo scultore Montafles fece una statua modellandola su uno dei ritratti del re a cavallo realizzati da Velázquez, dipinto nel 1636, che fu poi trasformata in bronzo dallo scultore fiorentino Tacca e che attualmente si trova nel Palazzo Reale di Madrid. Il dipinto originale ispiratore non esiste più, ma ne sono invece sopravvissuti altri. Velázquez, in tutti i ritratti del re, dipinge Filippo mentre indossa la golilla, un colletto di lino rigido che dallo scollo si proiettava verso l'alto. Era stata inventata dal re stesso, che ne era così orgoglioso da celebrarlo con una festa a cui seguiva una processione diretta in chiesa per ringraziare Dio di quella benedetta idea. Per questo, la golilla rappresentava un capo di gran moda, e compariva nella maggior parte dei ritratti di gentiluomini dell'epoca.

Velázquez rimase sempre a disposizione di Filippo, accompagnandolo nei suoi viaggi in Aragona del 1642 e 1644, e senza dubbio era presente quando fece il suo ingresso a Leida da conquistatore. Proprio in quell'occasione dipinse un grande ritratto equestre in cui il re veniva rappresentato come un grande comandante alla guida delle sue truppe: un ruolo che Filippo in realtà non svolse mai. Tutto il quadro è pervaso da una grande animazione, ad eccezione dell'impassibile volto del re.

La ritrattistica

Oltre ai 40 ritratti di re Filippo, Velázquez ne eseguì anche di altri membri della famiglia reale come della prima consorte di Filippo, Isabella di Borbone e dei suoi figli, specialmente il maggiore, Don Baltasar Carlos. Inoltre per lui posarono cavalieri, soldati, religiosi e il celebre poeta Francisco de Quevedo (il cui ritratto si trova ora al Wellington Museum).


Pablo de Valladolid, un comico alla corte di Filippo IV. (1635)

Curiosamente non eseguì molti ritratti femminili, ma dipinse molti dei nani e dei buffoni al servizio del re. Li ritrasse con molto rispetto e simpatia, come si può vedere in Diego de Acedo, el Primo (1644), la cui espressione intelligente e il grande foglio con la bottiglietta d'inchiostro e la penna che gli stanno accanto lo mostrano come una persona più saggia e colta di molti cortigiani.

Anche Pablo de Valladolid (1635), un comico che sta evidentemente interpretando un ruolo, e El Bobo de Coria (1639) sono opere che fanno parte di questo periodo della carriera dell'artista.

In quegli anni realizzò anche il suo più grande dipinto a tema religioso, il Cristo crocifisso (1631-32). Si tratta di un'opera estremamente originale che ritrae Cristo nel momento immediatamente successivo alla morte. La testa del Salvatore pende su suo petto e una massa di capelli scuri copre parte del volto. La figura è sola su di uno sfondo scuro. Il dipinto fu allungato per adattarlo allo spazio che gli era stato assegnato in un oratorio, ma l'aggiunta è stata ora rimossa riportandolo alle dimensioni originali. Alcuni studiosi credono che il volto sia in realtà quello dello zio di Velázquez.

Il genero di Velázquez, Juan Bautista Martinez del Mazo, lo sostituì come cerimoniere nel 1634, e fece lui stesso una rapida carriera presso la corte di Spagna.


Filippo incaricò Velázquez di seguire un progetto che da tempo desiderava realizzare: la fondazione di un'accademia d'arte in Spagna. Il paese era ricco di dipinti, ma c'erano poche statue, e Velázquez fu quindi incaricato di tornare in Italia e fare alcune acquisizioni.

La seconda visita in Italia

Accompagnato dal suo servitore Pareja, a cui aveva insegnato a dipingere, Velázquez nel 1649 si imbarcò a Malaga diretto a Genova, spostandosi poi a Milano e Venezia, dove acquistò dipinti di Tiziano, Tintoretto e Veronese. A Modena fu ricevuto con entusiasmo dal Duca, per il quale eseguì tre ritratti, uno tuttora nella città emiliana, gli altri due ora esposti al museo di Dresda.
Queste opere fanno presagire l'inizio della terza e ultima fase della carriera del pittore, di cui il grande ritratto di Papa Innocenzo X esposto alla Galleria Doria Pamphilj di Roma rappresenta un eccellente esempio. Anche nella città eterna fu ricevuto con grande piacere dal Papa, che gli donò una medaglia e una catena d'oro.

Dopo aver realizzato il ritratto del Pontefice, Velázquez ne fece anche una copia, che riportò con se in Spagna. Esistono molte copie dell'opera in vari musei e gallerie e alcune di esse potrebbero essere state degli studi preparatori per l'originale o delle copie dipinte per Filippo IV. Velázquez in quest'opera si esprime nella manera abreviada, una locuzione coniata dai suoi compatrioti per definire il suo nuovo stile, più audace e marcato.

Il ritratto mostra una tale severità nello sguardo di Innocenzo che alcuni in Vaticano temettero che sarebbe risultata sgradita al Papa, ma Innocenzo invece ne fu molto soddisfatto ("Troppo vero!" avrebbe esclamato, guardandolo) e lo fece appendere nella sala d'aspetto delle visite ufficiali.
Nel 1650, sempre a Roma, Velázquez dipinse il ritratto del suo servo Juan de Pareja, ora al Met di New York.

Il ritratto gli garantì l'ammissione all'Accademia di San Luca. Presumibilmente il quadro servì come allenamento per prepararsi alla realizzazione del ritratto del papa. Mostra l'espressione di Pareja e i suoi vestiti sciupati e logori con una grande ricchezza di dettagli, pur presentando una notevole parsimonia nelle pennellate e nel tocco; si tratta di uno dei suoi ritratti più apprezzati e conosciuti.

Il ritorno in Spagna

Re Filippo desiderava che Velázquez tornasse in Spagna, di conseguenza, dopo una visita a Napoli, dove incontrò il suo vecchio amico José Ribera, nel 1651 rientrò sbarcando a Barcellona e portando con se molti dipinti e 300 statue che furono sistemate e catalogate per il re. Le statue che rappresentavano dei nudi erano però disprezzate dalla Chiesa spagnola e, dopo la morte di Filippo IV, queste opere a poco a poco finirono per scomparire. Isabella di Borbone era morta nel 1644 e il re si era sposato con Maria Anna d'Austria, che Velázquez iniziò a ritrarre in diverse pose.

Fu scelto dal re per ricoprire l'incarico di aposentador mayor (It. Gran maresciallo di palazzo) che comportava il compito di badare agli alloggi della corte, un ruolo di responsabilità e che certamente fu di ostacolo all'esercizio della sua arte. Tuttavia, ben lontane dal mostrare i segni del declino, le opere di questo periodo sono al contrario tra gli esempi migliori del suo talento.

Las Meninas


Las Meninas, completato nel 1656

La protagonista di Las Meninas sembra a prima vista essere una delle infante, Margherita, la figlia maggiore della seconda moglie del re. Tuttavia, osservando le varie parti del quadro, non è più tanto chiaro chi o che cosa sia il vero soggetto dell'opera. È la principessa o forse il pittore stesso? La risposta potrebbe trovarsi nell'immagine dipinta sulla parte posteriore, che ritrae il re e la regina. Si tratta del riflesso di uno specchio, nel quale caso la coppia reale si troverebbe di fronte al quadro al nostro posto? Sono loro il soggetto del quadro? Il dibattito sul vero soggetto di quest'opera è tuttora aperto, e molte delle domande che pone non hanno ancora ricevuto una risposta soddisfacente.

Dipinto quattro anni prima della morte dell'artista, è un caposaldo del periodo artistico del barocco europeo.

L'opera è stata esaltata sin dal momento della sua realizzazione; Luca Giordano, un pittore italiano dell'epoca, ne parlò come di una "teologia della pittura", e nel XVIII secolo l'inglese Thomas Lawrence lo citò come la "filosofia dell'arte", capace in modo chiarissimo di produrre gli effetti desiderati dall'artista. quali siano questi effetti è stato oggetto di diverse interpretazioni; Dale Brown propone un'interpretazione secondo cui, inserendo nel quadro un ritratto sfumato del re e della regina Velázquez intendesse pronosticare la caduta dell'Impero spagnolo che stava per raggiungere il vertice della propria parabola poco dopo la morte del pittore. Un'altra interpretazione è che il quadro sia di fatto uno specchio, e che tutto il dipinto sia realizzato secondo il punto di vista del re e della regina, quindi la loro immagine riflessa può essere vista sullo specchio posto sulla parete posteriore.

Si dice che sia stato il re a dipingere l'onorifica Croce Rossa dell'Ordine di Santiago sul petto del pittore, come oggi appare sul quadro. Tuttavia Velázquez non ricevette quel titolo che tre anni dopo l'esecuzione del dipinto. Neppure il re di Spagna avrebbe potuto nominare un suo protetto cavaliere senza il consenso della commissione incaricata di verificare la purezza della sua linea di sangue.

Lo scopo di queste ricerche sarebbe dovuto essere quello di impedire che venisse nominato qualcuno che avesse avuto anche tracce di eresia tra i suoi ascendenti - il che in pratica significava tracce di sangue ebreo o arabo, o che qualcuno si fosse contaminato dedicandosi alla pratica del commercio. I registri della commissione sono stati ritrovati tra gli archivi dell' Ordine di Santiago. Velázquez fu ammesso nell'ordine nel 1659. Fu giustificato perché, come pittore del re, evidentemente non era coinvolto nella pratica di vendere i suoi dipinti.

Il filosofo Michel Foucault, nel suo libro del 1966 Le parole e le cose, dedica il capitolo di apertura a una dettagliata analisi di Las Meninas. Spiega i modi in cui il dipinto evidenzia i problemi del concetto di rappresentazione grazie al suo uso di specchi e schermi e le conseguenti oscillazioni tra l'interno e l'esterno dell'immagine e la sua superficie.

Gli ultimi anni

Se non fosse stato per la sua nomina reale, che gli permetteva di sottrarsi alla censura dell'Inquisizione, Velázquez non avrebbe potuto realizzare il suo Venere e Cupido (1644-1648). Si tratta dell'unico nudo femminile dipinto dall'artista spagnolo.


Dettaglio di Las Meninas (l'autoritratto di Velázquez )

In Spagna all'epoca esistevano sostanzialmente solo due grossi protettori per gli artisti, ovvero la Chiesa e il re e la sua corte. L'artista preferito dalla Chiesa era Bartolomé Esteban Murillo, mentre Velázquez era protetto dalla corona. Va evidenziata una differenza: Murillo, che lavorò molto intensamente per la ricca e potente Chiesa di Spagna, alla sua morte aveva solo pochi soldi che bastarono appena per pagare il funerale, mentre Velázquez visse e morì godendosi ricchi stipendi e sovvenzioni.

Uno dei suoi ultimi lavori fu Le filatrici (La favola di Aracne), realizzato circa nel 1657, che ritrae una scena dell'interno della filatura reale. un quadro ricco di luce, aria e movimento, dipinto con colori intensi e vibranti e una mano molto attenta. Anton Raphael Mengs ha detto che quest'opera sembra non essere stata dipinta con le mani, ma con la pura forza di volontà. Vi si ritrova un concentrato di tutta l'esperienza artistica che Velázquez aveva accumulato nel corso della sua lunga carriera, durata più di quarant'anni.

Anche gli ultimi ritratti dei bambini del re sono tra le sue opere migliori. Tra questi quello dell'Infanta Margherita con un vestito azzurro, e l'unico ritratto rimastoci del malaticcio principe Felipe Prospero. Quest'ultimo si distingue per l'accostamento della dolcezza dei tratti del bambino e del suo cagnolino con un inafferrabile senso di tristezza che l'insieme trasmette. Come in tutte le sue ultime opere, il colore viene sfruttato in maniera straordinariamente fluida e vibrante.

Nel 1660, grazie al matrimonio di Maria Teresa di Spagna e Luigi XIV di Francia, venne stipulato un trattato di pace tra i due paesi; la cerimonia si svolse sull'Isola dei fagiani, una piccola isoletta paludosa nel fiume Bidasoa. Velázquez fu incaricato di curare la decorazione del tendone della corte spagnola e di tutto l'allestimento scenico del matrimonio. Attirò su di sé l'attenzione per la nobiltà del suo portamento e per lo splendore del suo abito.

Il 26 giugno tornò a Madrid e il 31 luglio fu colto da un attacco di febbre. Sentendo la fine vicina, firmò il proprio testamento, nominando come suoi soli esecutori la moglie e il suo caro amico Fuensalida, che curava i registri reali. Morì il 6 agosto 1660. Fu sepolto nella cripta dei Fuensalida nella chiesa di San Giovanni Battista. La moglie Juana morì anch'essa soltanto 8 giorni dopo e fu sepolta al suo fianco.

Sfortunatamente la chiesa fu distrutta dai francesi nel 1811, così oggi non si conosce con precisione dove si trovi la sua tomba. Fu molto difficile sbrogliare i complicati conti in sospeso che erano rimasti tra Velázquez e la tesoreria, e la situazione non fu sistemata fino al 1666, dopo la morte di re Filippo IV.

I discendenti

La figlia di Velázquez fu un'antenata dei Marchesi di Monteleon, tra cui Enriquetta Casado che nel 1746 sposò Heinrich VI, Conte di Reuss zu Köstritz, che ebbe un gran numero di discendenti tra l'aristocrazia tedesca, come il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, padre dell'attuale regina Beatrice dei Paesi Bassi.

Il successo dell'opera di Velázquez

Fino al XIX secolo, l'opera di Velázquez rimase poco conosciuta al di fuori della Spagna. Molti dei suoi dipinti scomparvero, rubati dai soldati francesi durante la Guerra d'indipendenza spagnola. Nel 1828 Sir David Wilkie in visita a Madrid, dopo aver visto le opere di Velázquez, scrisse che sentiva di essere in presenza di un nuovo fenomeno artistico, e che allo stesso tempo vedeva una notevole affinità tra il lavoro di quest'artista e quello dei ritrattisti della scuola britannica, in particolare Henry Raeburn.

Fu particolarmente colpito dall'impressione di modernità che traspirava dalle opere di Velázquez, sia che si trattasse di paesaggi che di ritratti. Al giorno d'oggi, la sua tecnica e la sua personalità hanno procurato a Velázquez un ruolo molto importante nella storia dell'arte europea, e viene spesso considerato il padre della scuola artistica spagnola. Anche se conosceva bene gli artisti italiani ed era amico dei principali artisti della sua epoca, la sua personalità fu abbastanza forte da resistere alle influenze esterne e trovare da solo la strada per sviluppare il suo talento.

Velázquez viene spesso citato come una delle principali influenze di Édouard Manet, e la cosa assume una notevole rilevanza se si pensa che Manet è a sua volta spesso considerato come l'artista-ponte tra il realismo e l'impressionismo.

Definendo Velázquez "Il pittore dei pittori" Manet espresse la sua ammirazione per il vivido tocco di pennello che caratterizzava l'artista spagnolo tra i suoi contemporanei dell'epoca barocca, fedeli ad uno stile piuttosto classico.

Reinterpretazioni moderne delle sue opere

L'importanza dell'arte di Velázquez è anche oggi evidente considerando con quale rispetto i pittori del XX secolo si sono accostati al suo lavoro. Pablo Picasso rese il più duraturo omaggio a Velázquez nel 1957, quando dipinse una propria versione di Las Meninas nel suo caratteristico stile cubista. Anche se temeva che se avesse rifatto il quadro di Velázquez sarebbe stato visto solo come una copia e non come un lavoro originale, si mise ugualmente al lavoro e l'enorme dipinto—il più grande che abbia realizzato dopo Guernica del 1937— si guadagnò un posto di grande importanza nella storia dell'arte spagnola.

Anche Salvador Dalí come Picasso, anticipando il trecentennale della morte di Velázquez, nel 1958 realizzò un'opera chiamata "Velázquez mentre ritrae l'Infanta Margarita con le luci e le ombre della sua gloria"; lo schema dei colori rivela che il tributo di Dalì a Velázquez era davvero sentito; l'opera servì anche, come nel caso di Picasso, come mezzo per diffondere le nuove teorie artistiche, nel caso di Dalì, il suo misticismo nucleare.

Il pittore anglo-irlandese Francis Bacon trovò che il ritratto di Papa Innocenzo X fosse uno dei più grandi ritratti mai realizzati. Creò così negli anni cinquanta diverse interpretazioni dell'opera in chiave espressionista: i dipinti di Bacon però, rappresentavano il Papa con un aspetto raccapricciante, perché era morto da secoli. Una di queste celebri variazioni, intitolata Figure with Meat, mostra il Papa tra le due metà di una mucca sezionata.

Opere


Adorazione dei Magi. 1619

Cristo crocifisso del 1631

Diego de Acedo, el Primo. 1644

Musei


L'infante Filippo Prospero. 1659

Elenco dei musei che espongo opere dell'artista:

Note

  1. ^ Otaka, Yasujiro: An Aspiration Sealed. [1] Verificato il 5 novembre 2007.

Bibliografia

  • Brown, Jonathan (1986) Velázquez: Painter and Courtier Yale University Press, New Haven, ISBN 0-300-03466-0  ;
  • Brown, Jonathan (1978) Images and Ideas in Seventeenth-Century Spanish Painting Princeton University Press, Princeton, NJ, ISBN 0-691-03941-0 ;
  • Brown, Dale, The World of Velázquez: 1599–1660, New York, Time-Life Books, 1969. ISBN 0-8094-0252-1
  • Calvo Serraller, Francisco, Velázquez:, Madrid, Electa, 1999. ISBN 84-8156-203-3
  • Wolf, Norbert (1998) Diego Velázquez, 1599-1660 : the face of Spain Taschen, Colonia, ISBN 3-8228-6511-7 ;
  • "Diego Velázquez" (1911). Encyclopædia Britannica, 11th ed. Londra: Cambridge University Press.
  • Davies, David and Enriqueta Harris (1996) Velázquez in Seville National Gallery of Scotland, Edimburgo, ISBN 0-300-06949-9 ;
  • Enriqueta Harris resalta la 'pasión británica' por Velázquez en un simposio en Sevilla in El Pais Digital. URL consultato il 15 novembre.
  • Erenkrantz, Justin R. "The Variations on Past Masters". The Mask and the Mirror. Verificato il 15 novembre 2007.
  • Goldberg, Edward L. "Velázquez in Italy: Painters, Spies and Low Spaniards". The Art Bulletin, Vol. 74, No. 3 (Sep., 1992), pp. 453-456.
  • "Velázquez, Diego" (1995). Enciclopedia Hispánica. Barcellona: Encyclopædia Britannica Publishers. ISBN 1-56409-007-8.
CATALOGO COMPLETO DI TUTTE LE OPERE DI DIEGO VELAZQUEZ:

http://www.google.it/images?hl=it&source=imghp&biw=1276&bih=588&q=diego+velazquez&gbv=2&aq=0&aqi=g1&aql=&oq=DIEGO+VELAZQUEZ&gs_rfai=



§ * * * INFINITAMENTE_PER L'ETERNITA'* * * §